(foto Daniela Rende)

Abbiamo incontrato il virtuoso chitarrista cosentino che in giro per l’Italia sta facendo conoscere il nuovo disco solista “Present”

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(foto Marco Costantino)

Aveva ragione il suonatore Jones di deandreiana memoria. Se nasci chitarrista, chitarrista lo sei e lo sarai per tutta la vita, a pizzicare quelle sei corde, che magari più di tutte esprimono veramente la tua anima. Lo sa bene Massimo Garritano, virtuoso musicista di origini cosentine che si è fatto strada con la sua arte grazie a performance ricche di pathos e intensità. Esecuzioni che lo hanno portato, nel corso degli anni, a collaborare con diversi artisti in progetti entusiasmanti per il coinvolgimento e il messaggio. Sonorizzazioni in diretta di capolavori del cinema muto (da “Nosferatu” a “Luci della città“), musiche per balletti, reading teatrali (tra cui il recente impegno con Ernesto Orrico per “La mia idea“, dedicata all’anarchico Joe Zangara). Esperienze sempre diverse, ma accomunate da una passione crescente testimoniata da una ricerca certosina della perfezione stilistica per uno strumento non facile, la fedele chitarra acustica appunto, a cui si accompagnano bouzouki, dobro, effetti e oggetti vari, tutti protagonisti di “Present“, un lavoro solista, distribuito da un’etichetta indipendente, Manitù, in cui Garritano si mette a nudo.

Dieci brani composti, improvvisati e suonati che regalano un viaggio sensoriale frutto di un’estrema sensibilità. Quella stessa sensibilità connessa all’intensità di performance che vanno dritto al cuore, e che parlando, raccontano storie. Sì perché, pur essendo privo di testi, ciascun brano porta con sé una dose di incredibile comunicativa. Pensiamo all’incipit del disco, a quella fierezza con cui la “Dancing Mary” volteggia ballando leggiadra sul palcoscenico della nostra immaginazione, o a quel “Great Spirit” che non può che evocare voci di altre età, e trovar tranquillamente posto in un western di Quentin Tarantino o in un film che racconta la triste epopea degli indiani d’America. Il viaggio prosegue con la poesia gentile di “Adelaide“, l’assuefante ciclicità di “Goodbye“, e altri episodi che testimoniano la ricchezza di un disco che raccoglie al proprio interno piccole gemme preziose senza tempo, generate da un’arte compositiva che si distingue per la propria genuina freschezza. Pensiamo ancora a “Costellazione 5“, dove il metallo delle corde si fa trampolino per un’esperienza che sembra proiettarci verso altri mondi, o “Nick Drake“, dove l’omaggio dichiarato al geniale cantautore inglese diventa occasione per una nuova avventura acustica. Armonie che raccontano, dicevamo. E allora ci appare inevitabile far parlare l’autore, stimolandolo con qualche domanda, che ci auguriamo possa essere pertinente.

Massimo, come è nato questo disco, e perché il senso di un titolo – Present – così legato all’attualità e al momento?
Concettualmente 6 anni fa, quando iniziai a sperimentare la dimensione della solo performance e, successivamente, ad approfondire lo studio della chitarra acustica e delle accordature aperte. La chitarra acustica è stato lo strumento sul quale ho iniziato ad esprimermi. Il mio imprinting timbrico-musicale proviene da lì. Il titolo ha per me due significati. Il primo è temporale. In senso filosofico l’essere qui ed ora, con quel che ne consegue. Vivere il presente, senza farsi schiacciare dal peso del passato o riponendo eccessive aspettative nel futuro. D’accordo facciamo programmi, ma limitiamo le ansie. Nell’accezione più propriamente musicale, il presente per me è “scoperta”, è improvvisazione estemporanea, pratica che mi vede impegnato da anni e che difendo esteticamente. Il brano che porta il titolo del disco conferma questa mia visione delle cose: è infatti frutto di un’improvvisazione in studio. Niente overdubbing o editing perché ho voluto essere onesto fino in fondo. Inciso per ultimo, è il brano che rafforza il concetto di tutto il lavoro.

