Abbiamo dialogato con il cantautore milanese, poeta rocker dall’animo gentile, che ha pubblicato il suo nono album, un disco doppio variegato e complesso, assolutamente da consigliare

Ci sono artisti che, più di altri, sono in grado di mettere in gioco se stessi per raccontare, attraverso il proprio talento, le emozioni. Farlo non è facile né tantomeno immediato, immaginiamo per umano pudore e per umanissima paura che ciascuno ha di mettere a nudo la propria parte più intima, quella che mostra i punti più deboli esponendoli alla tempesta pubblica del giudizio. Paolo Saporiti rientra a pieno titolo in questa casistica. Musicista talentuoso e vitale, ha fatto della propria carriera un percorso di crescita continua, che regala emozioni e che, immaginiamo, rappresenti per lui un modo, probabilmente l’unico, per manifestarsi al proprio pubblico senza filtri né orpelli, con coraggio e dignità. Recentemente, Paolo ha pubblicato “La mia falsa identità”, il suo nono disco in studio, un cd doppio che arriva a ben cinque anni di distanza da “Acini” e a tre da “Acini live trio”, in cui aveva ‘fermato su disco’ l’intesa con i suoi musicisti durante i concerti in giro per l’Italia. Nel nuovo lavoro, la (presunta) ‘falsità’ della propria identità diventa un originale pretesto artistico per abbattere le barriere che solitamente impongono all’artista di restare confinato nel proprio bunker dorato, allo scopo di tutelare la propria integrità emozionale.

Dal punto di vista musicale, le venti tracce in cui è declinato l’album ci regalano altrettante testimonianze di quante siano le identità musicali di Saporiti: un animo gentile che sfora in dinamiche rock, una poetica cantautoriale che rende nell’insieme il lavoro assolutamente poco radiofonico, se non per qualche piccolo passaggio, ma che non per questo rappresenta una diminutio del valore artistico dell’opera. Tutt’altro. Ed è proprio questa libertà di procedere sganciato da dinamiche commerciali – che a ben vedere emerge dalla stessa logica di puntare su un doppio disco in un periodo di crisi nera per il supporto, dove la molteplicità di proposte rende ormai entropico il panorama musicale nostrano – che non solo incuriosisce l’ascoltatore, ma lo conquista. Non al primo ascolto, s’intende. Perché il disco di Paolo Saporiti va degustato con opportuna attenzione. Proprio come un vino doc, va assaporato nota dopo nota e parola dopo parola per cogliere rimandi e intrecci che attraversano tempi e spazi. Ciascuna traccia dell’album suona come una tessera mai slegata dal resto del mosaico, quindi necessaria, ma allo stesso tempo indipendente. Un elemento variegato e distinto dal quale si può estrarre un frammento della vitalità di un musicista che fatica ad essere inquadrato, semplicemente perché si muove senza stereotipi preconcetti, agendo secondo l’istinto della propria vocazione artistica.

Il disco, pubblicato su etichetta OrangeHomeRecords e per la cui produzione Saporiti si è avvalso della collaborazione di Raffaele Abbate, è suddiviso in due capitoli: “Lo sfratto” e “La Zattera”. Nelle note di presentazione abbiamo appreso che con la scelta del primo si è voluto intendere sia l’estromissione delle persone da un domicilio che l’oggetto, un piccolo bastone, con cui il messo governativo, bussando alle porte, segnalava agli abitanti di Pitigliano, antico borgo toscano che a partire dal XVI secolo ospitò una grande comunità ebraica, che fosse giunta l’ora di raggiungere il resto della comunità, nel ghetto, durante la cacciata del XVII secolo. Di quel bastone è rimasto un ricordo anche grazie al dolce (la ‘Gerusalemme toscana’) che i maestri pasticcieri locali hanno voluto creare per tener viva quella memoria. La zattera è invece legata a “La zattera della Medusa, il quadro di Théodore Géricault  (1818-19) in cui è rappresentato il naufragio davanti alle coste francesi della nave Medusa, i cui superstiti, per sopravvivere, si abbandonarono ad atti di cannibalismo.

