“Giù nella stiva / tra i topi e l’olio Cuore / c’è ancora posto / per qualche cantautore”, cantava con tagliente sarcasmo Roberto Vecchioni ne La Corazzata Potëmkin, e ci viene in mente proprio quell’ultimo distico ora che riemergiamo da un’improvvisata immersione nel mare magnum del web, zuppi di voci e di proposte musicali spesso confondibili l’una con l’altra, tra cover di cover, copie di copie, ma con una piccola perla tra le mani. “C’è ancora posto / per qualche cantautore” nel gorgo digitale dello streaming, ci cantiamo in testa ora che chissà come ci siamo ritrovati ad ascoltare Paradis, primo ep di un giovane e peculiare artista francese.
L’indipendente Mont Joseph, nome d’arte di Joseph Truflandier, da Parigi, indifferente per vocazione e non per sdegno alle mode del momento, segue un percorso del tutto personale, con una proposta artistica che nella musica sembra voler convogliare le più diverse spinte creative. Moderno ma dal gusto rétro, mescolando musical a intimismo, dance a melodia, tra atmosfere sospese, classiche, quasi da colonna sonora, a altre più dure, concrete, synthetiche ma sempre emotive, Paradis è una suite di cinque tracce a metà tra cantautorato e musica scenica, un piccolo gioiello che specchia a un tempo la giovane gavetta e l’opera adulta.
Pop e raffinato, ora elegante ora divertito, Mont Joseph, coadiuvato da un esiguo gruppo di abili collaboratori, scrive, canta e interpreta con intensa leggerezza (L’homme du moment) e spontaneo romanticismo (Reste tranquille), fedele alle melodie e alla naturale prosodia della sua lingua madre (quel francese che oggi, Stromae a parte, fatica purtroppo non poco a superare i confini), ma con incursioni nell’italiano (Dolce baci) e nell’inglese (L’hiver arrive, che si chiude con una quartina tanto immediata quanto toccante: “Être heureux n’est pas ton fort / Je jette un sort encore encore / Pour qu’un jour tu sentes enfin / ce que veut dire que d’être humain”), sinceramente centrato sulle proprie urgenze emotive e sulla propria ricerca espressiva, ma senza snobistici anacronismi.
E siccome in quel mare magnum del web da cui siamo da poco riemersi, in quel gorgo dello streaming che risucchia di tutto, è tutt’altro che scontato trovare chi resista alle sirene del già detto o chi sappia far rimare qualità con consumo, abbiamo pensato di scrivere a Mont Joseph: un bell’esempio, anche, in fondo, di come la giovane musica possa comunque essere più ricerca che soluzione.
Chi è Mont Joseph, e come hai cominciato? In breve, come descriveresti la tua musica?
Mont Joseph è un progetto che ho iniziato dopo esser tornato da Roma, dov’ero stato per un paio di mesi. Avevo vissuto la storia d’amore perfetta, e poi di colpo mi sono ritrovato da solo, nell’angoscia più nera, d’inverno, sperduto nel nord della Francia. Ho cominciato a comporre diverse tracce a un pianoforte di un amico, mentre lui non c’era. Avevo il bisogno di tirar fuori tutto il dolore e l’odio che provavo in quel momento: odio per l’amore, odio per le relazioni, odio pure per l’Italia. In qualche modo sentivo che quell’atmosfera italiana aveva ucciso il mio amore, come se quella sensualità, quella passione fosse ingestibile, troppa da sopportare per una coppia. Quanto alla mia musica, la chiamerei “pop sinfonico”; una sorta di musica da camera che viene da dentro.
Ascoltando Paradis, si coglie subito che la tua musica è ricca di influenze da altre forme d’arte. Sembra una musica “visiva”, a volte, a volte teatrale, a volte addirittura cinematografica. Che tipo di relazione c’è tra queste diverse espressioni artistiche, nella tua proposta?