Present significa anche dono. Qual è secondo te il regalo più bello che la musica può fare al mondo?
Esatto, dono è il secondo dei significati. La fortuna di esserci. Presenti e possibilmente consapevoli.
Basta guardarsi intorno e osservare quanto tutto sia sempre più precario, non solo dal punto di vista lavorativo. Mai come questo periodo storico viviamo un senso di smarrimento. Mentre ti scrivo è successo l’episodio di Nizza e stiamo assistendo alle epurazioni di Erdogan in Turchia. Penso a quanti non ce la fanno e già l’esserci è miracoloso. La musica regala serenità e svago ma può smuovere le coscienze e rendere il nostro mondo più sopportabile.

(foto Daniela Rende)
(foto Daniela Rende)

Mary Garrett, Adelaide, Davide S… sono le persone la tua fonte di ispirazione?
Si, questo disco parla anche di esperienze umane. Non ci sono i testi, è vero, ma ogni brano è una storia. Come se raccontassi una persona, descrivessi un episodio, una sensazione o un’esperienza che mi ha visto protagonista o spettatore. Diversamente da altri miei lavori che hanno tratto ispirazione da libri o cinema, questo è un disco nato guardandomi intorno. Uno sguardo al di fuori di me, per certi versi.

Cosa ha rappresentato Nick Drake nel tuo percorso di formazione artistica?
Confesso che solo negli ultimi due anni la figura musicale di Nick Drake ha iniziato a gravitare con frequenza nella mia orbita. Non rientra direttamente tra gli artisti della mia formazione, come ascoltatore e musicista, e fino allo scorso inverno non mi ero mai concentrato sulla sua musica dal punto di vista chitarristico. Come altri cantautori folk dell’epoca, fine anni 60, sperimentava con le accordature non convenzionali. Il brano che porta il suo nome è evocativo della sua figura. Non l’ho composto su un’accordatura drakiana, benché il suo spirito aleggi altrove nel disco, perché ho usato l’accordatura di una sua canzone per scrivere Lady in the car il cui titolo e andamento, un po’ ‘West Coast’, rimandano alla figura di Joni Mitchell.

Chi sono i “Little Boys” che danno il titolo a uno dei brani del disco?
Prima della registrazione, il ragazzino era uno solo. Ho aggiunto il plurale per mettermi a posto con i nipoti. Come saprai le famiglie calabresi sono inclini alle gelosie. Una consonante in più, in questo caso, è garanzia di serenità. Il titolo, a voler essere più impegnati e profondi, funge da monito a non farmi prendere dalle complicanze musicali a tutti i costi e godere anche di cose semplici. Come un ragazzino, per l’appunto

Great Spirit” sembra evocare un richiamo al soprannaturale. E’ così? Sei religioso?
Assolutamente. Hai colto. Sono da sempre affascinato dalla cultura dei Nativi Americani, dalla loro spiritualità, dalle loro tradizioni e da questa forza innaturale ed immanente che è il Grande Spirito.
Dal vivo è un brano che suono quando percepisco le giuste vibrazioni e mi trovo nel posto giusto. Devo sentirmi, per così dire, in pace con l’Universo perché per me è brano mistico. Si basa fortemente sull’improvvisazione la cui forma e contenuti sono cangianti, come lo è la vita del resto. Per cui, se non mi sento energeticamente carico, preferisco non scimmiottare sperimentazioni.
Più che religioso sono spirituale. La religione è un’istituzione in mano agli uomini e gli esseri umani non sempre fanno le cose per bene. Credo nella reincarnazione e in Chiesa vado solo quando è inevitabile: battesimi, matrimoni, funerali, insomma.

Nel disco si avverte la necessità di spaziare tra generi diversi. Una scelta dettata da qualche esigenza in particolare?
Non è stata una scelta prestabilita. Quindi nessuna esigenza particolare se non quella di assecondare la mia natura. Sono una persona curiosa e musicalmente incline alle contaminazioni. Da sempre. Ciò può generare anche difficoltà perché se non sei etichettabile non rientri in un settore musicale, quindi rischi di essere collocabile sul mercato con difficoltà. Perché non dimentichiamoci che siamo anche merce da vendere e se non hai una targhetta come gli indumenti è più complicato veicolare il tuo essere materia musicale.
Ho fatto ascoltare il disco ad alcuni promoter e addetti ai lavori. Un professionista, di cui non ti svelo il nome, mi ha detto: “Il disco suona bene, è un bel lavoro, la chitarra è così definita e limpida che, paradossalmente, avrei difficoltà ad inserirti in alcuni circuiti indie e una finta sporcizia renderebbe il tutto più hype e tu non lo sei, alla moda”. Un altro: “Ehm, ma non è jazz”.
Poi ci sono quelli che amano il rischio, non si pongono inutili limiti e aprono porte di circoli e festival. Infatti il disco e i concerti vanno bene. Ammetto, tuttavia, che, quando mi domandano che genere di disco è, vorrei rispondere semplicemente: “Un bel disco“. Forse non si coglierebbe l’ironia nella risposta e passerei per auto-incensatore, però. La musica strumentale ormai è come la musica di largo consumo, piena di steccati.
Io continuo a preferire le grandi praterie.

