I Verdena sono il gruppo più folle del rock italiano. Sì, perché è da folli vivere nel 2015 in un eremo nel bergamasco, in un posto che si chiama Abbazia, da dove emergono ogni tot d’anni per dare alle stampe un nuovo disco e girare l’Italia per un nuovo tour. E’ da folli mettersi a suonare in modo ossessivo per mesi, nel loro studio di registrazione ricavato da un pollaio (battezzato ‘Henhouse’) e partorire tanta di quella musica da riempire un progetto che, per volere della Universal, la loro casa discografica, vedrà la luce in due cd diversi, da far uscire a distanza di mesi. E’ da folli iniziare a scrivere canzoni con la chitarra e poi cambiare strumento e iniziare a comporre su un piano a muro. E’ da folli, infine, chiamare il disco con un nome impronunciabile, ‘Endkadenz’, che in realtà qualcosa significa pure: è il nome di un effetto scenico teatrale coniato dal compositore Mauricio Kagel che prevede lo schianto su un timpano da orchestra dalla membrana di carta. Una cosa folle, appunto.
La follia, però, in questo caso, è stretta parente del genio, se è vero che la musica prodotta dai Verdena si distingue per una precarietà che ha un dna di purezza, che si inserisce nella frammentarietà del presente per generare emozioni in corsa, come una foto in perenne movimento, laceranti come un urlo e fragili come la neve, ma durevoli nel tempo. Una decadenza musicale – ah, ecco allora il riferimento al titolo! – che può risultare fastidiosa come l’uso dei suoni distorti negli arrangiamenti, ma da cui si genera un flusso creativo che va ‘contro la ragione’, come recita una delle tracce del disco. Un disco che abbiamo avuto modo di conoscere con ‘Un po’ esageri’, primo singolo, supportato da un video impreziosito dalla regia di Alex Infascelli, dove i tre Verdena – Alberto Ferrari voce e chitarra, suo fratello Luca alla batteria e Roberta Sammarelli al basso – appaiono in tute colorate che, grazie al chroma-key, ‘ospitano’ se stessi in altri filmati, creando un effetto per certi versi ‘retrò’ che fa il paio con quello che si ascolta e che si sente cantare. Frasi come
Se ti mancherò
prova a fuggire in noi
mi sentirai identico.
hanno un che di romantico, inutile non ammetterlo.
Il disco inizia con ‘Ho una fissa’, che poi è il primo brano composto, quasi tre anni fa, quando il lavoro ha iniziato a prendere forma. Qui si respira lo stile dei Verdena precedenti a ‘Wow’, e forse la traccia sarà quella preferita dai puristi che mal hanno digerito l’evoluzione/involuzione del disco di tre anni fa. Il testo resta criptico – e questa, lo ammettiamo, è una caratteristica tipica delle composizioni di Alberto, specie in passaggi tipo
Già, uccidere può
ma dissanguare non so
di certo uccidere può
ed aspettare non so
La malinconia latente si respira in ‘Puzzle’, traccia successiva che preferiamo nell’esecuzione live in anteprima: qui parte con un arpeggio di chitarra da brividi, su cui si inserisce la voce di Alberto:
Ti investirò
e si che ho perso ogni merito
non mi includerai mai
nell’inferno in cui vivi tu
La melodia cresce e alla fine finisce per evolvere in influenze spagnoleggianti
Solo un mare nero
che annullerà qualsiasi no, no!
solo un mare nero
come si infuria in me!
E dopo l’hashish, il fumo, la benzina e la cenere, citati all’inizio, si arriva all’efedrina, reclamata a gran voce, tra demoni e sogni:
Riammettimi dai fra i tuoi demoni
iniettami aria troverai le energie
iniettami aria
Se sogni è meglio poi,
che nulla ti tiene qui…
C’è spazio anche per una citazione strana (‘Chiamami Nevruz, raccogli il mio seme…’) che chiama in causa un artista amico della band, già concorrente di X Factor, e forse è anche una reminiscenza linguistica mantenuta dal finto inglese (‘…call me nervous…’) che pervade i testi vestiti sulla musica in fase di composizione.
Elettronica e ossessiva è invece “Sci desertico”, che sa di sperimentale per l’uso dei falsetti, e dove il testo sembra un evidente corredo messo in secondo piano dalla musica, che prende al primo ascolto:
Non ci puoi restare fermo mai
dici che non siamo comodi
come ieri ancora tu ci sei
cosa dire adesso chiamami
più ti vedo e più sei fuori in me…
“Nevischio” è una vera chicca, peccato che duri solo due minuti e cinquantaquattro secondi. Hit da radio, non è escluso che possa avere il destino di singolo. Interessante l’apertura con la chitarra, i richiami quasi mogol-battistiani nel testo:
E non sai di gelosia
nella mia mente sei comunque mia
faccio come il nevischio lo sai
avermi non potrai.
e l’evoluzione armonica che strizza l’occhio al brit-pop – con controcanti in falsetto, anche qui – pur non rinunciando a originali divagazioni sul tema, grazie al piano e agli accordi di quarta che fanno tanto progressive. Un bel lavoro in fase di produzione da parte di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle.
“Rilievo” parte invece con un destino segnato, quello di avere un arrangiamento sontuoso. Batteria anni ’80 e chitarra elettrica distorta dominano alla grande, mentre il testo è una confessione esistenziale con la propria coscienza:
Amami appena
sdraia il mio ego
vivere in fondo
sai non pare vero
Dopo il richiamo al mantra che abita nell’ego del protagonista, la coda strumentale, con massicci colpi di percussioni attraversati da un eco di chitarre distorte, è decisamente una delle cose migliori del disco.
