Anna Oxa, in decenni di instancabile ricerca, è riuscita a trasformare la propria voce, il proprio canto in qualcosa che va al di là della semplice espressione, della semplice comunicazione, una voce e un canto che attingono, simultaneamente e con stesso slancio, all’organico e all’intangibile, quasi fossero immagine e punto di contatto tra l’infinitamente piccolo dell’uomo in questo mondo e l’immenso altrove che pure ci riguarda…

Scrivevamo così, su queste pagine, parlando dell’inedito Primo cuore (Canto nativo), due anni fa, quando il ritorno di Anna Oxa sul palco più famoso (e chiacchierato) d’Italia non era nemmeno immaginabile, e proprio queste stesse parole, ora, ci sembrano non solo le più adatte per introdurre il suo nuovo Sali (canto dell’anima), ma anche le più giuste per tentare di far chiarezza su ciò che è stata la partecipazione dell’artista al Festival di Sanremo 2023. Una partecipazione che ha animato un vespaio di commenti, allusioni, giudizi che, spesso, come in effetti succede puntualmente di fronte a scelte o posizioni che non siano allineate con ciò che il cosiddetto ‘mainstream’ si aspetta, hanno totalmente ignorato lo specifico artistico e la portata tanto simbolica quanto concretamente civile di una proposta apparentemente singolare e irricevibile che, in realtà, si fonda su solidi presupposti e mira dritta non solo al cuore o all’anima, ma al corpo tutto dell’ascoltatore.

Sì, ché in effetti questo Sali, se solo ci si soffermasse una manciata di minuti in più non diciamo a riflettere, ma almeno a verificare, anche nella comodità di un click in rete, prima di gridare allo scandalo all’assurdo alla svolta, si mostrerebbe sin da subito per quel che è a chiunque – una nuova tappa di un percorso iniziato da decenni. Un percorso di continua rinascita espressiva che, ad esser chiari e onesti, sembra coincidere con la biografia dell’artista, se è vero che sin dall’esordio del 1978 non c’è mai stato brano o album di Anna Oxa che non scartasse rispetto alle aspettative e al proprio già-detto, il proprio già-fatto. Certo, la confezione più smaccatamente “pop” di molte perle di fine anni Settanta-anni Ottanta poteva avere e in effetti ha avuto un impatto più, per dir così, rassicurante su una vasta platea di pubblico e di critica, ma siamo sicuri che questo nuovo brano sanremese sia così alieno da ciò che ha sempre significato cantare nella prospettiva di Oxa?

Al di là delle innovazioni tecniche o estetiche che hanno a che fare con un’indagine, quindi una scoperta e, se si vuole, una maturazione del proprio strumento vocale, delle proprie, cioè, potenzialità espressive, secondo una concezione del canto assai più antica, quasi pagana, misterica più che mistica, per la quale la voce è essa stessa corpo, organismo vivo, al tempo stesso mezzo e fine di coscienza e esistenza tutta umana nel mondo e per il mondo, in effetti Oxa ha da sempre approcciato la cosiddetta ‘musica leggera’ in una maniera altra rispetto al prevedibile e alla sua pur aurea tradizione. In una maniera, cioè, che non hai mai previsto la scelta univoca e limitante di un genere, né di canto né di musica, mai la comoda scorciatoia di una tendenza, mai la banalità di un’interpretazione intesa come predeterminata esecuzione.

Si prendano, ad esempio, brani come Così va se ti va e questo finché mi andrà, Se devo andare via o Controllo totale, tra i primissimi incisi dall’artista, o esperienze di album come Di questa vita (1992) o L’eterno movimento (2001), per rendersi conto di quanto sin dagli inizi e poi di seguito il repertorio di Oxa fosse e sia di per sé tutt’altro che poco ricercato, meditato, forte di testi e partiture densi, mai banali, anche quando si è trattato, apparentemente, della prammatica di una canzone d’amore (da Oltre la montagna a Dopo la neve, non si può certo parlare di canzonette…). Senza contare, ancora, interi progetti nati già a loro tempo in piena controtendenza, fedeli solo a quello stesso percorso, a quella continua indagine e costruzione nella e della voce, nel e del canto: da Do di petto, con cui nel 1993 Oxa rileggeva e reinterpretava propri iconici brani in una chiave totalmente inedita e innovativa (nessuno scandalo, allora, per inciso, nessuna motivazione altra rispetto al fare arte, ripartendo e, di più, ripartorendosi, nella sua scelta di rivisitare Un’emozione da poco durante la serata delle cover di questo Sanremo), a Proxima del 2010, album che non ha nulla da invidiare, anzi!, a grandi nomi della sperimentazione contemporanea (s’ascoltino, per esempio, Parole al mondo, Pesi e misure o La differenza per comprendere quanto profondo sia lo scavo di Oxa nelle infinite possibilità dell’espressione sonora dell’umano), ogni tassello di questa discografia, pur peculiare e specifico, di volta in volta innovativo rispetto al proprio precedente, riflette un’unica, originaria vocazione all’indagine, ineliminabile perché connaturata all’artista.

