Abbiamo dialogato piacevolmente con il musicista e cantautore che ha già pubblicato un cd con lo pseudonimo di Evocante ed è autore del libro “Battiato, una ricostruzione sistematica – Percorsi di ascolto consapevole”, edito da Arcana, a cui ha accompagnato la pubblicazione di un cd (“Fino a tardi – Viaggi sonori con Battiato”), in cui reinterpreta alcuni brani del Maestro catanese.

Omaggiare un artista che si ama non è impresa semplice. Spesso si rischia di cadere nell’idolatria artistica, o peggio ancora nello scimmiottamento, specie se chi si approccia allo scopo lo fa con l’intento di trarne vantaggio personale per chissà quale ritorno. Fortunatamente ci sono le eccezioni che brillano di luce propria, e che si manifestano quando l’omaggio giunge da chi fa della propria esistenza un manifesto di coerenza artistica e professionale che non ammette ombre di sorta. E’ il caso di Vincenzo Greco, docente Luiss e dirigente del Ministero dell’Interno ma anche videomaker, musicista e cantautore, avendo all’attivo già un disco di proprie canzoni, “Di questi tempi”, pubblicato nel 2022 sotto lo pseudonimo di Evocante. Il percorso artistico di Vincenzo, da sempre improntato alla coerenza e alla linearità, negli ultimi mesi si è arricchito di un nuovo importantissimo capitolo. Da sempre studioso di Franco Battiato e della sua notevole produzione artistica, ha deciso di omaggiare il Maestro siciliano con due pubblicazioni. Un libro, che si chiama “Battiato, una ricostruzione sistematica – Percorsi di ascolto consapevole”, con prefazione di Stefano Pio, pubblicato per i tipi della Arcana editrice, e un cd musicale (“Fino a tardi – Viaggi sonori con Battiato“), nel quale ha reinterpretato alcuni brani scelti nella discografia dell’artista. I due supporti, quello letterario e quello musicale, si distinguono per una matrice comune, quella di un approccio decisamente originale che rende meritevoli entrambi di una valutazione attenta e dettagliata. Abbiamo avuto il piacere e l’onore non solo di leggerli e di ascoltarli entrambi, ma anche di incontrare l’autore con il quale abbiamo dato vita a un dialogo ricco di spunti. Ne è venuta fuori un’intervista corposa, che spazia su diversi temi e raccoglie più suggestioni. Un confronto aperto, nato allo scopo di far conoscere meglio un’opera complessa che merita di essere valutata nella sua piena interezza.

Il tuo non è ovviamente il primo libro su Franco Battiato, ma è certamente il primo che compie un’operazione originale e inedita, ossia quella di analizzare l’opera dell’Artista siciliano seguendo un’impostazione scientifica. Quali sono le ragioni di questa scelta e perché hai deciso di completare il tuo omaggio attraverso il rifacimento di brani della sua produzione che ti porta a offrire al lettore anche una dimensione di ascolto?
Si, non avrei scritto l’ennesimo libro su Battiato se non avesse costituito una novità. Che è rappresentata proprio dall’impostazione, che possiamo definire scientifica in quanto si richiama al concetto ermeneutico di sistema. Nell’intero percorso artistico di Battiato vedo, pur nelle tante varietà della proposta, una coerenza di fondo impressionante, se pensiamo che si sviluppa per 50 anni. Basti pensare al primo album, Fetus, che inizia con il pianto di un bambino, e che in copertina rappresenta un feto, e all’ultimo album di canzoni, Apriti sesamo, un concept album sulla morte intesa come passaggio. Che il sistema sia aperto, e non chiuso, è dimostrato invece dall’ultimo album registrato in studio, strumentale, Joe Patti’s Experimental Group, con cui Battiato torna alle sonorità elettroniche degli anni ’70. L’opera di Battiato è un sistema proprio perché possiede le caratteristiche della coerenza e della interrelazione tra le parti: una cosa spiega l’altra. Una canzone non si esaurisce in sé, ma la trovi in altri pezzi, che te la mettono in un una luce più definita, che ti fanno capire molte più cose di un ascolto separato. 
Quanto al mio rifacimento musicale, è iniziato come operazione privata di verifica di certe mie tesi, soprattutto quelle sulla musica ferma e su quella elettronica. Mentre le scrivevo, le mettevo in pratica immaginando come Battiato avrebbe condotto una visione sistematica su alcuni suoi brani, escludendo quelli meno noti. E’ solo per questo motivo che mi sono azzardato a proporre una versione ferma ed elettronica di “L’ombra della luce”, della cui intoccabilità sono consapevole. 
Poi mi è sembrato giusto non limitare questo lavoro a una cosa privata e quindi – anche memore dell’insegnamento di Battiato, che spesso è stato sfacciato e non si è fatto problemi a proporre cose nuove – ho superato la ritrosia a toccare un gigante come lui e ho pubblicato l’album. E dai riscontri avuti credo di aver fatto bene a far prevalere l’incoscienza sulla prudenza.

