Ci sono storie ed esperienze umane che gravitano attorno a un’idea, e su quell’idea costruiscono un percorso che, una volta tracciato, rimane costante, del tutto fine a se stesso, ad libitum. E ci sono invece altre storie, ed altre esperienze umane, che gravitano attorno a un vulcano di idee, che si libera senza freni partorendo pensieri, parole, immagini e sensazioni destinate a moltiplicarsi, in mille e più stimoli che fluttuano nell’aria, acquisendo da essa e contaminandola, in un gioco di rimandi che non può mai essere fine a se stesso. E’ il caso, crediamo, di “The cult of Fluxus”, un’opera “multipla” (declinata in un libro, edito da Edizioni Erranti, e in 20 tracce musicali, disponibili su Soundcloud) attraverso la quale il suo autore, Ernesto Orrico, attore, autore e regista teatrale tra i più prolifici ed interessanti della contemporaneità, raccoglie frammenti verbali non concatenati tra loro, e li trasforma da testi in “non canzoni”, dove la negazione è essa stessa emblema di unicità e generatrice di stimoli destinati curiosamente a contaminare chi ne fruisce.
Abbiamo incontrato Ernesto davanti a un caffè, nella sua città, Cosenza.
Un lavoro ambizioso, che rappresenta una forma di comunicazione diversa e nuova, e che porta chi c’è dall’altra parte a fruire in contemporanea di due mezzi, la lettura e l’ascolto, poco percorsi in questi tempi così veloci e diretti. Qual è la ragione principale che ti ha portato a generare “The Cult of Fluxus”?
“The cult of Fluxus” nasce come rubrica di scrittura automatica per il periodico “Fatti al Cubo”, giornale pubblicato nell’ambito dell’Università della Calabria. Dopo alcuni numeri mi sono reso conto che i testi avevano una loro omogeneità ed ho iniziato a pensare di farli vivere in maniera diversa. Ho iniziato quindi a registrarli in voce, utilizzando sempre un approccio che mi piace definire “punk”, velocità estrema nella realizzazione e ricerca dell’immediatezza. Successivamente, ho inviato i file contenenti la voce cruda, libera da qualsiasi effetto, a diversi amici musicisti e manipolatori di suoni, chiedendo anche a loro un approccio alla materia sonora il più possibile rapido.
Nel tuo lavoro è fondamentale il suono. Quello delle parole, anzitutto, ma anche dei contributi sonori. In base a quale criterio hai scelto le collaborazioni degli artisti che hanno arricchito le tracce del lavoro?
La scelta è stata piuttosto naturale e automatica. Con Marco Orrico (chitarrista dei Camera 237) già collaboriamo nel progetto “Speaking and Looping”, dove cerchiamo di fondere un approccio teatrale, per quanto riguarda una parte dell’aspetto testuale, e melodie indiepop sporcate da rasoiate di chitarre noise per la parte musicale. Con altri, Robert Eno, Francesco Cristiano e Raffaele Fata, ci sono percorsi di collaborazione che vanno avanti da anni. Con Luigi Porto, Massimo Palermo, Vlad Costabile, Gianfranco De Franco, Sergio De Luca e Cristian Rosa la collaborazione è frutto della grande stima artistica e umana che nutro nei loro confronti, è stato un modo per incontrarsi, seppure in maniera fugace, visto che ciascuno di loro ha lavorato su un singolo brano.
Nella prefazione al volume Elena Giorgiana Mirabelli cita Calvino, che ne “Le città invisibili” parla di due modi per poter vivere nell’inferno del qui e ora: “accomodarsi fino a non sentirlo più quell’inferno, oppure agire su se stessi per trovare in quell’inferno delle oasi da coltivare”. Dal tuo punto di vista, come si comportano i tuoi contemporanei?
Siamo contemporanei alla complessità, e l’atteggiamento che prediligo è quello di affrontare la complessità. Certo, talvolta la quotidianità ci mette davanti difficoltà che appaiono insormontabili e allora può risultare apparentemente facile “accomodarsi” rifuggendo dall’inferno, tappandosi in qualche modo gli occhi, le orecchie e la bocca. Gli artisti hanno invece il compito di stare al centro del fuoco, devono stare proprio nel mezzo dell’inferno impegnandosi nell’aprire varchi, nel creare oasi come dice Calvino, spazi di rinnovamento e rigenerazione del pensiero. Mi interessano i miei contemporanei che sfidano la complessità, che non abbandonano la lotta per la conoscenza e per il progresso.
