Brunori Sas - Il cammino di Santiago in taxiApprofittando di una fredda serata d’inverno, sono salito in taxi per andare a Santiago con Dario Brunori e la sua visionaria fantasia d’artista. In parole povere, ho ascoltato Il cammino di Santiago in Taxi, in uscita il 4 febbraio, che è appunto il titolo del volume terzo della discografia brunoriana, dopo Vol.1 e Poveri Cristi.
Undici tappe che, una dopo l’altra, dischiudono orizzonti e indagano nell’intimo, e non si lasciano certo spaventare dalla distribuzione di una major come Sony. Dopo l’ascolto del disco, se fossi un critico musicale di professione lo definirei ‘un lavoro maturo, che conferma il talento del giovane Brunori’. Non sono un critico per professione, non ho bisogno di conferme, quindi mi prendo tutta la libertà di dire che Dario Brunori è per me una certezza. Certo, ci sono richiami al già sentito, echi di ‘Poveri Cristi’, e c’è l’uso, che a volte va stretto, della rima a tutti i costi. Ma c’è lo stile, irriverente e canzonatorio, ma non solo, e soprattutto una miniera di idee, pennellate mature e intime che mostrano quanto Dario Brunori abbia da dire nel panorama musicale italiano di oggi, e quanto la musica cosiddetta ‘indipendente’ meriti finalmente (Sony l’avrà capito) ben altri spazi che il passaparola e il live. Una maturità che Brunori vuole imprimere già dalla copertina: nel volume 1 un bimbo allegro e scanzonato, oggi un primo piano con la sua faccia, barba e occhiali compresi, quasi sorpreso dall’obbiettivo. Il disco, prodotto da Taketo Gohara, già collaboratore di Mauro Pagani, Vinicio Capossela e Negramaro, è stato registrato a Belmonte Calabro, in un ex convento dei Cappuccini. Ma andiamo alle canzoni.

Arrivederci tristezza” nasce come “La disciplina della terra” di Fossati, ma appena arriva la voce ti rendi conto che Brunori è vivo e lotta insieme a noi. Il piano iniziale è il viatico più naturale per un brano dalla forza dirompente, che evoca la tenerezza passeggera e per questo preziosissima, che nasce lento per trascinare poi l’ascoltatore in un refrain condivisibile dove il sentimento mette ko la ragione. “Milioni di libri non servono a niente se servono solo a nutrire una mente che mente”. E ancora: “Sono più duro di un mulo, ti ho preso per il culo, ma il culo è più giù“. L’intelletto va a letto, e siamo più contenti così. Mambo reazionario” è una vera e propria chicca: Brunori prende in giro l’impegno politico, gli ideali, e tutti i desideri che sfociano nella disillusione. Evviva il matrimonio in Chiesa, meglio il figlio del Bianconiglio, al diavolo Maria e le molotov, pfui alla felce e al mirtillo (!) con il pugno chiuso (nascosto in tasca, che sembra un armadillo, ahiahi la rima per forza no!), e non importa se il mambo sia un po’ precario, se i soldi comunque latitino e se Che Guevara ora balli felice con Pinochet sulle basi di Beyoncè. L’ombra di zio Rino Gaetano che, in un angolo, fa inevitabilmente l’occhiolino, sorride e ringrazia.