Assolutamente sì, hai fatto benissimo. Come giustamente scrivi all’inizio del libro, Franco Battiato ha avuto la costante di non ripetersi mai, quasi che la sua opera artistica fosse un viaggio in avanti e mai a ritroso. Tuttavia non mancano nella sua produzione i ritorni, concretizzatisi più volte in rifacimenti o nuove esecuzioni di brani già incisi, o nella riproposizione di tematiche già affrontate o di stili e generi già percorsi. Come si può spiegare questa scelta, considerando che il suono prodotto dalla sua discografia non è certo una imitazione di altro già sentito e pubblicato?
Il percorso si potrebbe visualizzare a cerchi concentrici comunicanti tra loro. Chiuso un cerchio, Battiato ne ha aperto uno diverso, salvo poi tornare agli antichi cerchi, con tutto il bagaglio nel frattempo acquisito. Per questo i suoi lavori sono intercomunicanti tra loro, e per questo si donano reciprocamente luci diverse. E’ un non voler lasciare nulla di intentato. Una cosa particolare è successa per “Il re del mondo”, di cui abbiamo la versione originale in L’era del cinghiale bianco, del 1979, quella elettronica contenuta in Mondi lontanissimi, del 1985 (secondo me non migliorativa) e due versioni dal vivo. E’ un brano magico, un arrangiamento evidentemente non basta. E infatti si presta a tantissime letture. Non a caso è quello che più mi ha ispirato, e l’ho rifatto pure io, con un arrangiamento etereo e sospeso, dandogli un finale diverso in quanto ho sfumato l’oppressione della parte musicale in una bellissima aria presa da Genesi, la sua prima opera lirica. C’è poi Inneres Auge, dove vengono ripresi alcuni suoi brani. Ma lo considero un album non particolarmente brillante (fatta eccezione per la title track), i rifacimenti non aggiungono molto. Anche in Mondi lontanissimi avviene, in parte, la stessa cosa, con Il re del Mondo, I treni di Tozeur, Chanson Egocentrique. Ed è la parte forse meno interessante di un album che per il resto invece è un capolavoro.  Battiato è più incisivo quando torna sugli argomenti non tanto rifacendo brani magari aggiornati alle nuove sonorità (avviene in Inneres Auge, secondo me per intervento di Pino “Pinaxa” Pischetola, suo ingegnere del suono), ma quando, con brani nuovi, riprende gli argomenti già toccati. Quanto alla dimensione live, quella è tutta un’altra storia. Il bello delle tournée è che ti puoi divertire a proporre nuovi arrangiamenti, per far rivivere il brano, dargli linfa nuova. Bob Dylan e Francesco De Gregori insegnano molto su questo aspetto.

Nel tuo libro si legge che la Natura aiuta Battiato a congiungere l’umano con l’Assoluto. E, mi permetto di aggiungere, in una produzione così variegata gli permette di conciliare la ricerca della purezza spirituale (penso a “Un oceano di silenzio” o a “E ti vengo a cercare”) con la condanna senza mezzi termini di pratiche umane assai discutibili, quali il potere, la guerra e la corruzione, esplicitati in brani quali “Up patriots to arms”, “Povera patria” e “Inneres auge”. Battiato è così sia un artista illuminato che si estranea dalla caducità del mondo, sia un autore ispirato perfettamente inserito nel suo tempo. Sei d’accordo? 
Concordo. Lui stesso diceva che, come cittadino, sentiva quasi un obbligo di affrontare, da artista, certi argomenti. Povera patria è una canzone sulle dinamiche distorte del potere, su come l’uomo distrugge la sua natura per andare dietro a deviazioni e mortificazioni della sua natura, della sua missione evolutiva. Inneres Auge sintetizza benissimo questa doppia visione: le miserie del potere, con l’incedere quasi techno, oppressivo, e il richiamo finale alle bellezze del creato, come una sonata di Corelli. La nostra natura è rivolta a queste; quando perseguiamo altro, come il potere e il denaro, pratichiamo violenza, agli altri e a noi stessi.