Nelle tue composizioni fai uso di oggetti con i quali prepari la chitarra. Ci spieghi meglio di cosa si tratta?
Sì. Questa pratica ha una lunga tradizione che si perde nella notte dei tempi. Personalmente uso oggetti di ogni genere: carte, ferretti per capelli, graffette, pinzette, pezze per pulire gli occhiali. Lo faccio per evocare i suoni di altri strumenti, che non ho. Oltre che provare a riprodurre i suoni che sento nella testa. Ho sempre prestato attenzione al timbro, retaggio dei miei anni di chitarrista elettrico con effettistica al seguito. La cosa mi diverte molto.

Massimo con la sorella Maria Francesca, alias Mary Garrett, ballerina
Massimo con la sorella Mariafrancesca, alias Mary Garrett, ballerina

La tua carriera è costellata da episodi che ti hanno portato a collaborare con vari artisti, in progetti che spaziano dal cinema alla danza, e che, nella musica, attraversano diversi generi. Come vivi questa contaminazione e in che modo arricchisce la tua produzione artistica?
Come detto prima, sono curioso e musicalmente non riesco a stare per troppo tempo senza cambiare le cose. Le contaminazioni per me sono fondamentali e ogni esperienza lascia elementi da elaborare oltre che fornire spunti creativi. Se vai sul mio canale Youtube puoi risalire alla genesi di “Great Spirit”, ad esempio.
Durante “Mary Garret & Billy Kid”, spettacolo di musica e danza che porto in giro con mia sorella Mariafrancesca, dovevo fare un’introduzione ad un brano che lei avrebbe coreografato. Quella serata venne ripresa e rivedendone i contenuti capii che c’era qualcosa che chiedeva di esser sviluppata. Succede anche quando lavoro con attori per il teatro. Ho scritto e scrivo per readings, ho sonorizzato film e talvolta le idee musicali diventano veri e propri brani. Ultimamente nel corso dei concerti di presentazione del disco ho iniziato a mettere mano anche alle composizioni interamente scritte inserendo elementi nuovi.
La mia anima sperimentale e l’istinto talvolta prendono il sopravvento e il concerto è in continua evoluzione.

(foto di Aldo D'Orrico)
(foto di Aldo D’Orrico)

Present è un disco che racconta storie, senza utilizzare parole. Proviamo però a giocare, considerando la vocazione di NoteVerticali che, oltre alla musica, abbraccia altre declinazioni culturali, dal cinema alla letteratura. Se Present fosse un film, cosa sarebbe? E se fosse un libro?
A dire il vero, la mia musica è perfetta per il cinema, e sto aspettando che un regista se ne accorga per andare insieme a vincere a Los Angeles. Alcune tracce sono state utilizzate per readings e due registi mi hanno detto che lo vedono bene in ambientazioni da frontiera, rurali. Forse per via degli strumenti acustici.
Se fosse un film sarebbe un film sulle relazioni umane. Se fosse un libro, sarebbe un libro zen.

Attraverso i social ci sembri molto attivo e ‘presente’ nella realtà che vivi. Dal tuo punto di vista, In che modo l’arte e la cultura possono contribuire a migliorare la società?
L’arte e la cultura dovrebbero essere lo specchio della società. La politica dovrebbe migliorare le cose. Invece è vero il contrario, succede che siano gli artisti a dover porre rimedio. Per come stanno messe le cose non si può più stare in casa a studiare. L’artista deve partecipare alle problematiche sociali, uscire dalla propria stanza, anteporre l’altruismo all’ego. So che può apparire contraddittorio detto da me che ho un progetto discografico in solo. Credo fermamente che un artista debba prendere posizioni. A prescindere dalle appartenenze politiche. Soprattutto non dovrebbe mai svendere la propria natura per meri profitti economici. Nel mio piccolo cerco di dare sostegno a cause che ritengo giuste e a persone, associazioni o organizzazioni che si prodigano per il sociale, per chi ha realmente bisogno. E poi l’artista deve, in un certo senso, dare fastidio, stuzzicare. Non con inutili atteggiamenti da star o posizioni finto bohémienne ma con opere che stimolino il pensiero collettivo. Divertire e pensare. Pensare e divertire.
Diceva Fabrizio De Andrè: “L’artista è un anticorpo che la società si crea contro il potere e se si integrano gli artisti ce l’abbiamo nel culo”.