Proprio così, sì. Credo che non sia possibile tenere separate davvero le diverse forme d’arte. La mia formazione, poi, è principalmente improntata al visivo: coreografia e film. Ho realizzato anche due documentari. Tra l’altro, oggi più che mai, quasi tutto ha a che fare con l’immagine. La gente è ossessionata dal visivo. Le immagini possono essere fruite, digerite facilmente, ciò che è visivo dà subito gran slancio alla tua idea e basta poco per immergercisi dentro. Ma al tempo stesso penso che, anche se le immagini sono così importanti, anche se ci siamo tutto così dentro, il loro flusso sia in realtà una frase più illeggibile che chiara. Ora le immagini stanno diventando rumore…Bisogna essere dei geni come Brian De Palma o Werner Herzog per far valere davvero un’immagine.
Arti visive a parte, nei tuoi brani dai grande importanza alla parola, al testo. Chi sono i tuoi cantautori di riferimento?
Sembrerà strano, ma non ho dei cantautori di riferimento, eccezion fatta per alcune delle grandi star francesi del passato: Michel Berger, Véronique Sanson. Ad ispirarmi davvero, in realtà, è più il mondo della poesia: William Cliff, Henry Miller, Pier Paolo Pasolini…
Che rapporto hai con la musica italiana?
Ti racconto un aneddoto. Ero piccolo, e mia mamma comprò un disco: il meglio della musica italiana. Se ci ripenso oggi, mi fa così ridere: tutti gli stereotipi possibili e immaginabili erano lì dentro: canzoni d’amore, i tre colori della bandiera e una piccola Vespa sulla strada come copertina. E io l’ascoltavo, e continuavo a sentire: “Ti amo”. Questo linguaggio e questi vocioni mi hanno quasi ossessionato: era come se ogni cantante in Italia fosse una diva lì lì per scoppiare dopo l’ennesimo acuto…Aneddoto a parte, di musica italiana non conosco molto, e comunque non quella più recente: adoro le colonne sonore dei film, la disco, Giorgio Moroder e i compositori sperimentali tra gli anni ’50 e ’80.
Sul web ci sono così tanti “giovani artisti” che tentano di proporre la propria musica che risulta davvero difficile riuscire a essere notati. La tua proposta musicale è piuttosto singolare, sembra lontano dalle mode del momento. Che idea ti sei fatto di questa massiccia presenza di “artisti” su internet?
Come ogni giovane artista, sto provando anch’io a trovare il mio pubblico. Credo sia più difficile farlo quando non sei sincero prima di tutto con te stesso. Quanto a quel che dici sulla mia musica…che buffo! Io in realtà non ho mai notato fosse differente, credo sia uno strumento orientato verso un fine: il mio è un costante sforzo per esistere, trovando un pubblico effettivo che io comprenda tanto quanto lui comprenda me. Quella massiccia presenza è un dato di fatto difficile da fronteggiare. Sembra quasi che chiunque, oggi, abbia qualcosa da dire – e io non faccio eccezione: “Creare è diventato così semplice, parliamo un po’ di quello che ho in testa!”… Ammiro il web, e ammiro il mondo, per questo: è così pieno di risorse! Credo anche che se pensi di essere speciale e di poter offrire qualcosa di unico, be’: devi pensarci due volte. Gli artisti sono diventati i nuovi consumatori. Lo sono anch’io. E va bene così. A volte il pensiero di esser parte di questa massa è opprimente, rischia di travolgerti, perché ti chiedi che c’è poi di così speciale in quello che fai, nelle tue idee e nelle tue parole, e magari stai anche perdendo di vista cos’è che conta davvero per te. “La storia la fanno i vincitori”, si dice, ma quando si parla di arte è davvero impossibile sapere chi sarà ricordato per cosa. Ma comunque, non penso sia questo quello che cerca la mia generazione, oggi.
PARADIS – Mont Joseph
composition: Gauthier Quatelas & Joseph Truflandier
production & enregistrements : Pierre-Alain Grégoire
mixage: Etienne Caylou

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.