Quello spirituale è inevitabilmente l’aspetto che più attraversa la produzione di Battiato. Personalmente, tra le playlist che hai indicato nel libro, è proprio quella del capitolo 6 che ha attirato più di ogni altro la mia attenzione, specie per il concetto, da te mirabilmente espresso, di quanto Battiato “utilizzi spesso la musica ferma per favorire il contatto con lo spirituale”. Il mondo della musica italiana non è certo nuovo a tematiche che trattano il rapporto dell’uomo con il divino: “Io se fossi Dio” di Giorgio Gaber o “Se io fossi un angelo” di Lucio Dalla sono le prime due canzoni che mi vengono in mente, ma ce ne sono ovviamente tante altre, addirittura già Fabrizio De Andrè dedicò un intero album a questo tema, “La buona novella”. Eppure in Battiato il rapporto con il divino è diverso, più intimo, più personale, più pudìco. Ci sono elementi che in questo possono accomunare Battiato ad altri artisti e quali sono gli elementi che lo rendono invece a suo modo unico?   
Certe domande che ineriscono il nostro Io più profondo e nascosto accomunano tutti noi, come genere umano. Anche l’uomo più primitivo, a un certo punto, alza gli occhi verso il cielo, osserva le stelle, la luna, o si fa abbagliare dal sole, e comincia a farsi domande. Su ciò che lo circonda e su ciò che ha dentro. E da lì non ci si è mai fermati. L’artista, per la sensibilità che ha, è ancora più esposto a domande del genere. Non tutti, ovviamente, ma quelli che, per dirla alla Battiato, hanno dentro il “dramma della metafisica”, alla cui lista aggiungerei Claudio Rocchi, Juri Camisasca, Giovanni Lindo Ferretti, i primi che mi vengono in mente, non certo solo loro. Qualcuno si ferma lì, sfiora l’argomento in qualche canzone, e poi passa ad altro. Battiato ne ha fatto una ragione d’arte e di vita. La sua ricerca spirituale è costante, ed è iniziata persino prima di quando lui ne ha preso coscienza. Che, poi, è una ricerca di Verità. Battiato cerca di andare oltre: oltre gli inganni delle apparenze, oltre l’umano, oltre le divisioni, persino quella tra il bene e il male. Unità e Verità sono le stelle polari che lui ha cercato per tutto il suo percorso. Di pochissimi, nel campo della musica leggera, si può dire che abbiano cercato per 50 anni tutto questo. 

Grazie al dissolvimento di tempo e spazio, in un modus che lambisce l’onirico, Battiato ci aiuta a percepire il senso più profondo di quel Lontano con cui confrontarsi e da cui trarre quella spinta verso i mondi lontanissimi in cui far rivivere l’anima, elevazione suprema dell’essere umano. Quella che ci fa sembrare illusoria ogni scoperta tecnologica, e che ci aiuta a stare con i piedi per terra: “Il giorno della fine non ti servirà l’inglese”, canta in “Il re del mondo”, uno dei brani della prima parte della sua carriera, dove già l’uso dell’elettronica lo rendeva un artista di avanguardia. In che modo per Battiato la ricerca musicale è stata fondamentale nella sua ricerca artistica?   
Sono due facce della stessa medaglia. Il ricercatore lo è sempre e in ogni cosa, mica solo in un settore o per un certo periodo. La ricerca è l’attitudine, il campo è solo una conseguenza di tale attitudine. Battiato è stato ricercatore anche nel cinema, nell’editoria, persino nell’arte pittorica. La musica è stato il campo in cui tale attitudine si è sviluppata per prima, e direi meglio, con esiti eccellenti. Favorito, in questo, dal clima che si respirava negli anni ’70 di innovazione, apertura a nuove sonorità, una estensione della capacità visuale e analitica. Persino certe droghe avevano questo scopo. La sua droga, per un certo tempo, è stato il sintetizzatore, e poi il pianoforte utilizzato in modi non convenzionali, tipici della musica contemporanea. E poi tutto il resto. Ma è soprattutto l’elettronica che ha permesso a Battiato di focalizzare un certo modo di essere e di fare musica. Tanto che poi farà quasi sempre capolino anche nelle produzioni successive, a volte in modo prorompente (Orizzonti perduti), altre volte in modo più discreto. Ma non scompare quasi mai. Persino nelle opere liriche c’è molto utilizzo di elettronica. E in questo lo capisco benissimo. Con i sintetizzatori si fanno certi viaggi che nessuna droga può assicurarti. Ovvio, vanno utilizzati in un certo modo, come dire, aperto e lungo.