Quali sono le principali fonti di ispirazione a cui ti senti vicino? George Maciunas ha influenzato la tua opera o quella con il suo “Fluxus” è solo un’attinenza linguistica?
Sono da sempre interessato alle correnti più innovative dell’arte del Novecento, e gli artisti del Dadaismo prima e del Fluxus poi sono tra quelli che più stimolano la mia fantasia e la mia curiosità. Il richiamare il concetto di “flusso” è ovviamente un omaggio ma è anche, molto più semplicemente, un giocare con il suo significato più proprio, lasciare andare la scrittura in maniera il più possibile libera, senza programmare o definire un progetto letterario preciso. Lo stesso discorso poi, vale o può valere per la sonorizzazione delle parole e con il trattamento dei suoni. Stare nel flusso ha a che fare con il lasciare che l’ispirazione ci attraversi, che l’immaginazione possa nutrirsi “del qui e ora”, abbandonandosi a derive creative sorprendenti e “non studiate”.
In “Rinunciare alla fine” ripeti “Non era così che doveva andare”. A chi o a cosa lo hai dedicato quando hai scritto il testo e a chi o a cosa lo dedicheresti oggi?
Non voglio sottrarmi alla domanda, ma non posso rispondere con precisione, proprio per i motivi che ho espresso prima, potrebbe forse riferirsi alla morte quella frase, ma alla morte di chi? Di una persona cara? O forse di una mente che poteva ancora essere utile all’umanità?
“La mia città è il mio sangue” è una delle tracce più intense del disco. E la tua regione, la Calabria, cos’è?
Ti rispondo con una frase di Corrado Alvaro: “Mi è sempre stato difficile spiegare che cos’è la mia regione”. Ecco, trovo che sia ancora piuttosto difficile riuscire a capire e appunto a spiegare questo luogo in cui sono nato e in cui ho scelto di vivere. Qualche anno fa ho scritto e portato in scena un monologo dal titolo “‘A Calabria è morta”, forse un tentativo di risposta si potrebbe rintracciare in quel testo.
Ne “I palombari della storia”, oltre al mare di Cetraro e ai suoi misteri, citi Andreotti. Qual è stato secondo te l’ultimo suo pensiero prima di morire?
Andreotti è stato il politico italiano perfetto. Ha dominato, con la sua presenza insinuante, 50 anni di vita di questo paese. Potrebbe il suo ultimo pensiero avere avuto a che fare con il pentimento? Ma poi pentirsi di cosa? Da dove cominciare?
Se qualcuno definisse “dadaista” il tuo lavoro, cosa risponderesti?
Che mi ha fatto felice. Con poco. Dada.
C’è una frase di “Ragazzo dannato nel bagno” che mi ha colpito più di tutte: “Il voto ha un volto. Finalmente non è morto”. Che prospettive può dare secondo te la politica a una regione come la Calabria? Cosa può far sì che la Magna Graecia venga ripescata dall’abisso in cui è sprofondata?
Questa è davvero la domanda più difficile. La questione è assai complessa e non nego che la mia disillusione è forte, eppure devo anche sottolineare come in Calabria esistano degli esponenti delle amministrazioni pubbliche che lavorano bene, che si sforzano di mettere in piedi pratiche politiche positive, spesso accade nei piccoli paesi, ed è appunto lo sforzo di qualche singolo assessore. Posso solo auspicare che le buone pratiche, anche quelle apparentemente minimali, si moltiplichino esponenzialmente e che arrivino a contagiare i prossimi eletti al Consiglio Regionale… per un attimo mi abbandono al sogno e immagino assessori che si mettano davvero al servizio della comunità. Sì ma come si fa? È un cammino lungo…
Sempre in “Ragazzo dannato nel bagno” una frase recita: “Il 2001 è finito da un pezzo”. C’è un riferimento non nascosto al G8 di Genova, alla ‘macelleria messicana’ che rappresenta una macchia indelebile nel nostro presente. Come racconteresti a tuo figlio la vicenda di Carlo Giuliani e della Scuola Diaz?
