L’attore e regista cosentino porta in scena una drammaturgia non facile che esplora una realtà, quella dei malati di Alzheimer, ancora tabù per la nostra società  

noteverticali.it_dario_de_luca_matilde_piana_il_vangelo_secondo_antonio_foto_manuela_giusto_2Don Antonio Cantalamessa è il parroco della piccola comunità di Bivongi e vicario generale del vescovo. Un sacerdote attivo e fortemente impegnato nel sociale, che si prodiga per trasformare in atti concreti il messaggio evangelico, portato sia ai parrocchiani che ai tanti profughi che sbarcano periodicamente sulle coste vicine. A supportare il sacerdote, con fedeltà e pazienza, la perpetua e sorella Dina e il giovane diacono. Gli stessi che si troveranno, inermi e impotenti, a dover affrontare la terribile malattia che nel giro di poco tempo colpirà don Antonio, l’Alzheimer. Di giorno in giorno, l’esistenza del prelato si avvierà verso un lento ma progressivo declino, caratterizzato da un rovinoso precipitarsi verso l’abisso in cui inevitabilmente il religioso piomberà perdendo ogni riferimento con la ‘normalità’. Diventato quasi un vegetale, e nel nebuloso ondeggiare delle proprie insicurezze, don Antonio sembrerà trovare un sottile ma costante riferimento solo nella statua di Cristo Crocifisso, unica figura verso cui il religioso mostrerà cura e attenzione.

noteverticali.it_dario_de_luca_davide_fasano_il_vangelo_secondo_antonio_foto_manuela_giusto_3Il Vangelo secondo Antonio”, scritto e diretto da Dario De Luca e prodotto da Scena Verticale, ha il grosso merito di affrontare un argomento ancora tabù per la società di oggi, nonostante siano oltre 600mila solo in Italia (ultimo dato Censis) le persone affette da questa malattia. Un lavoro non facile, quello di De Luca, su un tema che sarebbe stato comoda preda del pietismo e della banalità, che però qui viene elaborato con la dovuta attenzione e il necessario rispetto. Un rispetto che sa di dignità sia verso il malato che verso chi lo assiste, non meno sofferente e non meno a disagio per una patologia che bombarda in modo vigliacco la mente di chi ne è colpito con la consapevolezza della propria invincibilità. La drammaturgia, partorita a seguito di una profonda ricerca sull’argomento, offre allo spettatore un personaggio reso schiavo dalla malattia, che non ha più contatti con la realtà finendo per manifestare continue reazioni incontrollate, che vanno dall’ira al pianto, alla totale assenza, che gettano nel panico la devota sorella-perpetua e il giovane diacono chiamato a raccogliere l’eredità spirituale del sacerdote e a non disperderne l’insegnamento. Già, perché l’unico modo per sconfiggere una patologia invincibile sembra essere quello raggiungibile solo da chi, familiare o amico, cerchi di rifugiarsi nei meandri della memoria, dove tutto appare normale e possibile, traslando idealmente quel ‘tutto’ verso un luogo, un momento, in cui ogni sensazione, pensiero o sentimento (banale o meno, si veda l’esempio della citazione di Gianni Bella, il cantante preferito dal sacerdote) possa essere condiviso. E allora quel “come diceva don Antonio” pronunciato dal diacono neosacerdote al termine dello spettacolo diventa testimonianza viva di un messaggio, quale quello pastorale, che va al di là degli uomini e della loro corporeità, bypassando i limiti tutti umani della caducità che ci appartiene. Troppo facile (e catechistico!) però circoscrivere il lavoro leggendolo sotto gli occhi della fede cristiana. Più doveroso, invece, rivestirlo di quella complessità che merita tutta, e che fa sorgere mille e più interrogativi sulla labilità del confine tra fede e ragione, e su quale sia il reale senso di un’esistenza ridotta ai minimi termini, dove l’unica forma di reattività, e quindi di vita, sembra essere quel gesto, compiuto dal protagonista, di abbracciare la statua di Cristo crocifisso, quel “povero giovane ingiustamente condannato a morte” verso il quale don Antonio proietta (ricambiata, ce lo fa dire la fede, ancora una volta…!) la propria pietas. Un gesto che testimonia, magari inconsapevolmente, un sentimento umano in un corpo devastato dall’Alzheimer, e che è, a nostro avviso, la chiave della drammaturgia rappresentata in scena.

noteverticali.it_dario_de_luca_il_vangelo_secondo_antonio_foto_manuela_giusto_1Il vangelo secondo Antonio” è poi la conferma, se mai ve ne fosse ancora bisogno, di un talento recitativo indubbio quale quello di Dario De Luca, capace di spaziare dai registri più leggeri, ma non meno impegnati, del teatro-canzone di gaberiana memoria a quelli più intimamente dolorosi propri di un’opera come questa, che impressiona per il rigore con cui affronta, in un colpo solo, due argomenti delicatissimi: la malattia e la religione. Affiancato da due spalle validissime quali Matilde Piana e Davide Fasano, De Luca si distingue per un’interpretazione di rilievo che non rasenta mai il grottesco, ma semmai presta il fianco a una maschera di sofferenza e di disperazione che trasuda dignità e coraggio, e che celebra il teatro come epifania catartica e che si estende a chiunque – malati e loro famiglie – possa riconoscersi nella storia del personaggio rappresentato. Una recitazione accompagnata, a fine spettacolo, da un tripudio di applausi, meritatissimi.

Da segnalare le musiche di Gianfranco De Franco e la scenografia, volutamente scarna, nella quale però la variazione della posizione del Cristo crocifisso (inizialmente, con Antonio sano, in alto, e poi, con Antonio malato, in basso accanto a lui) acquista un forte valore simbolico.

Il Vangelo secondo Antonio, scritto e diretto da Dario De Luca, con Dario De Luca, Matilde Piana, Davide Fasano, musiche di Gianfranco De Franco, una produzione Scena Verticale. Visto al Teatro Morelli di Cosenza il 26 dicembre 2016.

(Le foto di questo articolo sono di Manuela Giusto)

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...