Aggiungerei anche l’utilizzo degli ologrammi nella rappresentazione di Telesio, che personalmente ho visto al Teatro Rendano di Cosenza nel 2011 in un turbinìo affascinante di emozioni. Più volte mi sono chiesto il perché del successo di Franco Battiato, amato in modo trasversale indipendentemente dai contesti sociali e culturali. Una volta durante un suo concerto nel 2005 mi ha stupito osservare tutto il teatro cantare a memoria “La cura”, mentre lui sorrideva compiaciuto, e mi sono ricordato invece di quando quasi gli applausi e la popolarità lo imbarazzavano. Ricordo in particolare che in uno dei primi concerti a cui ho assistito – all’inizio degli anni ’80, credo fosse l’anno di “Mondi lontanissimi” – Battiato aveva redarguito il pubblico che lo osannava “Franco! Franco!” dicendo “Grazie, lo so come mi chiamo” e ottenendo in risposta qualche fischio. Cosa ha determinato secondo te questo cambio di rotta nel suo rapporto con il pubblico? 
L’età, come capita a tanti, lo ha smussato ed addolcito. Negli anni ’70 poteva sembrare supponente ed arrogante, e forse lo era veramente (così un mio caro amico che lo intervistò mi ha raccontato). Negli anni ‘80 si è come impaurito del successo che tanto ha cercato con operazioni fatte apposta per vendere (La voce del padrone). Era finalmente arrivato, ma capiva che non era un punto d’arrivo e che stare troppo su questa notorietà e sui numeri altissimi raggiunti avrebbe costituito una deviazione da quello che sentiva essere il suo vero percorso.  E questo stato probabilmente lo rendeva scontroso verso chi idolatrava il personaggio. Da qui, una crisi esistenziale che lo riporta in Sicilia, la maturazione degli anni ’90, accelerata anche dal fatto che Giusto Pio si è fatto da parte (artisticamente, non certo personalmente) perché ormai riteneva il suo allievo/maestro ormai in grado di fare da solo. Un passo successivo è stato anche l’incontro con Manlio Sgalambro, che accende nuove lampadine e percorsi da battere. E che ha ringiovanito Battiato. Fateci caso, ma nel momento in cui Battiato è stato solo, parlo di quel lasso temporale dalla separazione con Giusto Pio all’arrivo di Sgalambro, Battiato è stato più cupo (un segno fisionomico è stato il crescersi la barba, che poi infatti ha tagliato), si vedeva che era attraversato da una certa solitudine negativa, non quella da lui tanto amata e cercata, ma una solitudine diversa, non scelta. Si trattava, comunque, di uno stato di ricerca e di riequilibrio. Da quel momento, superata la crisi esistenziale, di cui Cafè de la Paix rappresenta il precipitato artistico, Battiato è sempre più centrato, a fuoco. Sente di essere finalmente sul percorso cercato, acquisisce sempre più consapevolezza. La scontrosità scompare in favore di una gentilezza e una sensibilità fuori dal comune. E ritorna la voglia di divertirsi, di fare battute, di scherzare su tutto. 

