Canzoni che parlano di corruzione e malapolitica in un disco che racconta le piaghe del presente e che suona attuale ancora oggi  

Se si pensa a com’era il mondo all’inizio del 1989, sembrano passati molti più anni degli effettivi trentatrè che lo separano dal presente. La guerra fredda era all’ordine del giorno, Usa e Urss continuavano a giocare a Risiko sui destini europei (oggi lo stanno ancora facendo, ma questa è un’altra storia), i sovietici avevano appena lasciato l’Afghanistan dopo una guerra a dir poco logorante. E in Italia? Ad appena tre anni da Tangentopoli, la Prima Repubblica era viva più che mai. Il pentapartito sembrava godere di ottima salute, grazie all’imperante craxismo che faceva il bello e il cattivo tempo, spadroneggiando in Rai e dettando l’agenda al governo (premier in carica Ciriaco De Mita, che a maggio sarebbe stato sostituito da Giulio Andreotti). Cominciava a crescere una nuova coscienza politica, ecologista e ambientalista (i Verdi avrebbero esordito alle Elezioni Europee del 18 giugno con ben 3 seggi), figlia delle lotte sessantottine ma più giovane e moderna dell’elefantiaco PCI che dopo la scomparsa di Berlinguer faticava a ripartire e soprattutto tra i giovani perdeva consensi a vantaggio del PSI. In un quadro storico siffatto, il 19 aprile 1989 Francesco De Gregori dà alle stampe “Mira mare 19.4.89”, vero e proprio manifesto d’attualità in musica. Il titolo è una dichiarazione d’intenti: raccontare la realtà fermandola quasi come una fotografia sul presente, senza elucubrazioni poetiche né voli pindarici. I tempi del De Gregori ermetico e dei manifesti gozzaniani di “Rimmel” sembrano ormai lontani. Il cantautore romano, che ha dalla sua una straordinaria intesa tra pubblico e critica seconda forse solo a Fabrizio De André, ha lasciato alle spalle le polemiche movimentiste della sinistra extraparlamentare. Il “processo del Palalido”, datato 2 aprile 1976, è acqua passata, a parte forse il solo Guccini (“Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni”) ormai nessuno pensa che la musica dei concerti ai Palasport debba essere gratis. Tuttavia De Gregori è reduce da un mezzo passo falso discografico, quello subito due anni prima con un disco come “Terra di nessuno” del 1987 che i più hanno sottovalutato. Continua ad essere ricordato per l’exploit commerciale de “La donna cannone”, del 1983. Forse è per questo che ascoltando “Miramare 19.4.89” si ha l’impressione che stavolta voglia davvero lasciare il segno e farsi ricordare per l’attualità delle cose che canta.

Scartato dal cellophan e messo il 33 giri sul piatto, l’impatto è di quelli devastanti. La prima traccia è “Bambini venite parvulos”, un titolo che gioca con il latino e spiazza l’ascoltatore già dalle prime note:

“Nessun calcolo ha nessun senso
Dietro questa paralisi
Gli elementi a disposizione
Non consentono analisi
E i professori dell’altro ieri
Stanno affrettandosi a cambiare altare
Hanno indossato le nuove maschere
E ricominciano a respirare
Bambini venite parvulos
C’è un’ancora da tirare
Issa dal nero del mare
Dal profondo del nero del mare…”

Un brano che ha la violenza di pugno allo stomaco, e racconta di infanzia depredata, di minori strappati alla loro innocenza e buttati in mezzo alla violenza fisica e psicologica di pedofilia, droga e degenerazione mediatica.

Vale un occhio il vostro cuore
Mille dollari i vostri occhi
I vostri occhi senza dolore

Un brano che, in un’epoca di corruzione e di profonda debolezza dello stato (il 1989 è l’anno del mancato attentato a Falcone e Borsellino all’Addaura), suona come un manifesto politico:

Legalizzare la mafia sarà la regola del duemila
Sarà il carisma di Mastro Lindo
A regolare la fila
E non dovremo vedere niente
Che non abbiamo veduto già
Qualsiasi tipo di fallimento
Ha bisogno della sua claque

La seconda traccia del disco è “Miramare”. Se non fosse per quella data aggiunta al titolo dell’album, sarebbe la titletrack. Ma tale non è, anche perché il titolo dell’album spezza la parola in due (“Mira mare“), mentre quello della canzone la unisce, in un divertissment intellettuale creato per caso o meno. Una canzone dichiaratamente ecologica, perché affronta il tema dell’inquinamento del mare e degli incendi che già nel 1989, debilitavano le nostre foreste. Un canto di dolore e di solitudine, incarnato dall’umiliazione subita dai pescatori che recuperano le reti piene di spazzatura. Unito al loro, il canto personale dell’autore, che è una sublimazione di quello di un io indefinito, nel quale crediamo possa riconoscersi chiunque, nel rievocare le proprie delusioni amorose:

Ma io sì che mi sono tuffato, in un campo di pallone,
da un palo all’altro ho volato, per afferrare un pallone,
e le ginocchia di rosso ho colorato
E quanto al mio povero nome, in quali alberghi l’ho lasciato
e quante notti l’ho sentito chiamare
Prima ancora che il vento cominciasse a soffiare,
prima ancora che il vento cominciasse a soffiare

La melodia è davvero struggente, l’arrangiamento forse un po’ troppo gonfio di tastiere: è probabilmente un limite della produzione di Fio Zanotti, anche se nella lunga coda finale l’armonica (usata in quasi tutte le tracce del disco) regala quel lirismo desiderato che fa alleggerire non poco l’ascolto. Il disco prosegue con “Dr Dobermann“, brano che affronta un’altra delle piaghe che affliggono il presente, la malasanità. L’io cantante si rivolge a un ipotetico medico che in pubblico si dichiara obiettore di coscienza e in privato pratica gli aborti clandestini. Quasi un reggae, in cui la voce di De Gregori gioca con il controcanto di Lalla Francia, che sembra voler alleggerire la potenza dell’invettiva che offre il testo, una denuncia pesantissima che ci permetteremmo di estendere anche a tutti i baroni della sanità privata che nei decenni hanno depredato gli ospedali pubblici arricchendosi alle spalle della povera gente, calpestando e uccidendo senza pietà il giuramento di Ippocrate.

Più leggera, ma solo apparentemente, è “Cose”, che chiude il primo lato del disco. Con questo brano De Gregori paga il suo tributo a Bob Dylan (un omaggio che si ripeterà anche nei dischi successivi, alcune volte in modo addirittura esagerato) snocciolando secondo un’armonia country-folk una serie di immagini ad alto lirismo che sorprendono e incuriosiscono chi le ascolta:

É come il giorno che cammina, come la notte che si avvicina,
come due occhi che stanno a guardare
da dietro a una tenda e non si fanno notare
É come un albero nel deserto, come un trucco non ancora scoperto,
come una cosa che era meglio non fare,
come il cadavere di una stella, sulla schiuma del mare
É fulmine, è grandine, è polvere, è siccità,
Acqua che rompe l’argine e lascia una riga nera al primo piano di una città

La melodia è coinvolgente e regala probabilmente la canzone più orecchiabile di tutta la raccolta. La canzone, che può essere a tutti gli effetti considerata come la madre di “Vai in Africa, Celestino” del 2005 (più ermetica, quella) per l’abitudine che ha di elencare concetti e quadri narrativi, si distingue anche per un invito a voler guardare al di là delle apparenze, che sembrano voler fare di De Gregori quasi un complottista ante litteram (senza fake news però, e meno male…!)

C’è qualcuno che bussa, baby
aspettavi qualcuno?
Ho guardato nel buio, baby
e non ho visto nessuno
troppe volte zero, baby
non vuol dire uno
C’è qualcosa che brucia,
in tutto questo fumo

Secondo lato, come si diceva una volta, che si apre con “Pentathlon”. Qui la disciplina olimpica c’entra davvero poco. Il testo, supportato da una melodia pop-rock incalzante e molto radiofonica, è un vero e proprio j’accuse verso qualunquismo e malapolitica:

Ti puoi vestire come dice la moda,
e andare a spasso con chi vuoi.
ti puoi inventare una doppia vita,
per nascondere gli affari tuoi.
Puoi buttarti sotto al treno,
oppure puoi saltarci sopra.
e puoi rubare per quarant’anni
e fare in modo che nessuno lo scopra.
Il problema rimane identico,
il risultato lo sai qual è?
Non c’è niente da recriminare,
va tutto bene, così com’è.
tu non mi piaci in nessun modo
e grazie al cielo, io non piaccio a te!

Il puoi rubare per quarant’anni e fare in modo che nessuno lo scopra ha un destinatario evidente nel potere democristiano imperante. Il brano, anche nelle impronte musicali e nella scelta di un finale ad libitum, avrà un erede eccellente in “Adelante! Adelante!” inserito in “Canzoni d’amore”, il disco del 1992 dalla forte connotazione politica, pubblicato nell’anno di Tangentopoli e a pochi mesi dalle stragi di Palermo.

E a proposito, di mafia si parla in un’altra delle tracce del disco, la successiva “300.000.000 di topi”. Un brano che denuncia soprattutto la corruzione imperante, la mafia dei colletti bianchi che si impianta nella buona società alla stregua dei topi che fanno tana nel tronco di un giardino:

Ci sono topi tutti in giro
Topi tutti intorno
Topi mattina e sera
Topi mattina e giorno

Sudici topi ludici
Giocano a nascondino
Fanno tana nel tronco degli alberi
Dentro al nostro giardino
Ci sono topi sui tuoi capelli
Dei lunghi topi chiari
Ho visto topi sui tuoi capelli

Così ti ho veduto salire
Sopra un altare
E dire una messa da topi
E per i topi pregare
E cucire ho veduto vestiti da sposa
Per nozze di piombo
E topi gridare e ballare
Sulla cima del mondo

Sempre nel brano è presente un’immagine, quella delle “spose con gli occhi di pesca” dei matrimoni di interesse, che, come dichiarato espressamente dall’autore, rimanda a un brano di Italo Calvino e Sergio Liberovici, “Oltre il ponte“, una canzone che parla della Resistenza, da sempre molto cara a De Gregori.

