E dopo 50 anni dal primo disco, fatto insieme, ma da separati, ognuno le sue canzoni, e pochi punti di contatto, anche di tipo artistico, era ora che Francesco De Gregori e Antonello Venditti riallacciassero, dopo un reciproco annusarsi episodico, la loro arte, in uno strano tentativo di fusione separata (o di scissione fusa, fate un po’ voi).
E’ quello che è avvenuto con la tournée appena iniziata, e inaugurata con il concertone dello Stadio Olimpico di Roma, inizialmente previsto due anni fa e finalmente suonato il 18 giugno 2022.
L’atmosfera è viva, c’è voglia di musica e di unione. L’operazione è sicuramente commerciale, ma non solo. Anzi, sono proprio gli ulteriori aspetti a dover essere sottolineati. Le date sono sparse in tutta Italia, e ci sarà anche una parte autunnale/invernale nei teatri, che probabilmente ci darà maggiori sorprese riguardo la scaletta, molto prevedibile, sentita a Roma.
La linea che tutto tiene è quella del ricordo, ma è un ricordo vivo, pulsante. Le emozioni e le lacrime di commozione, tante, molto più di quanto potreste immaginare, nascono proprio dall’avere il pubblico legato, ai vari pezzi che si succedono in scaletta, momenti della propria vita, dagli esami scolastici di Notte prima degli esami agli amori finiti di Rimmel e Ci vorrebbe un amico alle indignazioni per un’Italia che proprio non vuole cercare la verità di Sangue su sangue.
Un effetto di questo concerto, che sicuramente sarà avvalorato dall’andare avanti della tournée, è una meno rigida distinzione tra i due artisti e tra i relativi pubblici.
Nei limiti in cui può avere un senso questa distinzione, all’inizio noto che la gran parte del pubblico è vendittiana, tanto più esaltata dal recente successo della Roma, e infatti qua e là si vedono sciarpe giallorosse. Il pubblico degregoriano, meno avvezzo ai grandi spazi degli stadi, è forse più a disagio e più spaesato. Ma più va avanti il concerto, più i due artisti si fondono uno nelle canzoni dell’altro, regalando interpretazioni di gran rilievo.
Tanto per fare solo qualche esempio, Venditti canta molto bene su La donna cannone e su Pablo, introdotta con un richiamo all’intro di Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd allo stesso modo di come De Gregori lo fa su Unica – che strano sentirla dopo La donna cannone – e su Modena, un pezzo bellissimo, forse il più bello dell’intera scaletta.
Tutto questo produce un effetto che chiamerei, nonostante il controsenso logico dell’espressione, di fusione separata, visto che i due artisti a volte sembrano veramente fusi in uno ma, a ben vedere, mantengono la loro identità e le loro differenze, senza che però siano di ostacolo al loro incontro artistico in un concerto di tre ore.
Il momento di fusione più alta è rappresentato dalla ripresa di una canzone ormai dimenticata e contenuta proprio in quel Theorius campus con cui esordirono nella discografia. Si intitola Dolce signora che bruci, è un brano a firma De Gregori ma che i due suonano e cantano proprio come lo incisero 50 anni fa, con una sola chitarra acustica ad accompagnare il testo, e tanti controcanti e cori reciproci. Per chi segue i due da tanto tempo, conoscendo tutte le fasi delle loro carriere, quello è stato il momento più emozionante. Stadio pressoché ammutolito – quasi nessuno conosceva quel brano – tanto che le voci dei due tornavano indietro in un effetto di reverbero che solo uno stadio così grande come l’Olimpico può regalare.
Piccola notazione, stimolata da un bel ricordo personale, per me che sono nato artisticamente nel Folkstudio, calcando il suo piccolo palco nei suoi ultimi anni, fino alla morte del suo fondatore, quel Giancarlo Cesaroni che dava una possibilità a tutti, in quel suo “Folkstudio giovani” della domenica pomeriggio senza il quale forse non ci sarebbero stati tanti artisti della c.d. scuola romana: quanti Cesaroni ci sono oggi nel piccolo e rigido mondo della musica, tutto preso dalla commerciabilità e dalle cover band di richiamo? Pochissimi, o forse nessuno, per scoprire dei novelli De Gregori e Venditti, che oggi probabilmente, con le loro storie, non avrebbero avuto spazio.
Eppure, se dal quel primo disco sono state eseguite ben due canzoni – oltre quella già citata la molto più famosa Roma capoccia – vuol dire che a voler cercare bene si trova il talento, senza affidarsi alle scorciatoie effimere e senza respiro dei talent televisivi e dei fenomeni, a pagamento, degli stream digitali.