A proposito, l’opera di Battiato può essere letta secondo più livelli di comprensione. Lo scrivi bene proprio nel capitolo dedicato alla gioia e al divertimento, due concetti che ai più sembrerebbero lontani dall’opera di Battiato. Io ci vedo un po’ di Calvino, di quel suo tendere sempre verso la leggerezza nella pensosità, nell’abbracciare le miserie umane, le ansie e gli affanni con l’intelligenza nel considerarli altro rispetto all’essenza stessa dell’essere umano, sublimata proprio grazie a qualità tutt’altro che terrene quali lo spirito e la fantasia. Sei d’accordo?
Battiato è sempre stato leggero, nel senso calviniano da te opportunamente rievocato. Anche le sue composizioni più impegnative, penso alle opere liriche e alla Messa Arcaica per esempio, hanno una leggerezza tale che ad ascoltarle ti sembra di volare su una nuvola, senza peso, senza i limiti dell’umano, di tempo e di spazio (No time no space). Leggero nel fare pop, con ritornelli basati su un giro magico di accordi senza mai apparire scontato o già sentito; leggero nel fare musica classica; leggero nella sperimentazione. La sua leggerezza è derivante dalla gioia: lui ha una vera e propria gioia di vivere, di vivere tutti gli aspetti dell’esistenza (“e mi piaceva tutto della mia vita mortale, anche l’odore che davano gli asparagi all’urina” canta in Testamento).  Tutto questo a mio parere è figlio della frequentazione del pensiero buddista tibetano. I monaci tibetani sono sempre sorridenti e pieni di gioia. Il cristianesimo, e ancora più il cattolicesimo – a cui Battiato pure ha attinto, senza mai però abbracciarli del tutto – hanno invece questa aura di tristezza, di lutto, di dolore.
Se posso permettermi di uscire un po’ dai binari, ci sarebbe da riflettere su questa cosa. Entrambe le religioni ci avvertono che il dolore è importante, come esperienza conoscitiva. Ma il buddismo ti dà gli strumenti, già sulla terra, da ora, per rifuggire il dolore, non renderlo padrone della tua esistenza. Il cattolicesimo, invece, lo strumento te lo promette, e se pure te lo da lo fa sempre rinviando a un momento successivo alla morte. Gli stessi riti dicono molto di questa differenza: i riti buddisti sono pieni di gioia, la messa è invece lugubre, cupa, solo alla fine si vede la luce e si accende una speranza. Ma per tre quarti della messa si sta tristi assai. Così, almeno, io l’ho sempre percepita. A differenza, invece, dei riti buddisti. Quelli a cui ho partecipato mi hanno sempre donato un gran senso di calma e di gioia: non esplosiva, ma interiore, di quelle che provi quando senti un sapore o ascolti un suono che in qualche modo ti riporta a una primigenia. Ma qui vado sul personale, e non so quanto stia dicendo cose oggettivamente vere. Però, per averlo provato anche io, credo che la leggerezza e la gioia di Battiato abbiano una derivazione proprio dallo studio e dalla frequentazione del buddismo, pur lui non essendo neppure buddista. 

L’opera di Franco Battiato non può restare patrimonio esclusivo delle generazioni come la nostra che lo hanno visto esprimersi nei dischi e nei concerti. Credo che il tuo libro possa essere un ottimo ausilio divulgativo per i ragazzi e che parlarne nelle scuole possa essere utile e necessario a fini didattici. Cosa può insegnare la sua ricerca artistica alle nuove generazioni?  
Si, ci sono state scuole, anche università, che mi hanno contattato per incontri sui temi del libro. Il principale insegnamento è la curiosità: per essere ricercatori di Verità occorre, lapalissiano ma vero, cercare. E la stella polare di ogni ricercatore è la curiosità. Battiato era onnivoro, si interessava di molte cose, e quando scopriva di non saperne nulla voleva conoscere quanto più possibile. Anche a costo di sforare su certi argomenti, come per esempio in certe interpretazioni della fisica quantistica. La curiosità, a sua volta, ti porta a fare domande. E la domanda forse più essenziale, quella che tutti ci facciamo, da quando dobbiamo scrivere, come è capitato a lui stesso, un tema alla scuola elementare a quando cresciamo, e ancor più quando sentiamo avvicinarci all’ora del passaggio, è quella di chi siamo. “Io chi sono?”.
Cosa invece può insegnare Franco Battiato a un giovane artista che oggi sente di avere una vocazione musicale e quanta genuinità c’è in artisti come Colapesce e Dimartino (ma in passato lo hanno fatto già altri, da Bluvertigo a Gazzè, a tanti altri ancora) che nello stile e nelle canzoni si avvicinano molto al Battiato pop? 
Ne parlo nell’ultimo capitolo del libro, non a caso intitolato Testamento. Un capitolo scritto in parte con dolore, perché vedo un affannarsi a rincorrere una eredità artistica non per purezza di intenzioni ma per motivi di affermazione e visibilità personale. Ora pare che tutti siano stati amici di Battiato, tutti suoi allievi, tutti hanno avuto da lui consigli decisivi, quasi benedizioni. La cosa francamente fa un po’ ridere. E’ vero che nell’ultima parte della sua carriera artistica, non per convinzione ma per motivi di scuderia contrattuale, si è prestato a tanti featuring, non tutti di rilievo. Anche frutto della sua generosità. Che però non andrebbe così strumentalizzata, perché non basta un’ospitata nella sua villa a fare dell’ospite di turno il predestinato a continuare la sua eredità. Occorrerebbero anni di studio e ricerca e una propensione artistica di tipo illuminato e che si sappia svincolare dalle logiche del mercato. In pochi di quelli in corsa autonominatisi (anche solo indirettamente) per raccogliere l’eredità vedo tutto questo, per lo più vedo invece un aggrapparsi alla memoria di Battiato per guadagnare visibilità. Intendiamoci, a me fa molto piacere che in tanti citino Battiato, e cerchino di ripetere la ricetta magica del pop di successo. In qualcuno, compresi quelli da te citati, vedo anche un buon risultato. Forse non così spontaneo, ma buono. Ma dove finisce la scopiazzata e dove inizia la ricerca e l’affermazione individuale? E poi Battiato non era solo pop, non era solo Centro di gravità permanente. Ci sono tante altre dimensioni che lui ha avuto. Anche quella rock alternativa. Per non parlare di quella classica. Perché nessuno si approccia a queste dimensioni? Perché non fa vendere? E allora qui inizia l’inghippo. E cresce la mia insofferenza davanti certe operazioni di copia incolla che nulla hanno a che fare con l’arte. Perché l’arte è rielaborazione viva, rischio, affermazione di una visione comunque personale. Anche quando ti approcci a un autore. Non lo devi cavalcare, ma devi camminare insieme a lui. Spesso stando un metro dietro, ma certe volte, pur mantenendo una assoluta umiltà, anche avendo il coraggio di mettersi davanti. Cosa che Battiato infatti apprezzava molto. Umiltà e sfrontatezza possono andare insieme. Anche nei vari omaggi che si stanno moltiplicando, un po’ ad ogni livello, dalle cover band agli artisti più affermati, non ci vedo sfrontatezza. Umiltà si, e neppure sempre (ma quello è un altro discorso). Non vedo voglia di rischiare, di metterci una firma vera e propria. Si va alla ricerca del pubblico facile, quello che si aspetta Cuccuruccuccù, La cura e la pappa tutta pronta come deve essere fatta. 