Un’artista che, anziché assecondare la deriva di una canzone intesa come mero intrattenimento, di un brano inteso come prodotto da consumare, di una musica intesa come muto sottofondo o, peggio, frenetico diversivo all’automatismo di tanta parte della nostra contemporanea quotidianità, in questo Sanremo 2023 ha scelto di portare un nuovo tassello di quella discografia, fedele a quell’ineliminabile senso della ricerca di cui s’è detto. “Portare”, abbiamo scritto, sì, ma forse sarebbe più opportuno scrivere “esporre”, e “tassello” lo chiamiamo, certo, ma forse “quadro” sarebbe ancora più giusto, ché il rapporto di Oxa col proprio presentarsi al pubblico e in scena sembra più in sintonia col pittore, l’artista visivo, o con l’artigiano, di suoni di colori di parole poco cambia, ché tutto è viva materia e tutto vibra vita – dopo il tempo passato nel proprio studio (un tempo che è solo il suo e nessuno ha il diritto di dirlo né troppo né poco), l’artista-artigiano decide di uscire e mostrare l’opera, il risultato della propria ricerca, come dono, monito o preghiera alla collettività tutta.

Monito o preghiera, ecco le parole più giuste per descrivere allora questo Sali, brano che, al netto di gusti e di inclinazioni personali, per essere còlto e recepito fino in fondo richiede quella che è al tempo stesso la pratica più semplice e più difficile tra quelle nostre umane: l’ascolto. Sembra, la nostra, una banalità, ché stiamo pur sempre parlando di musica e canzoni, ma a ben vedere non lo è affatto, se è vero (e lo è), che tra le vittime più illustri del caos mediatico e multimediale di questi tempi c’è proprio la predisposizione, anzi, la disponibilità all’ascolto. Un ascolto come esperienza, totale e totalizzante, che superi la volontà di una comprensione intesa come intellettuale, cerebrale, e si faccia invece piena immersione in un mondo di suoni che sembrano lontani e distanti, ma in realtà ci riguardano tutti e da molto vicino.
Se si sospendesse per un attimo il pregiudizio che è stato quello di gran parte della critica sanremese (un pregiudizio onestamente inspiegabile, mai fondato su ragioni artistiche, che fa il paio con tutta la serie di osservazioni sui look e sui presunti discutibili comportamenti dell’artista, come se a forza di sbandierare parole quali “libertà” e “diritto d’espressione”, sempre più a rischioso appannaggio esclusivo di questa o quella categoria, ci fossimo dimenticati che esiste, ed è assi più preziosa, la libertà di non fare – non rilasciare interviste, non vestire questo o quel marchio, non strizzare l’occhio a questa o quella tendenza, non fare una diretta Instagram, non alimentare gossip…), si scoprirebbe che “capire” un brano come Sali significa soltanto, davvero, ascoltarlo. E non stiamo parlando, si badi, soltanto del suo testo, un testo che comunque bilancia una scelta di frammentazione del discorso, suggestivo e non narrativo, con una evidente chiarezza sintattica accessibile a chiunque (“Arca dell’umanità andata a fondo / Cuori puri mangiati dall’avidità / Sali e poi / un’altra vita tu / vivrai”), no – stiamo parlando anche e soprattutto del fatto che “capire” un’esperienza estetica del genere significa trascendere la pretesa di “comprendere” con il solo strumento della razionalità, della logica.

In fondo, ecco, non stiamo che ribadendo l’ovvio – la centralità dell’ascolto – quell’ovvio, altrove e in tanti, troppi altri tremendamente perso di vista, su cui si basa l’arte e la ricerca di Anna Oxa, consapevole che anche questa strana specie animale che è l’uomo ha avuto in dote un verso, quel che noi chiamiamo voce ma che in realtà non è che suono: quello stesso suono, perduto e ritrovato eppure sempre da cercare, che riecheggia ancora e ancora ci ri-accorda alla prima pioggia sul pianeta, alla prima scintilla di fuoco tra due pietre – al primo grido, che fu, che fummo, d’amore e di dolore.

 

Di Sacha Piersanti

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.

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