Le piccole vicende umane sono chiavi di lettura della storia minima di intere generazioni. Ne raccontano le sofferenze, le speranze, i sogni, il dolore e le illusioni. Sono espressioni di un mondo ormai dimenticato dal tempo, oltraggiato dal mito del progresso, ma onorato dalla memoria. Quella memoria che fa rivivere personaggi come Caprò, contadino abruzzese, che si chiude nel proprio fazzoletto di terra che custodisce come tesoro prezioso e unico. Anche lui, cocciuto, gretto e schivo, è depositario di una memoria. Quella di una tragedia del mare, avvenuta il 17 marzo 1861: un bastimento, la nave Utopia, che affonda al largo dello stretto di Gibilterra, trascinando con sè in mare circa 600 persone. Caprò, interpretato da Edoardo Oliva, è il regista e protagonista dell’omonima drammaturgia scritta da Vincenzo Mambella e prodotta dalla compagnia Teatro Immediato, che apre, martedì 30 maggio alle ore 19 al Teatro Sybaris, l’edizione 2017 di Primavera dei Teatri, la rassegna teatrale sui nuovi linguaggi della scena contemporanea, che si tiene a Castrovillari (CS), e che è giunta ormai al suo diciottesimo anno.
Abbiamo intervistato Oliva alla vigilia del suo debutto calabrese.
Caprò è ispirata a una tragedia del mare, emigranti italiani che affondano davanti al porto di Gibilterra. Una storia che affronta un tema diventato di stretta e triste attualità, a causa delle tante tragedie che avvengono nel Mediterraneo. La politica italiana ed europea sembra irrimediabilmente impotente, perché secondo lei?
Il fenomeno dell’emigrazione nel continente europeo in questi ultimi anni ha raggiunto proporzioni bibliche di non facile controllo, e gli ultimi attentati terroristici di certo non favoriscono le soluzioni. Il fenomeno è davvero complesso.Non va dimenticato che all’origine ci sono guerre in cui l’Occidente ha la sua bella parte di responsabilità, così come non si può escludere una parte di responsabilità degli stessi paesi di origine degli emigranti. Ma il fatto è che, al di là degli accordi e della normativa di facciata, l’Europa non ha una condotta univoca nella gestione del problema. Va rivisto e ripensato il futuro demografico e culturale del nostro continente in cui la cifra sarà inevitabilmente quella del multiculturalismo e, fermo restando gli opportuni e necessari controlli, alzare muri e steccati non arginerà un fenomeno naturale ed epocale.
Associato al tema dei migranti c’è quello dell’integrazione. Tra gli italiani fa sempre più largo la paura del diverso. Dal suo punto di vista l’Italia è un paese irrimediabilmente razzista?
Il vero tema infatti è proprio quello dell’integrazione. L’accoglienza è solo un primo passo di civiltà. Tranne che in Germania, in tutti gli altri attentati i responsabili erano cittadini europei. Non so se l’Italia sia un paese “irrimediabilmente razzista”. Certo è che L’Italia a differenza della Germania non ha mai fatto fino in fondo i conti con la parte più oscura del suo passato. La Germania da decenni accoglie ed integra il numero più alto di emigranti provenienti non solo dell’Europa (tanti italiani) ma anche dal Medio Oriente (ci sono più di 3 milioni di turchi). Dalla metà dell’Ottocento ad oggi gli italiani emigrati nel mondo sono stati circa 30 milioni (tra questi anche alcuni fenomeni non proprio edificanti come la mafia) che si stima abbiamo generato una popolazione italiana di circa 80 milioni di persone. C’è un’altra nazione italiana nel mondo, eppure vediamo nello straniero spesso un nemico e non una risorsa. La memoria corta, ahimé, è un’altra caratteristica atavica del nostro paese.
Caprò è un contadino che si chiude in se stesso e che non sa affrontare la realtà e i suoi imprevedibili accadimenti. In lui c’è un attaccamento viscerale alla terra, quasi unica depositaria di consolazione e di ricchezza. Ci sembra di scorgere alcuni tratti dei personaggi di “Fontamara” di Ignazio Silone, dove però aveva un ruolo la politica, grazie alle lotte contadine e agli ideali socialisti. Perché invece la scelta di una figura così chiusa, in contrasto con l’accoglienza tipica del mondo contadino?