Tornando al concerto, è esattamente come ce lo si aspetta.
Tantissimi grandi classici, pochissime canzoni a sorpresa, De Gregori sfrutta anche gli arrangiamenti di una sua recente tournée, passata anche per l’Atlantico di Roma, spazio dove i due hanno provato negli ultimi giorni.
Il gruppo è diviso in modo equo. I musicisti elettrici, tranne il bassista, vengono per lo più dal gruppo storico di De Gregori, gli altri da quello di Venditti, con un batterista però diverso dal solito Derek Wilson. Non c’è il capobanda del gruppo degregoriano, ovvero il bassista Guido Guglielminetti, “promosso” alla direzione artistica.
Anche sugli arrangiamenti la fusione separata funziona.
Il concerto è divertente, fila via liscio che è una meraviglia. L’effetto prevedibilità viene superato dall’effetto memoria: la noia – che pure una scaletta prevedibile e fatta di hit sentite e risentite fino allo sfinimento – viene efficacemente combattuta dalla forte carica emozionale che le musiche proposte hanno. E’ la nostra vita, direi la nostra storia, l’antidoto alla noia del ripetuto, perché quelle canzoni lì, pur sentite la millesima volta, comunque, con la complicità di uno scenario forte come uno stadio che si fa blocco unico, ci fanno scorrere davanti il film della nostra vita. Sono 44.000 film che scorrono, in quel momento. Non è poco.
De Gregori è in una forma vocale sempre migliore, e pure Venditti, le cui ultime performance non erano state proprio brillanti, tra gorgheggi troppo vibrati e graffi vocali troppo marcati, è tornato quello di una volta. E come sempre Venditti è pure più empatico e diretto, mentre De Gregori è solo apparentemente più distaccato, perché è innegabile che da qualche tempo in qua si sia molto più sciolto. Effetto della cura Dalla, che dai due viene ricordato con la sua Canzone (scritta insieme a Samuele Bersani), in uno dei momenti forse più coinvolgenti della serata, seguito da un emozionato Venditti che gli dedica con sincerità Ci vorrebbe un amico.
L’interazione tra i due artisti funziona, la scaletta, nonostante i pochi sussulti, pure, tanto ci pensano le emozioni dei ricordi a farci sobbalzare.
E dal concerto, come anticipavo, si esce con la nuova idea che le distanze tra questi due mondi musicali, e i rispettivi ascoltatori, non siano poi così lunghe ed incolmabili. L’elemento popolare e sanguigno, a volte urlato, di Venditti si fonde all’elemento poetico e intimista di De Gregori e ognuno prende un po’ dall’altro. Migliorandosi. E scoprendo in loro venature già presenti ma che solo ora, con la maturità e l’addolcirsi dei caratteri, e anche della rivalità, affiorano in tutta la loro evidenza: Venditti ricordando a tutti il suo elemento colto, del resto è molto colta la sua stessa persona, basta vedere come ha scritto bene un suo libro di ricordi (“L’importante è che tu sia infelice“) e De Gregori scoprendo una componente popolare, persino giocosa, che pensava di non avere, o che comunque snobisticamente rifuggiva, e che ora invece pare persino divertirlo.
Si esce da questo concerto con più certezze e meno perplessità di come si poteva entrare, e tra le prime vi è quella che stiamo parlando di due capisaldi della musica d’autore italiana, che forse non hanno più nulla di nuovo da dire avendo già detto molto, ma che quel molto lo sanno ridire bene, con ancora più maturità e persino più leggerezza, senza cedere alla superficialità.
Dell’incontro i due beneficeranno molto, e non parlo solo in senso economico (pur essendo, questa tournèe, fatta di grandi numeri). Si porteranno reciprocamente più pubblico, acquisiranno l’uno qualcosa dell’altro e magari daranno anche alla canzone d’autore quel fiato che pare avere un po’ perso, a vantaggio di proposte musicali molto misere.
Ecco, De Gregori e Venditti sono lì a ricordarci che si può ancora fare numero e successo cantando bene canzoni scritte con misura e dedizione e suonate con attenzione alla musica e non ai trucchi e ai giochetti fini a se stessi tipici della generazione dell’autotune.
Ci voleva.

Docente Luiss, dirigente pubblico, musicista, cantautore, videonarratore. Insomma, raccontatore di cose ed emozioni, con parole, musica e immagini.