La grinta è quella di sempre, di un ragazzo che imbraccia la chitarra e l’armonica come se fossero armi (“Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia“, cantava negli anni ’70 Demetrio Stratos) e spara a zero su ciò che non gli va, usando l’ironia e l’invettiva con sagacia e arguzia. E poco importa se il ragazzo in questione ha superato la boa delle sessantacinque candeline, perchè della parolina ‘pensione’ non vuole certo sentir parlare. Edoardo Bennato torna a dire la sua con “Pronti a salpare” (Universal Music), diciottesimo album in studio, un disco fresco di vita, ricco di temi e soprattutto carico di adrenalina. Da sempre legato a quel rock che ha raccolto una vocazione di vita – come canta in “A Napoli 55 è ‘a musica” – Bennato (“nato a Napoli, anzi a Bagnoli, periferia industriale, tra il fumo e il rumore delle acciaierie“) ci offre 14 brani che affrontano tematiche diverse.
“Via da quei luoghi comuni“, canta Edo nella titletrack, una sorta di dichiarazione di intenti indirizzata a tutti quelli che sono pronti a partire, anzi a salpare, “senza falsi documenti, come autentici emigranti“. Bennato parla a chi non ha rotte regolari né percorsi di comodo, “verso terre sempre verdi, prima che sia troppo tardi“. E’ un messaggio di speranza, per chi come lui è ancora convinto che il mondo possa cambiare, percorrendo una via su cui non ci si può certo disperare. Chitarra e armonica condiscono di effetto questo brano, che sembra registrato in presa diretta, e che nell’inciso richiama il suo passato. Quel Raffaele che “predicava in tempi non sospetti / che il rock è un sentimento che appartiene a tutti” è infatti lo stesso di “Venderò“, quello che, basandosi sulla ‘laurea conquistata per strada’, conoscendo la gente, gli diceva già quarant’anni fa “stai attento che ti fanno fuori dal gioco / se non hai niente da offrire al mercato“. L’attualità fa capolino con diverse facce, a partire da quelle dello squallore mediatico, di chi “sotto il pubblico flagello va a crepar“. In “La calunnia è un venticello” Bennato rilegge la celebre aria rossiniana tratta dal “Barbiere di Siviglia” citando le vicende di Enzo Tortora (“può bastare la confessione di un pentito / magari di uno che fa un nome a caso / solo perché gli salta la mosca al naso“) e di Mia Martini (“Può bastare / una notizia per sentito dire / una soffiata più confidenziale / che quello è un nome che porta male…“) e gridando la propria invettiva contro la stupidità umana che trasforma, distorcendola, la verità.
Non manca neanche la politica, affrontata nella bizzarra “Al gran ballo della Leopolda“, chiaro riferimento ai (dis)equilibri interni al PD, che mette in scena il duello tra Matteo Renzi e Pippo Civati (“tra tutti e due, chissà chi è quello vero“, canta maliziosamente Edo). Una sfida che forse, vista con gli occhi del presente, pare aver perso lo smalto del passato (ipotizziamo che il brano possa esser stato scritto almeno lo scorso anno, quando Civati raccoglieva i mal di pancia della minoranza in contrapposizione al credo del ‘partito unico’ renziano), ma che mantiene interesse, e si fa interprete del disagio di certa cultura, per vocazione e per tradizione di sinistra, che si trova a dover criticare l’operato di un governo che si dichiara parimenti di sinistra ma che nei fatti fa cose che di sinistra non sono.
“Niente da spartire” è invece un’invettiva verso il potente di turno, che fa il santarello, con “l’areola del buon samaritano“, con un codice e una morale che omaggia l’apparire sull’essere. Si parla di affiliazioni a reti “che non si fanno imbrigliare“, di “show delle buone intenzioni“, mentre la televisione è vista come l’amplificatore dell’imbonitore in questione che ha modo di parlare a tutti “ di tolleranza e di moderazione, ma solo ad uso e consumo della tua fazione“.
“Il mio nome è Lucignolo” è invece un assaggio del musical “Burattino senza fili“, ispirato al capolavoro del 1977. Un rock tirato e orecchiabile che descrive l’antieroe collodiano come depositario dei vizi della società di oggi: è un pr e dorme tutto il santo giorno, e a noi fa venire in mente il personaggio di Elio Germano in “Suburra“, un uomo-bambino senza arte né parte che cerca di destreggiarsi nello squallore della politica e della criminalità. Anche lui, suo malgrado, è figlio dei tempi. Lo stile ricorda quello dell’album, per cui potrebbe essere tranquillamente un brano di quel disco.