Da artista del Sud e, immaginiamo, fiero di esserlo, cosa consiglieresti a un tuo giovane concittadino che volesse intraprendere una carriera artistica?
Questa è una domanda pericolosa. Oggi, con le difficoltà che ognuno affronta per arrivare alla fine mese, gli suggerirei di provare ad investire altrove per limitare fatica e delusioni. È innegabile che al Sud sia difficile fare questo mestiere, come altri, del resto. Per Sud intendo Sud d’Europa, non specificatamente italiano.
Le difficoltà arrivano da più fronti. Il nostro Stato quanto a tutela della categoria è parecchio indietro.
Pensiamo alle tassazioni cui sono soggetti tutti gli addetti ai lavori, alla scandalosa gestione della Siae circa i profitti e gli oneri a carico di organizzatori di attività culturali, al quasi 30% di tasse per una pensione che non avremo mai. Una burocrazia soffocante. Non ci manca nulla, neanche i Ministri che chiedono esibizioni gratis.Certo, abbiamo il buon cibo. Ma ci resta quello perché anche il mare è sempre meno pulito, almeno dalle nostre parti. Aggiungiamo che la nostra categoria, i musicisti, siamo, genericamente, dei cani sciolti.
È più facile camminare sull’acqua che trovare tre musicisti d’accordo su qualcosa, e questo genera incapacità a fare gruppo. Tempo fa tentammo, con alcuni colleghi, la strada dell’Albo professionale.
Ancor prima di provare a mettere in pratica le idee che un mio amico aveva da proporre già si parlava di modificarle. Per certe cose non siamo pronti per la democrazia ed infatti in Italia…
Ultimamente mi sono confrontato con artisti di altre discipline e anche loro confermavano la scarsa capacità di essere uniti e solidali. Ciò, a mio avviso, dipende in parte dalla paura di perdere quel poco che ognuno riesce a conquistare e in parte da qualcosa di genetico che ci rende maestri nello sminuire il lavoro degli altri e atavicamente presuntuosi. Succede però tra autoctoni, perché noi del Sud e Sud-Europa quanto ad esterofilia siamo messi più che bene. A questo punto dovrebbe intervenire l’Antropologia a dirci come eravamo. Non voglio apparire catastrofico, anche perché io sono andato via e tornato più volte nel mio Sud.
Ad un certo punto, per scelta e un po’ per circostanze legate alla mia vita personale e non a delusioni professionali, ho deciso di investire sul territorio. Perché sono testardo, utopista. Restare e provare a cambiare le cose non è facile ma è possibile. Credo che per assistere ai cambiamenti bisogna agire tutti, singolarmente e poi come comunità e non aspettare che altri attuino i cambiamenti al posto nostro.
A chi volesse intraprendere una carriera artistica suggerirei di confrontarsi quanto più possibile con il mondo, non solo attraverso i social. Di mantenere le antenne sempre attive ed intercettare le persone giuste con le quali collaborare alla creazione e all’esportazione di un progetto. Di non aver paura di condividere ciò che si impara e si raccoglie dalle esperienze. Di cercare il modo giusto per far uscire la propria voce interiore.
Di essere professionale sempre, in qualsiasi contesto musicale e in qualsiasi luogo in cui si avrà la possibilità di esibirsi. Di prepararsi a grandi sacrifici. Anche perché noi del Sud partiamo, logisticamente parlando, da molto lontano. Sono reduce da 3.900 km in 7 gg, pensa tu. Certo un camionista ne copre molti di più, lo so. Se provi quel desiderio spropositato e quell’ansia interiore che si placa solo quando riesci a comunicare realmente qualcosa, devi crederci fino in fondo perché se vuoi farcela ce l’hai già fatta. Quanto si raccoglierà dal proprio lavoro sarà un dettaglio. L’importante è il presente, esserci.
Perché alla fine la vita è una soltanto, il nostro è il più bel lavoro del mondo e vale sempre la pena provarci.

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(foto di Carlo Maradei)

 

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