Abbiamo incontrato Paolo Saporiti e siamo stati felici di rivolgergli alcune domande. Ecco l’intervista.

Raccontare il disco di un cantautore è sempre estremamente difficile. Raccontare in due parole un disco come “La mia falsa identità” è impresa quasi impossibile. Questo per via delle innumerevoli suggestioni che un’opera del genere regala in chi la ascolta. Provo perciò a stimolarti attraverso una serie di domande che hanno in sé anche un po’ di provocatorio. La prima parte dal titolo. Perché hai scelto “La mia falsa identità”? Non c’è il rischio che chi ascolta resti confuso chiedendosi chi sia realmente Paolo Saporiti?
È proprio quello che vorrei che succedesse, in realtà, anche se sento che la mia identità artistica è sempre più solida, ti spiego in quale direzione. Inizio da quello che vorrei che fosse il risultato finale di una mia serata normale, dopo il live, perché le cose vanno di pari passo, non sono staccate: la gente dovrebbe rimanere stupita, sorpresa e confusa, trasformata in qualche modo. Durante il live dovrebbe sentirsi nella condizione di domandarsi: ma sarà tutto vero? Stava recitando? Questa storia è successa davvero e ci stava dicendo la verità? Di chi e di che cosa parla esattamente? Quello che parla è o non è un personaggio? Quale e perché? Chi stava piangendo? E per chi? Io vorrei che dominassero sempre di più delle domande di questo tipo e mai delle risposte univoche. E che alcuni falsi miti venissero distrutti, nel nome di quello che si sente volta per volta. Le seconde, le risposte, vorrei che fossero dettate dalle emozioni provate e che la verità scaturisse soltanto da una percezione poetica dell’insieme, intuitiva, e non razionale e predefinita. Ho scoperto che nella diversità, nella gestione della complessità, sta il bello, e questo vorrei regalare: la riscoperta della molteplicità dell’Io e del Noi. Il mondo di possibilità che la creatività ci propone e ci lascia come dono non può essere dimenticato. 

Al di là della spiegazione che hai dato tu, con il susseguirsi degli ascolti, ho provato a dare una mia interpretazione ai sottotitoli dati ai due capitoli del disco (anzi, dell’album, termine che scelgo non a caso per evocare, a pieno titolo, la tradizione cantautorale italiana), non so se possa essere o meno condivisibile. “Lo sfratto” per me simboleggia lo strappo forzato dalle proprie sicurezze, dalle certezze in cui ognuno di noi affonda creando però attorno a sé un muro di convenzioni e paure. “La zattera” è invece il desiderio di libertà, che scaturisce dalla voglia di consolidare la propria indipendenza aggrappandosi alle proprie risorse…  Sei d’accordo?
Sì, in parte. E’ tutto un gioco che mira a destrutturare quello che c’è che a me pare aver soltanto portato male alla musica, in Italia. Ripartiamo dalle macerie. Una sorta di omologazione deleteria e di disabitudine generale alle diversità ha reso stagnante il sistema. Lo sfratto, per me, è una metafora della violenza psicologica, della prevaricazione umana e relazionale. Un’immagine concreta, per parlare di come a volte ci si trovi abitati dall’identità e dai pensieri e dai sentimenti altrui. Questa è un’esperienza fisica reale che chi ha avuto a che fare con la malattia mentale radicale e profonda (la psicosi, nella fattispecie) conosce bene. Figlia di modalità genitoriali di stampo altrettanto psicotico, senza confini definiti e chiari del dove inizi e dove finisca il proprio Io. Confusione delle lingue e dei ruoli. Ricordo che quando entravo in campo – parlo di calcio e dell’adolescenza – o in classe, già a partire dalle medie, la mia mente era tutto tranne che abbandonata ai miei pensieri personali. Vigevano spesso quelli di mio padre, che tendenzialmente saturavano la stanza e la mia esistenza in generale. Ero preoccupato, ero stato sfrattato dal mio stesso corpo e dalla mia mente. Attingo, di conseguenza, da tutto quel lungo lavoro che ho fatto poi per rientrare in possesso almeno delle mura di casa. Poi, nelle stanze, ho iniziato a mettere gli arredamenti che preferivo, ma per un bel po’ è stata solo una questione di sopravvivenza e di definizione dei confini. Per questo mi identifico facilmente con le figure violate, oppresse e ghettizzate, che subiscono violenza. La zattera è la speranza, almeno nelle premesse. Purtroppo resta o è stata spesso mal riposta in un umano che smentisce subito i suoi presupposti e ideali e il suo essere ‘essere umano’, in senso lato. Quotidianamente, nel nome della sopravvivenza – e qui la metafora diventa facilmente economica – si mangia e si vince sul simile. Parlo di poco più che di una bestia, di una belva, di un animale a cui tanti di noi si sono ridotti. E questa è la metafora di come la vedo su questo mondo, occupato e invaso da invidia e fame di soldi, di potere, senza rispetto alcuno per la Natura, tra le altre cose. 