Con le palpebre chiuse si intravede un chiarore che con il tempo, e ci vuole pazienza, si apre allo sguardo interiore”. Ho sempre letto questa frase, tratta da “Inneres auge”, come un invito all’ascolto di sé stessi, indipendentemente dal rumore del tempo e dello spazio circostante. C’è qualcosa che Franco Battiato ti ha lasciato e che hai scoperto dopo la scrittura del libro e che magari hai registrato in nuovi contributi testuali o sonori ancora inediti?
Mi riallaccio a quanto detto prima. Io sono completamente fuori dalle logiche discografiche, non appartengo a nessuna scuderia, sono off. Tutto questo ha limiti facilmente immaginabili, soprattutto in termini di visibilità. Ma ha un pregio, preziosissimo, costituito dalla libertà assoluta. Ecco, pur avendo scritto un libro e fatto un disco, non mi sognerei mai di vivere di continui concerti dove suono e canto Battiato. Lo faccio con le presentazioni del libro in forma di concerto, lo posso fare in una serata singola, ma non ne farei mai una professione. Parlo da autore, ovviamente, perché per le cover band il discorso è diverso. Anche a livello di cover, ho cercato di mantenere comunque una mia individualità, un approccio personale tutto mio, autoriale, con i suoi limiti e i suoi pregi. Le cover band – ma non solo loro, il discorso può allargarsi anche ad autori che si misurano con Battiato – ricreano i suoni identici, e sono tutte contente di portare in concerto lo stesso suono, per fare un esempio, che c’è in Centro di gravità permanente o in La cura. Ma questa è imitazione, non è arte. La stessa cosa si può dire per chi canta Battiato: non bisogna imitare la sua voce. La si può ricordare, ma sforzarsi di imitarla mi pare non solo irrispettoso, ma anche poco artisticamente significativo. Farà pure numero e pubblico, ma che arte è? E questo vale anche per altri autori o gruppi storici ricordati in scena con la tecnica del copia incolla.
Detto questo, finito il libro e il disco ho iniziato un lungo giro di presentazioni del libro con concerto incluso che mi ha fatto mettere le mani su tanti altri pezzi di Battiato. Non credo che vedranno la luce in un nuovo disco, per i motivi che ti ho detto prima. Tranne Lode all’Inviolato, che ho pubblicato come singolo, eccezione che conferma la regola che mi sono dato.
Altra cosa è invece quello che sto preparando in questi mesi, letteralmente folgorato da una ispirazione mentre stavo qualche giorno in Calabria, la mia terra d’origine, e che mi ha fatto giocare parte dell’estate per lavorare notte e giorno, con pochissime ore di sonno, per portare a compimento la parte progettuale e di arrangiamenti. 
Si tratta di uno spettacolo teatrale, con testi miei, ispirati al libro che ho scritto, e musiche di Battiato e qualcuna anche mia. Non ti posso dire molto, sia perché è tutto in divenire, sia perché sono in trattativa con alcuni teatri, c’è un aspetto produttivo tutto da risolvere, e vediamo come andrà a finire. Spero bene perché lo spettacolo, che ha anche un video di accompagno, è molto ispirato, ha una sua logica autorale, e credo che potrebbe piacere molto a chi ha apprezzato il libro. 
E’ uno spostarsi in avanti, su territori per me anche sconosciuti, come quelli teatrali, cercando di unire, in una multimedialità ancora tutta da equilibrare, narrazione parlata, visiva e sonora. Un vero e proprio viaggio verso l’Infinito. Il titolo infatti è “Tocco l’infinito con le mani” (preso da un verso di una canzone di Battiato, Vite parallele, che infatti apre lo spettacolo dopo una cavalcata strumentale elettronica).  
Hai l’esclusiva del racconto di questo progetto. Cosa che per scaramanzia non si fa mai. Mi hai portato fortuna diverse volte. Speriamo funzioni anche stavolta. Ovviamente, chi è interessato mi contatti: lo spettacolo è elastico, si può portare anche in un live club, realtà piccole, purché impostate in modo tale da proiettare un video e permettere al pubblico un certo raccoglimento. 