Si, Caprò per alcuni versi ricorda i “cafoni” abruzzesi di Silone. In realtà la chiusura di Caprò è conseguenza di una vita e di rapporti parentali che hanno determinato l’anticamera della sua tragedia. Nello spettacolo noi abbiamo preso spunto dal naufragio della nave Utopia, ma il fatto storico e l’emigrazione restano sullo sfondo. Abbiamo confinato la dimensione “politica” immaginando una piccola vita anonima, un uomo che vive il suo vero naufragio sul suo pezzetto di terra, all’interno della sua famiglia. Lo stesso appellativo con cui viene chiamato, Caprò appunto, tradisce l’origine, la τραγῳδία.
Partendo dallo storico e tragico naufragio e da un substrato arcaico, abbiamo cercato un approdo che rendesse questa piccola vicenda umana, così lontana nel tempo, universale.
Di Vincenzo Mambella ha diretto recentemente anche Gyneceo, che racconta il mondo contadino sotto un altro punto di vista, quello delle donne riunite davanti al sugo della domenica. Cosa possiamo imparare dal mondo contadino?
Gyneceo, dove le protagoniste sono tre donne di diverse generazioni, è la seconda tappa, dopo Caprò, di una trilogia “sull’erranza”. In Caprò i frammenti della sua anima, esplosi ed impazziti, cercano di ricomporsi nella partenza, una partenza senza esito, senza ritorno. In Gyneceo la partenza è spinta verso il ritorno, l’andare e venire verso l’origine, il ricomporsi là dove tutto è iniziato. Il ritrovarsi nel rituale della preparazione del sugo si fa, pertanto, pratica di memoria. In tempi chiassosi, confusi e urlati il mondo contadino c’insegna il rito, la pazienza, la cura, l’ascolto, il silenzio, l’ascolto del silenzio.
In un momento dello spettacolo Caprò dice: “La vita mia è andata avanti come quella delle piante dell’orto: le patate con il caldo, le cipolle con il freddo, piano piano, il tempo che ci vuole”. Se fossimo più attenti scopriremmo che, paradossalmente, sono proprio le culture degli emigranti mediorientali e africani con i loro tempi e le loro ritualità a rimetterci in contatto con le radici più profonde della nostra cultura.
Teatro Immediato è una delle compagnie più attive del mondo teatrale italiano contemporaneo. Cosa possono fare secondo lei il teatro e la cultura in genere per migliorare la società? E quali sono a suo giudizio le considerazioni rispetto a quanto fa la politica italiana per la cultura oggi?
Il teatro e la cultura in genere sono apertura, riflessione, relazione. Cultura viene dal latino “colere”, coltivare e qui torniamo alle pratiche contadine. Lavorare nella cura dell’altro quotidianamente, nell’ordinario, esplorando e condividendo i temi della vita, trovo che negli attuali tempi sia salvifico. Noi proviamo a farlo da anni sul nostro territorio. Tre anni fa ho ideato un festival – “La cultura dei legami”, giunto quest’anno alla terza edizione – in cui utilizziamo gli strumenti teatrali per ricucire le ferite, per comporre le fratture e le frammentazioni del vivere comune. La politica italiana attuale trova che la cultura sia un orpello, un accessorio di cui si può anche fare a meno e quando va bene si occupa dello “straordinario” senza aver percorso, ispirato, sostenuto la quotidiana strada della “cura ordinaria”. Troppo difficile, i tempi della politica molto spesso non coincidono con quelli della cultura. Ecco, il festival Primavera dei teatri rappresenta un formidabile esempio di “cura” che parte da lontano e che dimostra come le scommesse più ardite, con tenacia e talento, riescono a volte ad essere vinte accorciando i tempi e le distanze con le istituzioni.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Io e Vincenzo Mambella, autore di diversi testi messi in scena dal Teatro Immediato, stiamo lavorando alla terza tappa della trilogia “dell’erranza”. Questa volta saranno due fratelli, anche loro in un contesto di epoca passata, e saremo in scena io e lui. Io e Vincenzo con cui , insieme ad altri compagni di viaggio, tredici anni fa abbiamo fondato Teatro Immediato (nell’attuale formazione oltre noi c’è Valeria Ferri), siamo amici da bambini ed abbiamo iniziato a fare teatro insieme tanti anni fa. Dare vita ad un progetto per noi è sempre molto di più che mettere in scena uno spettacolo…
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Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…