Il brano con cui inizia l’album, “Grandi verità“, si sviluppa con un arrangiamento che definirei quasi da melodramma verdiano, ovviamente attualizzato grazie anche ai sapienti innesti dell’elettronica. Un tema che si accompagna a un testo intimista che, in antitesi con la sicurezza che anticiperebbe il titolo, paradossalmente restituisce un senso di fragilità e precarietà. Provare a parlare di verità allora significa illudersi?   
Non ne sono convinto. Nel titolo domina l’ironia, checché la cosa risulti più o meno evidente nel brano in sé, e questo diventa per me ancora più evidente nel live. Per questo tengo molto ai concerti, perché è lì che si amplifica e prende forma il tutto. Il significato si riverbera e diventa coerente, anche per me, come del resto sfogliando le pagine del booklet del disco. Di grandi verità non ne esistono: i dogmi durano giusto il tempo della produttività del potere che li ha generati. Quelle che rimangono per sempre sono le nostre emozioni e i nostri sentimenti, i ricordi e le immagini che scaturiscono da quei piccoli gesti e dalle acquisizioni poetiche che ci distinguono gli uni dagli altri, ma che ci identificano come esseri umani. La fede fa parte dello stesso meccanismo. Di sicuro non mi sono mai accontentato di verità calate dall’alto, con le quali hanno anche provato a indottrinarmi, col rischio di renderci tutti uguali e incapaci di decidere, scegliere o agire liberamente. Costruirci una propria strada. Io vivo nella costante ricerca di me stesso e della mia verità. Ma la verità è un processo, non un punto di arrivo. Sto per farmi tatuare la frase “Conosci te stesso” su una mano, ma nel senso di: uomo, ricordati di essere un essere umano, e che qui abita un dio. Questo è il vero senso di quello che stava scritto sull’entrata del tempio di Apollo. 

Ne “Il bacio di Giuda” l’idea del tradimento sembra apparire quasi necessaria per sopravvivere. Hai mai tradito (non qualcuno, ma qualcosa) per riprendere in mano la tua vita?  
In realtà io sono spesso il tradito della situazione. Come per il Gesù che si intercetta tra i versi, Pilato se ne lava le mani. Giuda lo tradisce. Io non tradisco e, se l’ho fatto, è capitato quando ormai tutto era passato in cavalleria. Parlo della superficie delle cose ora. Ma qui, nel brano, parlo dell’ineluttabilità di una condizione passiva, che si subisce, rispetto a una situazione molto precisa, in cui mi sono trovato e sentito incolpare del fallimento di un progetto e della bontà, in soluzione a tale fallimento, dell’entrata di un nuovo elemento, ipotizzata proprio come unica via di salvezza per la suddetta situazione deludente, all’interno di in una ristretta squadra di lavoro. Dal mio punto di vista, contravvenendo a ogni forma di rispetto personale, il tradimento è stato radicale e inaccettabile, e di questo parlo nello specifico. Alla tua domanda quindi rispondo così: no, il tradimento non è necessario. È un’ipotesi tra le mille possibili, ma discutibile e deprecabile. Certo, per rincorrere e trovare la propria verità, contemplata, ma per trovare una soluzione esistenziale. Non di meno. Quando gli altri però non capiscono o fingono di non capire; come il suicidio o il sacrificio. E’ un segnale.  