 

Non ho parole per ringraziarti. Nel salutarti, ringraziandoti per la disponibilità, mi piacerebbe soffermarmi brevemente sulla tua attività musicale. Come Evocante hai all’attivo una produzione originale che omaggia la tradizione cantautorale con brani perfettamente inseriti nel tuo tempo, ma allo stesso tempo ispirati alla ricerca spirituale, figlia di Battiato ma anche del tuo ricco pantheon musicale. Stai già lavorando a un nuovo disco? 
La registrazione del mio terzo disco, secondo di inediti, è finita. Ora siamo alla fase della messa punto dei missaggi e mastering vari. Uscirà il 23 febbraio, si intitolerà “Siamo esseri emozionali” e lo presenteremo a Roma, al Pentatonic, in via Sinigallia. Questo lavoro è l’altra faccia di Di questi tempi, il mio primo disco. Mentre con quello riflettevo sulla deriva sociale (e social) del tempo moderno, che ci stanno disunendo e facendo perdere il vero senso dell’umanità, con il nuovo disco vado alla ricerca degli aspetti che invece ci uniscono proprio come esseri umani, che sono quelli emozionali. 
E’ un disco interiore ma quasi mai privato (tranne che in un brano, dove torna l’amore per i colori della propria terra e torna anche Battiato, ma solo in voce). Non racconto i fatti miei, insomma. Ma, partendo da esperienze personali, rifletto su come le emozioni che viviamo, nella diversità delle persone e degli accadimenti, abbiano una radice  e un afflato comune. Ed è in quello che consiste il nostro poterci dire appartenenti al genere umano. 
Il disco costituisce una svolta in senso sonoro, perché è molto elettronico ma non si esaurisce lì, affronta vari generi, mescola il tutto. E anche in questo caso dal vivo sarà accompagnato da un video che costituirà un viaggio colorato e intimo. Chi ha partecipato a un anticipo di soli venti minuti, in uno spettacolo fatto questa estate, ne è rimasto affascinato. Ricordo ancora gli sguardi rapiti dalle immagini, e le orecchie molto prese dalle sonorità. 
Per me, è un disco importante, una specie di testamento spirituale anticipato, considerato che dentro ci sono tra le mie migliori canzoni e arrangiamenti molto particolari e raffinati.
Poi sto scrivendo anche un altro libro. Ma di questo non ti anticipo nulla se non che, in qualche modo, ha a che fare con il primo disco, di cui infatti sto curando un remastering perché l’edizione originale suona un po’ cupa. Altro non dico. Ogni cosa al suo tempo. 

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...