Da quarant’anni c’è un avvocato astigiano con il vizio del pianoforte che semina poesia lungo l’asfalto di storie che non hanno tempo né età, che sembrano sceneggiature cinematografiche o haiku giapponesi, ma affascinano e colpiscono perché sono uniche, come la vita. Non meraviglia perciò che per ogni nuovo disco di Paolo Conte si gridi al capolavoro, un po’ per moda, un po’ per puro manierismo. Avviene la stessa cosa per “Snob” (Platinum/Universal), quindicesimo lavoro in studio declinato in sedici tracce, e che è stato anticipato dall’uscita del singolo “Tropical”, ritratto gioioso e retrò di un’epoca lontana – gli anni ’50 – supportato da un video atipico e solare allo stesso tempo. L’album si apre con “Si sposa l’Africa”, simpatica e grottesca allo stesso tempo, che prende subito l’ascoltatore con quel ritmo che fa muovere cantando “Kunta Kinte”, con il controcanto (“Maria Maria”?) e uno scat tutto contiano che gioca con una melodia arrangiata con piano, fisarmonica, e (ci sembra) persino il banjo. Il cantato inizia stranamente dopo un minuto e quaranta secondi di musichina, quando già pensavamo che il brano fosse uno strumentale. La canzone – nata per un cartoon, che poi non è stato più realizzato – parla di un matrimonio combinato tra due persone che si sono conosciute solo attraverso il telefonino, su una terra rossa che sembra un enorme campo da tennis, a suggellare una delle passioni dell’avvocato:
La sposa è giovane e dolce, poi
sui suoi gioielli di legno blu,
gli antichi arrivano, arrivano,
tra capre e nuvole viaggiano…
E’ l’Africa moderna che sposa quella antica, tra stregoni e telefonini, tra Wimbledon e gioielli di legno. La forza evocativa di Paolo Conte è così, prendere o lasciare. Noi prendiamo, ovviamente, e quindi accogliamo piacevolmente altre suggestioni, che dal disco arrivano attraverso il piano che introduce “Donna dal profumo di caffè”, dove le geografie del sentimento disegnano un ritratto femminile onirico e concreto al tempo stesso, proprio grazie al profumo di caffè che si sparge tra l’avorio e l’ebano dei tasti bianchi e neri del pianoforte, che disegnano una relazione affettiva che si riflette come un ologramma, o come un’ombra cinese su un muro. L’arrangiamento è scarno, non ha bisogno di fronzoli, come nella titletrack, “Snob”, dove lo scenario è grigio e autunnale, e l’atmosfera fa venire in mente quella di “Parigi”: la canzone è una presa di distanza in musica verso qualcuno che arrota la erre, e che fa di una nobiltà vera o presunta un biglietto da visita da sfoggiare come status inutile e vuoto. Di contro, la dichiarazione d’intenti dell’io cantante, che con un ritmo valzerato tiene a ribadire le proprie origini:
…noi di provincia siamo così
le cose che mangiamo son sostanziose
come le cose che tra di noi diciamo
noi provinciali siamo così
le cose che cantiamo
van ben per soldati e i muli
forse siamo noi così…
E’ il Conte di “Genova per noi, che siamo in fondo alla campagna…”, e ci tiene a ricordarlo.
“Argentina” è senza dubbio stretta parente di “Sudamerica”, ed è una piacevole riscoperta, perché si tratta di un brano già cantato da Bruno Lauzi nel 1981, inserito nel Q-disc “Amici miei”. Forse il ripescaggio sarà un caso, o forse no, considerando che la canzone descrive un’atmosfera di emigrazione italiana (così come “Sudamerica”, peraltro), e può essere vista in modo speculare rispetto all’Africa declamata nel brano d’apertura: in altri termini, Conte ci ricorda, con nostalgia e buon senso, che gli italiani di ieri erano gli extracomunitari di oggi:
E’ tutto grande in Argentina, malinconia,
ne abbiam frustate scarpe a Buenos Aires,
il cielo riservato agli emigranti
è bianco e sembra sempre di mattina
Ma è meglio non pensarci più
che poi arriva il pomeriggio,
le luci gialle
che tutti fan baccano giù nel porto
e i bastimenti gridamo: Partiamo!
Davanti a un mare enorme americano
che sciacqua un sogno vecchio, ormai…
Più cupa è, a dispetto del titolo, “Fandango”, dove la melodia è retta da sei note chiuse da un accordo di settima che, sospeso, sospende il giudizio su un rapporto incerto: il testo dice e non dice, lasciando pensare a una lei che si vuole cancellare invano dalla memoria.
Ci piace di più “Incontro”, forse il brano più completo del disco:
ho creduto che tu
fossi un gatto d’estate
che vaga e insegue un romanzo suo…
L’assolo di clarino ci ricorda che il disco è condito da fior fior di musicisti, che compongono un mosaico perfetto in un ‘prodotto’, quello contiano, che si conferma artigianato fedele e di classe:
Con le mie mani piene di luce
cercavo l’ombra,
schermavo gli occhi
per ammirarti
come in segreto,
sì, era così…
E così, l’innamorato ‘incatenato e perduto’ ci lascia una storia d’amore struggente e anacronistica insieme, che, come i sentimenti che non hanno età, resiste all’entropia e agli inganni del tempo.
