“Arlecchino volle essere uno spettacolo popolare, tipicamente italico, libero di se, il più anti-intellettualistico possibile, uno spettacolo che riavvicinando noi stessi alle fonti dell’immortale commedia dell’arte, con le sue immortali maschere, ci facesse ritrovare alcune radici più profonde e più nostre”.  (Giorgio Strehler, 1955).

Quanta meraviglia e sapore di casa e semplicità controversa e attualità passata… Arlecchino servitore di due padroni è come si suol dire “un sempre verde”.

Questo spettacolo ha un che di magico e coinvolgente di per se, ha fatto letteralmente la storia della commedia dell’arte e del teatro italiano in generale, ma la cosa fenomenale è la presenza di Ferruccio Soleri, interprete protagonista che, ormai superata l’ottantina, vanta nel ruolo più di 1700 rappresentazioni in tutto il mondo, spaventoso.

Ma andiamo con ordine.

Siamo stati al Piccolo Teatro Grassi per assistere a quet’attesissima piéce, non c’è sipario, in sostituzione una fila di grosse candele in proscenio, a bordo palco, che, al principiare di ogni atto, un simpatico personaggio si china accendendole una per una, segnalando al pubblico che lo spettacolo comincia, che poi spegnerà ad ogni termine; alla vecchia maniera cinquecentesca insomma, perché si sa, a quell’epoca l’illuminotecnica era poco tecnica, l’elettricità è venuta dopo.

Vediamo un piccolo palchetto montato sul palco stesso dove si svolgono le vicissitudini strettamente legate alla commedia, ma non solo, ai due lati vediamo l’andirivieni dei componenti della compagnia, che salgono e scendo dallo spazio scenico, diventando ora personaggi, ora attori dietro le quinte, o meglio, interpreti dei commedianti del passato dietro le quinte. Totalmente meta teatrale.

L’abilità mostrata da tutto il cast è stata davvero strabiliante, hanno cantato, ballato, per non parlare dei movimenti perfettamente calibrati e sinergici, delle acrobazie, delle divertenti gag di giocoleria.

La versione che abbiamo visto, è “L’edizione de carri”, portata in scena per la prima volta a Villa Litta che nel lontano 1963 vede, posti ai lati di un piccolo palchetto montato all’aperto, i fantomatici “carri” che le vecchie compagnie di giro utilizzavano per spostarsi di città in città, con all’interno tutto l’occorrente per lo spettacolo (ma erano anche le loro case!). Scritta da Strehler espressamente per Soleri, ha appunto il preciso intento di portare in scena, sotto gli occhi del pubblico la vita dei commedianti dell’arte, i loro amori, liti, giochi.

Come potrete intuire dalle numerosissime repliche, l’Arlecchino servo di due padroni di Strehler ha subito nel tempo evoluzioni pazzesche, sia interne alle stagioni che nel loro susseguirsi. Il primo a dargli vita fu Marcello Moretti che, assistendo al saggio degli allievi dell’accademia di Roma “La figlia obbediente”, vede Ferruccio Soleri e lo caldeggia come sostituto dell’Arlecchino. Moretti non era solito fare acrobazie, la sua recitazione era più dura, rozza, sarà poi Soleri a rendere questo personaggio più leggero e “farfallino”, inserendo anche giocoleria e acrobatica. La maschera in principio era dipinta direttamente sul volto; la maschera di questo personaggio, come la conosciamo noi, nascerà dalla ricerca e dall’amicizia fra Amleto Sartori e lo stesso Moretti che negli anni del dopoguerra andavano in giro per le campagne venete a scoprire nelle ville le sculture dei personaggi della commedia dell’arte e li, osservandole e studiandole, studiando il movimento, nasce nasce la maschera come scultura viva.

Si pensa spesso, erroneamente, che questo genere spettacolare sia “semplice”, non c’è nulla di più falso; in particolare in questo spettacolo basti pensare al capillare ed estenuante studio sul corpo, la sua mimica oltremodo complessa (perché la maschera copre il viso e l’emozioni dovranno essere rese da braccia, gambe, mani, dita, voce, postura) che dovrà essere allo stesso tempo chiara, esplicativa, diretta. Come ha detto Strehler, “questo è uno spettacolo che vuole essere popolare” e popolare è stato, perché ha raggiunto e raggiungerà sempre ogni genere di pubblico, in ogni parte del mondo, perché anche l’ostacolo linguistico non è più tale.

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