Vento dal nulla” è forse figlia di “Pane e castagne”, del disco precedente: i protagonisti sono due poveri spiantati che vivono alla giornata e affrontano la vita forti del loro amore.

Si chiudono le finestre, si accende la sirena.
Sarà di ali di passerotto, la nostra cena.
E insieme si farà la notte forse meno scura,
e leveremo dal fondo agli occhi un filo di paura.

Musicalmente parlando il brano si segnala per una prova maiuscola di Elio Rivagli alla batteria. Proseguendo, arriva “Carne di pappagallo”, con una delle melodie più leggere di tutto il disco, ma con un tema che leggero non lo è affatto. Si parla di lavoratori sfruttati e sottopagati, probabilmente in Sudamerica per via della carne di pappagallo del titolo.

Carne di pappagallo, non vogliamo mangiare più.
Signor Padrone, signor Padrone
Quando il giallo di questo sole,
di questa fetta di melone
Quando il giallo di questo sole, diventerà arancione.
Quando arriverà la sera, dietro ai tuoi tacchi di padrone.
Signor padrone, signor padrone,
non ne vogliamo mangiare più
Signor padrone, signor padrone,
non ne vogliamo mangiare più

Siamo alla fine. L’ultima traccia del disco è “Lettera da un cosmodromo messicano”. Restiamo in Sudamerica, ma forse le immagini suggestive che richiama il testo sono associabili a un luogo non luogo, in un tempo non tempo. È una canzone breve, una lettera telegrammata e destinata ai posteri, che l’autore immagina scritta con una penna d’oca da chi lascia un messaggio nella bottiglia. Il cosmodromo è letteralmente l’insieme degli impianti per il lancio di astronavi e razzi nello spazio. Non c’è compagnia, c’è solitudine, il cielo stellato è un gigante, e la metafora kantiana ci trasferisce un De Gregori moralmente limpido e incorruttibile:

Il bosco piano
piano, si riprende le case.
Sono immobili gli aeroplani,
negli aeroporti sotto la luna.
Ammutoliscono i cani,
per la groppa delle montagne,
sono disperse le greggi,
abbandonati i pastori.
Io vivo fuori, in questo cosmodromo messicano.
Tutto è forte, è chiaro, il cielo è un gigante,
la vita è un acquario sopra di noi,
la luce è immensa.

Si chiude qui un disco dall’ascolto non facile, che ha il merito di rappresentare una fotografia degli anni Ottanta secondo una prospettiva diversa da quella mainstream imperante. La televisione commerciale vive e prospera (anche quella pubblica inizia a banalizzarsi, è di questi anni la polemica di De Gregori con Pippo Baudo e con la sua televisione conciliante, ma anche con Sanremo), il consumismo dilaga, a breve lo farà ancor di più con il crollo del Muro di Berlino, la religione è in crisi. L’edonismo post anni Settanta lascia il posto a un nuovo decennio, nel quale si consoliderà una società sempre più frivola, sempre meno attenta ai bisogni dell’uomo, imparentata con la violenza dei comportamenti oltre che delle pistole. Francesco De Gregori, per quello che potrà servire, sarà ancora dalla stessa parte. Militante politico, attraverserà la crisi del PCI che sfocerà nella caduta del comunismo fino a gridare “Vai in Africa, Celestino” al suo vecchio amico Walter Veltroni. In questo anno 1989 esce una sua perla, “Diamante“, che regala a Zucchero Fornaciari e che entra a pieno diritto nei classici della musica italiana. Dopo una stagione infinita di concerti, che lo troverà a sovresporsi forse eccessivamente con una produzione live che fino a quel momento non gli apparteneva (nel settembre 1990 usciranno ben tre suoi dischi dal vivo, “Musica leggera“, “Niente da capire” e Catcher in the sky“), nel 1992 arriverà “Canzoni d’amore”, un nuovo disco di inediti che racconterà ancora di corruzione, malapolitica e sentimenti. Ma questa è un’altra storia.

FRANCESCO DE GREGORI – Mira mare 19.4.89

 Lato A

  1. Bambini venite parvulos– 4:29
  2. Miramare– 6:20
  3. Dobermann– 4:32
  4. Cose– 5:20

 

Lato B

  1. Pentathlon– 4:20
  2. 000.000 di topi– 3:56
  3. Vento dal nulla– 3:45
  4. Carne di pappagallo– 4:36
  5. Lettera da un cosmodromo messicano– 1:58

 

 

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...

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