Si passa poi a “Diluvio”, dove lo scenario è quello che ripropone l’ennesimo duello esistenziale tra due creature che si cercano e si perdono, poi si ritrovano attraversandosi, e poi si allontanano ancora, in un gioco di vicinanze e allontanamenti che tiene comunque vivo il rapporto:
Domo un mai
dissolvo un che
ormai mi aspetti lì
giù in un canyon
c’è un vento gelido
che annienta il panico
Musicalmente parlando, il brano ha una natura iniziale pienamente pop, impreziosita dal piano che ingentilisce la batteria (forse troppo invadente), per poi evolvere in un’anima valzereccia che spiazza alla grande (!).
Sincopata è invece “Derek”, che evolve poi in un riff decisamente orecchiabile, quasi una liberazione per chi ha ascoltato la strofa:
Vera tu
tornerai mai più
a giocare con me
senza non potrei
ma tu ridi nel caos
menti e non lo sai
che devi ridere ancora
anche se non si può più
Immaginiamo che la canzone avrà un successo non da poco nei live, per lo spirito punk anarchico che la attraversa tutta.
“Vivere di conseguenza” ha tutte le caratteristiche del brano pop, perché parte con un piano che disegna un arrangiamento elegante. Ma il bello è che poi evolve in altro, sostenuto da una batteria che segna il ritmo in modo inequivocabile, da un cambio di tempo che mostra andamenti via via diversi, dalla chitarra distorta che firma le scale quasi con leggerezza, e da una voce che sembra essa stessa uno strumento, fino a dissolversi delicatamente, quasi senza disturbare. Insomma, un piccolo tesoro musicale:
Tu un po’ mi agiti
sono vivo o è un sogno?
non ne ho bisogno più, sai ooh
ma vivo di conseguenza
e non certo è sempre quello che vuoi
è salomonico
“Alieni fra noi” sembra essere la carta di identità del gruppo nel panorama rock italiano. L’impronta è in stile, con richiami quasi alla Radiohead, mentre il testo disegna stilemi di crisi esistenziali in cui l’ispirazione lirica di Alberto sembra trovare la propria piena realizzazione:
Scomponi quel che sei
vivi come sempre fai e non senti che
è solo un miraggio in più
gettami nel fango e poi
non c’è da ridere
agire non so
Si va verso la fine del disco con le ultime tre tracce: “Contro la ragione”, citata in precedenza, sa di pop anni ’70, se per ‘pop anni ‘70’ intendiamo il Battisti dell’esperienza che mescolò ritmi sudamericani e progressive in “Anima latina”. Lo zio Lucio di “Abbracciala Abbracciali Abbracciati” aleggia benevolo nei fiati del brano, mentre l’eco progressive si manifesta negli accordi di quarta suonati al piano. Sono Verdena diversa, questi, frutto di una maturazione musicale che non significa rinnegare le proprie origini, ma arricchirle di nuove esperienze. Il testo, anche in questo caso, è poesia suburbana intrisa di esistenzialismo post-industriale:
Come dei passi
fuori di qui
è un mondo assassino per noi
contro la ragione
e chi mal fa
stasera non è qui
ed in fondo anch’io svanirò
sarò invisibile
come il polline
“Inno del perdersi” fa il suo sporco lavoro, nel senso che è carica di pessimismo disinteressato e orgoglioso. Interessante la traccia della chitarra, che sfida a duello l’incalzare delle percussioni, e l’uso della voce, anche qui capace di evolvere in tracce di falsetto.
Hai più sonno o troppe rughe c’hai
non sei un poser
collabori
correrai dei rischi sai
nel sole che prendi
cosa sei che non sei mai?
sei spessa nell’anima, nell’anima
La conclusione è spiazzante, prima quasi madrigalesca, per le tastiere a spinetta del Settecento, che arriva poi ad omaggiare la classica nella forma dello storico “Concerto grosso” dei New Trolls, e, giusto per non far mancare nulla, la traccia si chiude con tanto di applauso (perchè?).
Infine, “Funeralus”, struggente, ricco di mille suggestioni, con un sentire malinconico arricchito dalla coda dark che ci congeda dal disco.
Le mani prendimi
dimentica e poi
estendi il tuo cuore
dimentica e poi
(sei a un passo dal mare) e passa il confine
(a un passo dal mare)
Il disco si chiude qui. Nonostante qualche ingenuità nei testi e qualche arrangiamento reso eccessivo dalla sovrabbondanza delle percussioni e dagli effetti distorti che impediscono di cogliere il lirismo compositivo del resto, il giudizio non può che essere positivo. I Verdena si confermano folli, è vero, ma allo stesso tempo abilissimi sperimentatori musicali, efficaci nella ricerca di strade compositive scevre da vincoli di prestazione non facilmente rintracciabili nelle esperienze di altri colleghi, anche molto più blasonati. Questo “Endkadenz vol.1” offre tanto, va ascoltato e riascoltato per coglierne le gemme di cui si compone, e soprattutto lascia aperta la curiosità per ciò che potrà essere il volume 2.
Aggiornamento del 28 agosto 2015: leggi qui la recensione di Endkadenz vol. 2!
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…