In qualche modo ho iniziato a farlo, anche in un mio precedente lavoro di scrittura c’è un riferimento ai giorni di Genova e all’assassinio di Carlo Giuliani, per cui i miei figli, forse, tra qualche anno potranno, rileggendo, farsi un’idea di quello che penso. E poi certo, se ne avranno voglia, li inviterò a leggere un po’ di cronache. È stato, quello, un evento storico che ha messo in stallo un segmento importante della mia generazione. Solo da poco, mi pare, chi ha vissuto da protagonista quei giorni si sta riappropriando della possibilità di segnare in maniera forte la politica e la socialità in questo paese. È un segnale positivo, quella generazione aveva buone idee, le parole d’ordine dei NoGlobal (definizione che in verità non amo particolarmente) avevano ed hanno ancora una valenza straordinaria, e ad esempio le battaglie dei referendum sull’acqua pubblica e contro il nucleare sono figlie anche di quella temperie culturale.
Concedimi una battuta: “Finiremo per vincere prima o poi”, che apre “Conosciamo le nostre possibilità” è dedicata ai grillini o alla sinistra?
No, è dedicata piuttosto ad una parte di quella generazione di italiani che ha tra i 30 e i 40 anni e che sta, con fatica mischiata ad indolenza, cercando di dare un senso a questo trascinarsi.
Se “The Cult of Fluxus” fosse un anno, quale sarebbe? E se fosse un film?
L’anno il 1994. Un film… “Pulp Fiction” mixato con “Point break”.
“Guerra” è la parola con cui l’opera termina: è un caso? Ci sono tracce di felicità possibile nel tuo lavoro?
Suppongo di no, che non sia un caso. La guerra è sempre lì, alla porta di qualcun altro. La guerra – degli altri – è come un mantra che accompagna le nostre vite occidentali. Le guerre degli altri sono la garanzia del nostro modo di vivere. È atroce pensare questa cosa… eppure mi pare che sia proprio così che sta funzionando. Tracce di felicità? Suppongo di sì… ma forse ci vuole un investigatore particolarmente dotato per individuarle e seguirle?
Come farai conoscere “The Cult of Fluxus”? È previsto un tour?
Di sicuro attraverso dei reading, quando ci sarà la possibilità accompagnati da una sonorizzazione live, forse con qualcuno dei musicisti che già hanno trattato i pezzi, forse con musicisti nuovi con cui ho già iniziato a immaginare nuovi percorsi. Un tour vero e proprio ancora no, ma ci sono contatti concreti e già per l’estate sono previsti degli appuntamenti.
Guarda il video di “RINUNCIARE ALLA FINE”
Ernesto Orrico è nato a Cosenza nel 1973. Dal 1998 al 2001, ha fatto parte di Teatro Rossosimona, compagnia diretta da Lindo Nudo, con la quale ha vinto (ex aequo) il Premio Scenario nel 2001 con lo spettacolo “È il momento dell’amore”. Tra il 2002 e il 2004 ha lavorato con la compagnia Centro RAT – Teatro dell’Acquario, negli spettacoli Antigone e l’Avaro diretti da Massimo Costabile.
Dal 2003 collabora come attore e regista con il Teatro della Ginestra, in particolare ha firmato le regie degli spettacoli: “Ronaldo il pagliaccio del McDonalds”, “Hamlet Cuts”, “Jennu brigannu”, “I sette contro Tebe e La leggendaria rivelazione dell’assessore Baldino”, “La superficie della lotta”.
Nel 2008 ha curato la pubblicazione del libro “Nuovo Teatro Calabria” edito da “Le nuvole”.
Nel 2009 è stato pubblicato per i tipi di Round Robin il suo testo teatrale “’A Calabria è morta”. Sempre nel 2009, è tra i protagonisti dello spettacolo “U Tingiutu – un Aiace di Calabria”, scritto e diretto da Dario De Luca per Scena Verticale. Nel 2010 ha curato (insieme con Valerio Strati) la regia dello spettacolo “Raskolnikov, racconto di un delirio”, per la compagnia Carro di Tespi. Con la performance “Kamikaze Calabrese” ha partecipato alla Cerimonia diretta da Lorenzo Gleijeses per il MAD Maestri Avanguardie Derive (2010), festival organizzato dal Teatro Quirino di Roma. Ha collaborato come insegnante di teatro e dizione con il Teatro Stabile di Calabria, con il CIFA/Teatro dell’Acquario e con l’ADAC/Teatro della Ginestra.
Nel 2011 per l’associazione Zahir ha curato lo studio teatrale “Sul modo di essere liberi”, liberamente ispirato alla poesia di Franco Costabile.
Nel 2012 ha pubblicato il libro di poesie “Appunti per spettacoli che non si faranno” per la casa editrice Coessenza, e nel 2014 la raccolta “The Cult of Fluxus” per i tipi di Edizioni Erranti.
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…