Kurt Cobain” è il coraggioso singolo che ha fatto da apripista al disco. Nessun refrain che resta in mente, nessuna rima simpatica, solo parole e soprattutto vita, e nessun blu dipinto di blu. Sembra ci sia il Dalla del “E non andar più via”, mentre il rigore del violoncello taglia le corde della malinconia, e dà la misura del brano, che legge la vita con il metro dell’esistenza e della solitudine umana, attraversata dal successo ma non per questo necessariamente estranea all’infelicità. A volte basta un tocco di vernice per regalare al mondo un’intuizione degna di Picasso: e questo è il tocco di vernice di Dario, e il capolavoro del disco. Dopo, arriva “Le quattro volte“, necessaria e piacevole boccata d’aria, ispirato al film omonimo di Michelangelo Frammartino: atmosfera western grazie al banjo iniziale, il brano si ascolta piacevolmente facendo fatica a non muoversi per accompagnare il ritmo. Nel ciclo delle stagioni che si susseguono, tra Capodanno, Carnevale, Ferragosto e Natale, tra i fiumi dentro i mari e i fumi nei camini, si può sempre nascere un’altra volta: vallo a dire a Kurt o a Marylin, ma questo è un altro discorso. “Il santo morto” è testimone di ‘blasfemie’ dichiarate, tra Padre Pio e il Pulcino Pio, tra Giovanna D’Arco e Giordano Bruno che cantano “Come on baby, light my fire” (…ma come si fa?! Ma a Dario perdoniamo anche questa…). Gli arrangiamenti, da adesso in poi, strizzano l’occhio all’elettronica, e tra Cocoon e Nonna Pina siamo sicuri che questo sarà un pezzo bomba per i live. “Il manto corto” è Battisti da “Anima latina”, non c’è dubbio: jam session libera e anarchica, ovvero casino musicale che in due minuti e mezzo richiama echi finanche carioca, con il sax alla Senese che detta legge, per poi sfociare in un’esclamazione in puro stile bruzio: ‘…ah mi sign ammazzat’…

Maddalena e Madonna” è la sorella musicale (e forse non solo) di “Tra milioni di stelle”: l’atmosfera è malinconica e disincantata, da dandy, mentre il rimario brunoriano, in un continuo alternarsi di parole che evocano immagini, si arricchisce di nuove perle. ‘Te’ fa rima con ‘barrè’, e il sax ricama sornione, tra terroni, borsoni, treni, libri, Sud. Con “Nessuno” il pop trova il suo riscatto, con una batteria british che tiene il pezzo in perfetta simbiosi con il basso, e un testo che permette a Brunori di indagare non senza autoironia sulla propria esistenza. Ci vedo ancora Battisti, stavolta quello più anglosassone degli ultimi dischi con Mogol. Anche qui il sax, che stavolta entra sul finire, si impone di prepotenza e domina per tutto il finale, ancora perfettamente anarchico. Qui forse non capiamo molto l’esigenza del tappeto di tastiere che copre un po’ tutto il resto, ma immaginiamo che dal vivo il brano avrà una coda lunga e trascinante.

Lo ska di “Pornoromanzo, che immagina un gioco delle parti in un’atmosfera alla “Lolita” di Nabokov, declinazione estrema di ciò che qualcuno chiama amore, strizza l’occhio a certe melodie anni ’60: il refrain sembra richiamare addirittura qualcosa dei primi Baustelle. Originale, senz’altro, il “le stelle sono tante, milioni di milioni, non rompere i coglioni e levati i pantaloni“: qualche fan talebano di De Gregori forse si scandalizzerà, noi certamente no. La crisi di coppia è invece il tema de “La vigilia di Natale“, dove Brunori al 100% richiama se stesso (stavolta tocca al fantasma de “Il giovane Mario”): la rima ‘cometa-dieta’ vince il premio dell’originalità, malinconia e pianoforte vanno a go-go. “Sol come sono sol” è il divertissment di commiato del disco, dove il tema dominante (la solitudine di un uomo dopo l’abbandono della sua metà, appena sposata) diventa la scusa per un giochino di parole con le note. A differenza di “Alice”, qui ad impazzire è la sposa, che fugge, lasciando nella tristezza il povero consorte a crogiolarsi nel suo abbandono.

Il disco finisce qui. Esame superato a pieni voti. Brani orecchiabili ma non stupidi. Brunori mostra di gigioneggiare benissimo con i presunti nonsense, ma è perfettamente a suo agio quando la malinconia entra nelle sue corde: non è un caso che “Arrivederci tristezza” e “Kurt Cobain” siano una spanna su tutti. La giovane leva cantautorale degli anni zero è cresciuta. E in concerto ci sarà da divertirsi, ne siamo sicuri.

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...