Proseguendo, “Tutti a casa” dipinge un quadro di tenerezza che delinea i propri contorni pudici ritagliandosi uno spazio in un mondo che respira la fretta e fa fatica a compiacersi della propria esistenza:
C’è una vita nelle strade,
passa un cane, una bici più in là,
c’è chi crede, chi deride
la dolcezza che ha…
In questo scenario, assistiamo alla confessione di un uomo (giovane o vecchio, poco importa) che, dichiarando il proprio amore a una prostituta, è assalito dal dubbio che il sentimento possa non essere ricambiato:
Tu che ti scaldi le gambe davanti a un falò,
bella, di me tu non sai
la domanda che ho:
il tuo cuore è per me?
Il tuo cuore è per me?
Un affresco che fa sorridere, sottolineato da un pianoforte discreto e presente che accarezza le note con maestria e che ci porta indietro nel tempo.
“L’uomo specchio” parte come un dialogo tra sax tenore e pianoforte, in atmosfere che paiono autunnali, per poi evolvere con una ritmica che – udite udite – declina in derivanze simil-house che esaltano il tocco della fisarmonica. Il testo è un’autoconfessione senza attenuanti, tra un uomo e la propria coscienza:
Il tuo specchio saprei essere
crede tutto quello che sei,
guarda il tuo bel volto esprimere
quel che tu non vuoi o vuoi,
chi ti circonda le spalle
il dolce profumo tuo annusa,
crede di aver tra le braccia sue
forse una donna confusa
che chiude gli occhi sognante
in un sorpreso stupore
non vede, no, le facce che
tu fai ridendo di lui…
“Maracas” è nuovamente Sudamerica, a suggellare quanto nel disco siano presenti due facce, quelal di un Conte ritmico e quella di un Conte malinconico. Il brano fa schioccare le dita, in un ritmo a dir poco coinvolgente:
Là nelle Americhe
vuoi o non vuoi
hanno sorrisi più larghi di noi,
aveva il dixieland
quel non so che di dolceamaro l’America in sé…
miscelando italiano e spagnolo, e addirittura dialetto genovese, in modo riuscito. Immaginiamo che il brano dal vivo possa rendere sicuramente meglio, con i dialoghi della ritmica che si incastra con i fiati e i lavorìi al pianoforte del Maestro. Una cosa che notiamo ancora (comune ad altre esperienze del disco) è la durata breve dei brani, che avrebbero potuto dilatarsi in arrangiamenti interessanti e in code strumentali apprezzabilissime, ma che invece chiudono il proprio sipario in fretta, come se il disco volesse offrire un assaggio, e nulla più, facendo pregustare le meraviglie del live.
“Gente (CSIDN)” indugia su riflessioni dal punto di vista di una coppia. Ci pare di scorgere il sitar che fa capolino in un arrangiamento decisamente atipico, che mostra un invidiabile campionario di stili e ritmi, compreso il mini inciso pop con batteria che sottolinea il titolo senza abbreviazioni (la cui scelta merita un Oscar alla fantasia):
Gente che stava innamorandosi di noi…
Con “Glamour” ci addentriamo in territori più nascosti. La voce di Conte qui si fa più roca, e strizza l’occhio all’erotismo. L’esperimento ci pare riuscito a metà, anche per un arrangiamento che non convince fino in fondo. Il fraseggio di note ci ricorda altro, mentre il lamento di chitarra distorta rende più cupo l’insieme, e il sax ricuce alla fine tutto. Onestamente, non ci piace la chitarra elettrica che ci appare operare in modo ridondante sul resto, ma tant’è.
Imbattendoti in “Manuale di conversazione” ti accorgi, ancora una volta, che la fantasia e la creatività di Paolo Conte sono insuperabili, anche soltanto nell’immaginare gli scenari che danno poi vita a una sua canzone.
Qui il protagonista è – udite udite – un camionista peruviano che vive il proprio disagio nell’incapacità di comunicare con l’oggetto delle sue attenzioni amorose, probabilmente una prostituta di origine africana:
Prego domani
porompompon
portare un manuale di conversazion
parliamo di tutto
in italiano
o anche africano
se lo vuoi,
dimmi che non lo vuoi… goodbye senorita…
Il tutto, dietro ricami di fisarmonica e un assolo di clarino, in un prologo strumentale egregio, che jazza alla fine cedendo il testimone alla chitarra in un disegno di atmosfere sudamericane che da solo “vale il prezzo del biglietto”.
“Signorina Saponetta” descrive un approccio amoroso con i toni di una mazurka piacevole e delicata, affidando il testo a giochi di parole (“elastic”, “philosophic”, “platonic”,…) che vestono il tutto di leggerezza. La stessa leggerezza che troviamo nel brano di commiato, “Ballerina”. Qui il piano ha molto da restituire a “Via con me”:
Ehi rataplan
ballerina informati,
fatti dire insomma,
fatti fare il resoconto…
Sembrano, questi, esercizi manieristici che perdoniamo al maestro. Il brano finisce così, con una coda bandistica, breve anche stavolta, come se i titoli di coda fossero interrotti dalla pubblicità…
Commiato infine con “I moschettieri al chiar di luna“, che descrive le gesta di quattro eroi “dal cuor di leon”: il disco termina così, in un tripudio sonoro fatto di impeto e passione.
In sostanza, l’ascolto premia quello che giudichiamo un signor disco, che restituisce un ‘Paolo Conte che fa il Paolo Conte’ senza ripetersi all’infinito, con esercizi di stile necessari e a questo punto inevitabili, ma senza contenuti e concetti vuoti, tutt’altro. Il 77enne avvocato astigiano, dal suo ‘buen retiro’ provinciale, dimostra di esserci ancora, e lo fa con un lavoro discografico che è la summa del suo essere oggi. Sognatore, allegro, vivo, come in un lungo respiro che attraversa un romanzo, quello della vita, sul quale ci sono pagine ancora da scrivere.
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…