Ci sono poi dei ‘ripescaggi’, a partire da “Povero amore“, rifacimento di un brano del 1998 inserito in “Sbandato“. Se il testo è abbastanza immediato e forse un po’ banale (“Povero amore perso, rimandato, come uno studente che non ha studiato, come un navigante in alto mare che non ha più vele per navigare“) il riarrangiamento dà invece più freschezza alla canzone, che acquista un ritmo più easy-listening. In “Zero in condotta” le sonorità si fanno invece più dark, avvicinandosi a quelle americaneggianti del Bennato di fine anni ’80. E non è un caso, visto che il brano è esattamente quello già pubblicato in “Kaiwanna” del 1985. Il testo non ha dalla sua la chiarezza, ma vuole esprimere un evidente disagio esistenziale: “Alla deriva sul tuo schermo privato falsi dati ti confondono e oltre il muro della fortuna così come linee…“. Dalla sua ha comunque un sound che cattura, e questa potrebbe essere la sua fortuna.
Un altro ripescaggio è “La mia città“, in quanto il brano era stato inciso già nel 2011. E’ un omaggio, l’ennesimo, a Napoli, con tutte le sue contraddizioni e la sua incredibile unicità. “Stanca, rassegnata, innocente, invasata, nuda, svergognata, tradita, condannata, ma è la mia città…” canta Edo, e si capisce quanto abbia Napoli nel suo cuore, e quanto speri che possa migliorare. “Domani chi lo sa, vedrai che cambierà, magari sarà vero… ma non cambierà mai niente se ci credo solo io…“. Lo stile del pezzo però rispetto agli altri sembra un po’ allentato, accompagnato sì nel finale da un bell’assolo di armonica e di chitarra elettrica, ma avremmo preferito qualcosa di più aggressivo, nello stile bennatiano.
Il disco poi è ricco di canzoni apparentemente leggere, ma che in realtà nascono da una vena ispirata. “Io vorrei che per te” è oggettivamente il brano più orecchiabile dell’album, con un inciso che cattura al primo ascolto e che giustamente è stato scelto come primo singolo estratto dal lavoro. E’ una dichiarazione d’amore a tutto tondo, che potrebbe tranquillamente essere quella di un padre a un figlio:
Io vorrei che per te quell’isola che non c’è
diventasse realtà,
un’isola vera, dove davvero si va
io vorrei che per te quell’isola che non c’è
diventasse realtà,
non solo un’isola esclusiva di Peter Pan
Non manca il riferimento al glorioso passato artistico del cantautore partenopeo, che nel ritornello cita “L’isola che non c’è“, assoluta gemma del suo vastissimo repertorio.
“Giro girotondo“, invece, parte come una filastrocca, ma racconta grandi verità: in un mondo dove non si ha il diritto di parlare al conducente, “questa è l’ultima chiamata, ci vogliamo dare finalmente una bella regolata“, canta Edo, che carica l’esortazione aggiungendo: “c’è un amico militante che dice che coi giochi di parole non si conclude niente“. Ne “Il mio sogno ricorrente” Bennato invece racconta di una corsa che poi evolve in un volo. Un classico sogno dell’adolescenza, che Edoardo sembra non voler abbandonare (“Il divieto di volare è il peccato originale / E’ il divieto che fu deciso quando ci giocammo il paradiso”) affrancandosi dalle convenzioni (“Tanto più mi danno addosso, quanto più c’è gusto a sgarrare“). Sono brani dalla sonorità molto radiofonica, che ci piacerebbe sentire in auto per accompagnare un viaggio, e che ci auguriamo possano trovare posto nella programmazione saturata dalle major.
“E’ una macchina” parte da atmosfere negro-spiritual che poi evolvono nel blues. La voce di Bennato procede sicura nell’elencare le meraviglie di una fantomatica ‘macchina’ capace di fare miracoli (“È una macchina per ogni cosa / è una macchina per ogni scusa / è una macchina miracolosa / e ti legge il pensiero / è l’oggetto del desiderio“), espressione della tecnologia e del progresso, che portano l’uomo verso inenarrabili meraviglie, ma che poi, a ben vedere, lo lascia da solo.
Il disco su chiude con un divertissment, “Non è bello ciò che è bello“, scritto nel 1989 e originariamente per Luciano Pavarotti. Bennato, che non ha mai nascosto la sua passione per la lirica, ha rivelato recentemente questo particolare, parlando della storica amicizia che lo legava al tenorissimo modenese. Ha aggiunto che Pavarotti, a cui il brano piaceva molto, non potè poi interpretarlo per i mal di pancia della Decca, la sua casa discografica che giudicava la canzone troppo leggera e ironica per una voce del suo calibro artistico. Eppure ci sarebbe piaciuto poter ascoltare il brano dalla voce di Big Luciano, pazienza.
Nell’insieme, “Pronti a salpare” è un disco attraverso il quale Bennato continua a far sentire la propria voce, quella di uno spirito libero fuori dal coro. Un ‘ragazzo cattivo’ con gli occhiali scuri che fa dell’invettiva la propria firma, e che dimostra di essere ancora capace di dire la sua. Musicalmente parlando, il disco è, già lo anticipavamo, molto radiofonico nello stile e nella sostanza: la produzione di Brando in questo senso si sente molto.
Edoardo Bennato, PRONTI A SALPARE, Universal Music
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…