 

La musica che attraversa le venti tracce del disco è crepuscolare e onirica al tempo stesso. Trovo che la scelta di privilegiare le tessiture acustiche e di accompagnarle da arrangiamenti che regalano derive a volte dark sia tra le migliori intuizioni dell’album. È stata una scelta che hai maturato nel tempo o le canzoni nella tua mente erano nate già così?     
Il disco ha subito un grosso cambiamento di piani, in fieri. E’ nato come un doppio cd definito e preciso nei confini, scandito dagli interventi e dalle collaborazioni. I due capitoli dovevano corrispondere alle due squadre messe in campo, in fase di arrangiamento. Il Trio di Acini live da una parte e la scrittura orchestrale e basata sugli archi dall’altra. È successo poi che il modo di lavorare si è contaminato e incrociato, fino a quando, con la post-produzione, io e Raffaele Abbate, chiusi in studio per mesi, abbiamo ricamato un vestito ad hoc coerente per entrambe le parti, mescolando le carte e trovandone di nuove.   

Raccontare le proprie emozioni in musica genera inevitabilmente sofferenza. Ci hai già raccontato come la tua musica nasca da sofferenze interiori. Che sensazione ha attraversato il tuo animo nel ripercorrere una vicenda come quella che riguarda i tuoi antenati e che è alla base della suite “Sei bellissima / La dignità di Elena” nella quale il registro adoperato è quello dell’estrema delicatezza nel raccontare una vicenda così straziante?
Volevo una fiaba e un video che raccontasse la storia romanzata. Erano anni che desideravo raccontare questa parte della mia autobiografia. Ho pensato a uno spettacolo teatrale, a un romanzo, a un film, a dei quadri, ma alla fine sono un cantautore e ho unito tutti questi puntini con la mia passione per il teatro e ho scritto e immaginato un monologo (con la regia e collaborazione di Irina Casali) che ora porto in giro incastonato tra le canzoni del nuovo disco. Ho pensato a un cartone animato naif, un video che potesse finalmente mettere a terra l’idea con leggerezza, per accompagnarla nelle singole vite delle persone interessate a capire, per dire che il transgenerazionale esiste: le sofferenze e le violenze di un certo calibro si pagano per generazioni intere. E, come attraverso un imbuto, si proiettano sui posteri. Di norma investendo un unico capro espiatorio, che paga per tutti. A quel punto non basta neanche l’essere ripagati o gratificati economicamente. I soldi non compensano l’odio o l’assenza di amore, checché ne pensi la maggioranza. Questo volevo raccontare: non è oro tutto quello che luccica.  

Un’altra chiave di lettura delle canzoni di questo album riguarda il rapporto con il tuo io interiore. Di cosa è figlia l’inquietudine che lo attraversa e che rende ogni scelta stilistica mai banale e fine a se stessa?
Credo, in parte, di aver già iniziato a rispondere alla questione nella risposta precedente. A questo, all’idea di un’eredità emotiva che si traduce da e per generazioni, sofferenza dettata in alcuni frangenti, e in casi efferati come in questo, si aggiunge uno scotto che l’individuo paga quasi naturalmente, soltanto perché originato da dinamiche familiari e relazionali non sane, nell’ultima generazione, quella che meglio conosciamo, perché più vicina (i genitori) a volte completamente sbagliati e deleteri, nei modi, per la salute della persona e del figlio/a. È solo il singolo individuo che col suo lavoro, spesso soltanto una volta coadiuvato e seguito da un professionista (il rallentatore di passi della canzone), può giungere alla felicità, come una possibilità tangibile in vita. 

