Per raccontare l’America degli anni ’70, più che un trattato di sociologia, basta ascoltare “Born to Run” di Bruce Springsteen. Un disco amaro, sofferto, vissuto, che dà voce e suono ai sogni interrotti degli yankee all’indomani della disfatta in Vietnam, esperienza che segnò nel corpo e nell’anima la generazione cresciuta con l’illusione del sogno americano. I figli dei soldati che liberarono l’Europa dall’incubo nazista, cresciuti con il sogno dei sixties, scoprono che, al risveglio, la realtà è ben diversa. Non c’è terra promessa, canta Bruce, ma si può, anzi si deve, sfidare il proprio destino, perché si è nati per correre.
Il disco, uscito il 25 agosto 1975, si apre con “Thunder road“, capolavoro assoluto. Qualche nota ricamata con l’armonica e poi il piano che accarezza ebano e avorio, accompagnando il canto del ragazzo americano che si trova davanti a Mary, la sua bella. “Non tornare dentro, sono qui per te“, le sussurra. E la invita a salire sulla sua moto per giocare insieme la chance che il destino ha riservato per entrambi.
Don’t run back inside, darling
You know just what I’m here for
So you’re scared and you’re thinking
That maybe we ain’t that young anymore
Show a little faith, there’s magic in the night
You ain’t a beauty, but hey you’re alright
Oh and that’s alright with me
Immaginiamo il viaggio dei due protagonisti, dei quali già conosciamo l’evoluzione, lei che resta incinta (come ci racconterà “The river“, altra perla che fiorirà a cinque anni di distanza) e la vita che, nonostante schiaffi su schiaffi, varrà sempre la pena di essere vissuta. Il malinconico disincanto di “The ghost of Tom Joad” è ancora lontano.
Il percorso prosegue con le altre tracce del disco, da “Tenth Avenue Freeze-Out” fino alla lunga “Jungleland“, otto tappe di un viaggio musicale sanguigno, cantato tutto d’un fiato, ogni brano scritto come una sceneggiatura di un road movie, ma tutt’altro che improvvisato. La leggenda dice che le sessioni di registrazione durarono sei mesi, grazie alla maniacale precisione di un giovanissimo ingegnere del suono i cui nonni erano di Ischia, Jimmy Iovine. Springsteen, non ancora The Boss ma addirittura considerato un cavallo perdente alla sua ultimissima chance, si accompagna alla sua storica band. “E’ stato il disco dell’amicizia“, avrebbe commentato a distanza di tempo. Sì, perché Clarence Clemons, Steve Van Zandt, e poi le new entry Roy Bittan e Max Weinberg, amici lo erano prima ancora che colleghi e membri di quella E Street Band che avrebbe contribuito non poco a forgiare il suono del ‘futuro del rock’. Un claim – coniato da Jon Landau, giornalista di Rolling Stone, che sembrava quasi offensivo e cialtronesco in un mondo che aveva visto bruciare già diversi eredi di uno zio Elvis icona ambulante a due passi dalla tragica morte. Forse in pochi lo sanno, ma il ‘fantasma’ di Presley aleggia già in copertina, nella spilla che richiama il re del rock e che Springsteen ha sul chiodo che indossa nella foto di Eric Meola che lo ritrae appoggiato amichevolmente a Clemons. Al collo, l’inseparabile chitarra pagata 185 dollari e compagna di una marea di concerti in giro per gli States.
A ben vedere, nell’immagine di copertina c’è tutto il mondo del Boss. Un mondo fatto di piccole cose, di solidi legami, di affetti fraterni, e di una passione naturale per il rock. Quello sporco e da strada, quello che da lì in poi, fece correre e sognare intere generazioni:
I’ll love you with all the madness in my soul
Someday girl I don’t know when we’re gonna get to that place
Where we really want to go and we’ll walk in the sun
But till then, tramps like us baby we were born to run
BRUCE SPRINGSTEEN – BORN TO RUN (Live Hammersmith Odeon 1975)
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…