Un artista geniale e difficile da inquadrare, innovatore d’avanguardia e compositore prolifico, senz’altro una delle personalità musicali più influenti degli ultimi trent’anni
Era una notte di fine estate del 1984, una di quelle notti in cui l’acquazzone improvviso ti stava informando che l’estate era prossima al termine. Il mio walkman, compagno di una debuttante adolescenza tenera e curiosa, era sintonizzato su Raistereonotte, e a un certo punto, dopo Carlos Santana mi propose l’ascolto di un artista per me del tutto nuovo:
“I never meant 2 cause u any sorrow
I never meant 2 cause u any pain
I only wanted
wanted one time see u laughing
I only wanted 2 see u laughing in the purple rain.
Purple rain
purple rain…”

La canzone era “Purple rain“, tratta dall’omonimo album e colonna sonora del film, una storia visionaria che legava in sé due passioni, quella per la musica e quella verso l’altro sesso. Quella canzone fu per me, e credo per moltissimi miei coetanei, il primo approccio con Prince, un artista che da subito mi sembrò diverso e originale per quegli anni già troppo frivoli e leggeri anche per la musica. Cresciuto in un ambiente familiare in cui si masticava pane e jazz, artista dotato di genialità compositiva come pochi, dalla anarchica versatilità compositiva, è stato generatore di un continuum produttivo dallo stile decisamente radiofonico, ma non certo nell’accezione propriamente ‘pop’ del termine.
Erroneamente liquidato all’inizio, e in modo clamorosamente affrettato, come un emulo di Michael Jackson, il folletto di Minneapolis è stato invece molto di più, costruendo, in una carriera fatta, certo, di alti e bassi, un modo di fare musica tutt’altro che finto e asettico. Un sound anzi terreno il suo, fisico e carnale in alcune declinazioni, commistione di più mondi e incrocio tra espressioni e culture diverse tra loro ma non necessariamente incompatibili.
You don’t have to be beautiful
to turn me on
I just need your body, baby,
from dusk till dawn
You don’t need experience
to turn me out
You just leave it all up to me,
I’m gonna show you what it’s all about
(“Kiss“, da “Parade“, 1986)
Nero e bianco, rock e funky, con venature jazz (l’endorsement di Miles Davis non arrivò certo per caso) un groove a supporto di testi con allusioni sessuali più che esplicite (pensiamo, tanto per citarne uno, alle canzoni dell’album Come, del 1994) ma non solo.
Prendiamo “Sign o’ the Times“, title-track del disco capolavoro del 1987, che racconta gli anni ’80 in un linguaggio diretto, senza fronzoli né inutili voli pindarici, e si segnala anche perché probabilmente è la prima canzone al mondo a parlare di Aids:
…In France a skinny man
died of a big disease with a little name
by chance his girlfriend came across a needle
and soon she did the same…
Il tutto, condito da un sound difficile da dimenticare, e da un video all’avanguardia per l’epoca, che certo non sfigurerebbe tra le nuove produzioni di oggi. E che dire dei live? Spettacoli visivi che accrescevano la fantasia di ogni spettatore privilegiato, difficilmente impassibile di fronte a una continua meraviglia di sorprese catapultate sul palco. Trionfo dell’immagine, certo, per un lavoro certosino, il suo, di compositore, musicista, arrangiatore e produttore, figlio di una ostinata ricerca metodica volta a recuperare e innovare al tempo stesso, che portò Mr. Nelson a spingersi sempre al di là, ad andare oltre le convenzioni, e a rischiare tutto pur di far valere le proprie ragioni.

Pensiamo all’assurda bega legale con la Warner, che lo portò alla tragicomica scelta di non poter utilizzare il proprio nome d’arte in luogo di un indefinito acronimo. O anche alla decisione di privilegiare sistemi di distribuzione alternativi per i suoi lavori, da “The Undertaker“, pubblicato nel 1993 solo su vhs e laserdisc ma non su cd, fino agli ultimi “HITNRUN phase I” e “HITNRUN phase II“, del 2015, veicolati attraverso la piattaforma Tidal. E tutto questo senza dimenticare l’immenso archivio di brani registrati e mai diffusi, materiale, pare, utile per una ventina di album.
Un tesoro di emozioni (noto ai fan come “The Vault“, la cassaforte) finora inspiegabilmente nascosti, che probabilmente, d’ora in poi, riemergeranno per volere degli eredi. E allora forse potremo conoscere per intero il mondo visionario e postumo del folletto di Minneapolis, ingiustamente lasciato al vecchio secolo e sottovalutato in questi anni, ma depositario di una vena artistica e una forza creativa forse difficili da ripetere. E forse ci sarà qualcuno che, in uno sperduto locale, in una fumosa notte di pioggia di fine estate, lo vedrà ancora esibirsi dal vivo…
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…