Per il video di “Vince lei” hai fatto ricorso a qualche feature tecnologica che regala una nuova chiave di lettura al brano. Le varie facce in cui ti trasformi sono le diverse espressioni della personalità dell’io che si apre all’ascoltatore o sono invece i diversi caratteri con cui egli viene percepito da chi ha di fronte?  
Direi entrambe. Ma non dimentichiamoci che il video è frutto anche di altre intenzioni, quelle dei registi e di chi lo ha immaginato con e per me, non solo delle mie. Evito di porre troppi paletti, nelle mie collaborazioni, e lascio libera interpretazione a chi lavora con me, come al pubblico. Detto ciò, io non credo che la “colpa” del fraintendimento di un messaggio, qualunque esso sia, stia al di qui o di là della barricata, in assoluto. Le cose si fanno sempre, minimo, in due, spesso in tre o quattro. Credo che il messaggio che sovente viene frainteso dall’esterno, spesso sia stato lanciato da qualcuno di non risolto e quindi passibile di un punto di vista anche se non radicale, una richiesta di crescita e di sviluppo ulteriori. In “Vince lei” vince la musica sulla depressione e la morte, sul lasciarsi andare. Sono argomenti complessi, avremmo bisogno di ore, spero che qualcosa si capisca comunque.  

Il secondo capitolo dell’album si caratterizza anche per due canzoni simili nel titolo: “So navigare benissimo” e “Sai nuotare benissimo” e curiosamente di uguale durata, ma completamente diverse nello stile: più dark-rock la prima, più solare la seconda. Sembra che la convinzione del saper navigare (mi piace molto l’idea del ‘tenere insieme le vele’) faccia il paio con una sorta di autoconvinzione di invincibilità e di ego incontrollato in cui si basta a se stessi, mentre di contro l’affermazione del saper nuotare, certificata da un ipotetico interlocutore, rappresenti un’attestazione di fiducia verso di lui giunta dopo aver avuto prova da lui stesso di affidabilità. Nella vita è più gratificante affermare di saper navigare benissimo o ascoltare qualcuno che dica che sai nuotare benissimo?   
Nella vita, è importante saper ammettere di avere bisogno degli altri, neo-naufraghi o compagni di viaggio di vecchia data che si sia, o meno. Saper chiedere aiuto. Per tenere le vele e la barra a dritta, e sopravvivere alle tempeste, servono compari, compagni, amici e relazioni importanti stabili su cui potersi appoggiare. In un mondo così violento e spietato, e divisivo, come quello di oggi, ancor di più. È importante strutturarsi, difendersi e saper nuotare e navigare “benissimo”, anche e soprattutto per poter aiutare chi ne ha bisogno nel momento del bisogno. È una coppia di canzoni sull’abbandono e la paura di perdere, sulla fratellanza e la condivisione delle difficoltà, nei momenti di crisi. Una pandemia, ad esempio. E di sicuro, sì, c’è di fondo una questione basilare sul tema della fiducia. Mi sembra che poi tu punti l’attenzione sul riconoscimento, e giustamente: lo fa tutto il progetto, in qualche modo.   

Ogni brano del disco sembra suonato dal vivo. Un’alchimia, quella che hai raggiunto con i musicisti che suonano con te, su tutti, per anzianità di collaborazione, Alberto A. Turra e Lucio Sagone (ma ricordiamo anche Stefano Cabrera al violoncello e poi i featuring di Mario Arcari, che suona l’oboe d’amore in “Un sogno ancora da inventare“, e di GnuQuartet, presenti in “L’autobomba“), ormai pienamente consolidata. Cosa è cambiato dalle prime volte, a parte la maggiore confidenza musicale tra voi?
L’idea era quella di sfruttare al massimo l’energia, l’esperienza e l’empatia del trio di Acini live e su questo contesto andare a inserire tutti gli altri interventi. Ma quello che radicalmente ha fatto la differenza è stato il rapporto tra me e Raffaele Abbate, l’aspetto nuovo che nel tempo si è sviluppato e consolidato e cresciuto, soprattutto in tema di fiducia reciproca, sempre per rimanere nel tema di prima, per se stessi e per le proprie capacità. Questo vale per entrambi, credo. Ho scoperto uno splendido e nuovo compagno di viaggio. Questo ha fatto sì che si sia creato un meccanismo virtuoso che in fase di post-produzione ha davvero trasformato e illuminato il disco. Nulla suonava come suona ora, prima del trattamento a quattro mani che abbiamo realizzato in studio, a Leivi. Con Stefano Cabrera ci siamo poi incrociati due volte, questo è il segreto dell’arte e di quando uno ha sulla punta dei polpastrelli tutti gli strumenti necessari per fare Arte. La stessa cosa vale per tutti gli altri splendidi musicisti coinvolti.  

Nelle tue canzoni c’è, oltre all’inquietudine, un continuo rimando al contrasto tra opposti. Bene e male, vita e morte, giorno e notte, acustica e rock, voce sussurrata e voce gridata. In mezzo, l’arte che scorre originale, inattesa, libera, viva. Cosa diresti al Paolo Saporiti degli esordi e delle canzoni in lingua inglese?
Che aveva già capito tutto da bambino, gioia e rabbia, tutto il mondo, quindi: bene! Che l’arte risiede nella ricerca della verità, nell’abitarla con tutti noi stessi. L’onestà. Che il teatro è una via eletta per questo processo, laddove la recitazione sia viva e umana, non surrogata e viziata o usata come mezzo e non come fine. Ci vuole amore e rispetto per se stessi innanzitutto, poi arriva quello per gli altri. O meglio: se non rispettiamo noi stessi profondamente non saremo mai in grado di rispettare l’altro.  

Il disco è uscito ormai da qualche settimana. Quali sono stati finora i riscontri più belli e magari inattesi che hai ricevuto?   
Una frase su tutte, di un amico, intenditore di musica (Gustavo Tagliaferri) dopo un live: entrare silenziosamente, disporre di una verve teatrale non meno funzionante e poi salire, imbracciare la propria chitarra ed iniziare raccontando di un altro Gesù. Questa la trovo una frase che, potessi, sarei felice di saper parte del mio epitaffio, almeno per ora. Poi la recensione di Sentireascoltare di Stefano Solventi, o quella di Cristiano Orlando per Ondarock, mentre ora aspetto quella di Blowup di Federico Guglielmi, quella di Antonio Briozzo per Rumore, e di Lino Brunetti per il Buscadero. Rockerilla non so se ha ancora intenzione di darci attenzione, ma ci tenevo parecchio. 
Credo ancora parecchio nella carta stampata, e nei giornalisti che sanno scrivere e approfondire, del resto non me ne frega granché. Io credo nella musica come professione, fatta e condivisa da esperti, scambiata. Purtroppo siamo al limite anche di questo. Potrebbe essere tutto già finito. Ma coltivo la speranza. Fino all’ultimo. Anche se la fune che teneva stretta e a rimorchio la zattera è stata tagliata, e a qualcuno manca di già qualche organo o buona parte del corpo e della mente. Cannibalizzate, come accadde sulla Medusa.  

Leggendo le tue note di presentazione, l’album potrebbe significare la fine di un percorso intrapreso o un punto di svolta. Cosa vedi nel tuo percorso futuro?
Tutto scorre, da solo, e segue un flusso ispirato e insperato, ma mai tanto attuale: bisogna lasciarsi andare e guidare da chi ne sa di più, e da chi non c’è più. Conosci te stesso, ancora una volta. Affidarsi all’invisibile. Non è facile, ma tant’è. Alcune cose le possiamo fare e decidere da soli, altre sono a portata di mano, ma guidate e condotte da chi ne ha il vero potere e la forza, bisogna solo saper aspettare e accettare questa cosa (che l’uomo non può  controllare tutto). È tutto un lungo apprendistato, verso un mondo di possibilità, la cui esistenza denunciavo già in “Just let it happen…” bisognava soltanto credere/ci. E arrendersi. ‘Bisognava dirlo a tuo padre che a fare un figlio con uno schizofrenico avremmo creato tutta questa sofferenza’… e tutte queste altre possibilità di felicità invece? Amore, Arte, creatività? Mi viene da dire ora: camminare a braccetto con la sofferenza, per cambiare e crescere col mondo. ‘Il mondo è bello, perché è vario’, e ‘dalla merda’ possono anche ‘nascere i diamanti’, a volte… Come una moneta, che scagliata contro una parete, a volte, può anche riuscire ad attraversarla. Basta crederci, e studiare come e perché sì e perché no. Prepararsi, al meglio, all’ipotesi che sta dietro a un buco nero: che esista un buco bianco, e che la cosa non sia affatto definitiva, come si dava per scontato soltanto qualche decennio fa. 

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...