Nel settembre 1975 usciva il capolavoro dei Pink Floyd, dedicato all’assente Syd Barrett. Un disco profondo e intenso che emoziona ancora adesso…

 

“So, so you think you can tell
Heaven from Hell,
Blue sky’s from pain.
Can you tell a green field
From a cold steel rail?
A smile from a veil?
Do you think you can tell?”

NoteVerticali.it_Pink Floyd_Wish You Were Here_1Il mio primo approccio con i Pink Floyd avvenne tramite la persona forse diametralmente opposta a tutto il loro mondo “pomposo e ricercato”. Avvenne tramite una maglietta indossata da un carismatico ragazzino “pel di carota” di nome John Lydon ma ai più noto con il soprannome di Johnny Rotten (Johnny “il marcio” per via dei suoi denti non proprio da copertina di Vogue). Mente e cantante del gruppo punk inglese Sex Pistols. Era lui che in un’intervista indossava una maglietta dei Pink Floyd opportunamente modificata a mano con un bel I HATE in modo da comporre la frase I HATE PINK FLOYD. Un’idea favolosa, geniale e provocatoria se contestualizzata negli anni in cui il super gruppo progressive rock di David Gilmour e Roger Waters stava consolidando il suo enorme successo.

Perché dal 1967 (anno di pubblicazione del primo disco) al 1977 di acqua sotto i ponti ne era già passata parecchia (e molta ne dovrà ancora passare) e il nome Pink Floyd era già stato scolpito nel marmo grazie ad album come The Piper at the Gates of Dawn (1967), Ummagumma (1969), Atom Heat Mother (1970), The Dark Side of The Moon (1973), Wish You Where Here (1975) e Animal (1977). E mi ricordo che io, che in quel periodo della mia adolescenza ero stato risucchiato dal vortice sublime del punk, mi affidai ciecamente alle parole del mio mentore Rotten e snobbai semplicemente il gruppo senza nemmeno degnarlo di un ascolto. Che disgusto! Che errore madornale! direte voi… E chi se ne frega direi io! Tanto alla fine, se ti piace la musica e un minimo te ne interessi, ai Pink Floyd prima o poi ci arrivi. Io ci arrivai un po’ dopo rispetto ai miei coetanei invasati, tramite un vinile di mio padre, (Animal per l’esattezza) scoperto dopo che gli fregai il giradischi insieme ad una manciata di Lp. E che dirvi… ragazzi che scoperta! che viaggio!, che atmosfere, che tutto!

I Pink Floyd al Festival di Knebworth, 1975
I Pink Floyd al Festival di Knebworth, 1975

Da quel momento scattò quindi in me l’ansia della riscossa, della rimonta e così via via gli album dei Floyd col tempo sono capitati nelle mie mani. Non tutti lo ammetto, ma sicuramente i fondamentali. E Wish You Where Here rientra senza ombra di dubbio tra i questi. Cosa dirvi quindi sui 40 anni che ha appena compiuto (il 12 settembre) questo gioiello della musica rock se non che sono 40 anni che non si sentono. Questo è un disco ancora vergine, ancora da scoprire, ancora da violare e studiare nonostante sia stato sentito davvero in ogni salsa e in ogni dove (fatevi avanti cover band di tutto il mondo e pubblicitari da strapazzo!). Ebbene sono passati 40 anni e ancora siamo qui a parlarne (sarà forse il fatto che ad oggi sono state vendute oltre 12 milioni di copie?). E pensare che la genesi del disco non fu affatto facile. Anzi fu una vera e propria lotta contro i ricordi, contro la “paura di bruciarsi” che spesso subentra dopo un grande successo, contro un periodo connotato da un’iniziale e grigia mancanza di creatività.

I Pink Floyd durante un'esibizione a Seattle, 1975
I Pink Floyd durante un’esibizione a Seattle, 1975

Un disco nato quindi da un periodo buio, difficile e forse per questo dal risultato incredibilmente profondo. Perchè Wish You Where Here è un album costruito sul dolore o meglio, come da molti sottolineato, sul concetto fondamentale dell’assenza. Innanzitutto il dolore (ma anche l’assenza) per la fine che ha fatto il vecchio sodale Syd Barrett, (già da anni fuori dalla band in perfetto stile Brian Jones) ormai rinchiuso nel suo vortice lisergico e irriconoscibile agli stessi compagni di band. L’assenza e il conseguente dolore per la mancanza di idee e per la difficoltà riscontrate nella stesura delle 4 canzoni (Shine On You Crazy Diamond (divisa in due suite diverse collocate in apertura e chiusura del disco), Welcome to The Machine, Have a Cigar e Wish You Where Here che lo compongono.

Syd Barrett negli anni '70
Syd Barrett negli anni ’70

Ma anche l’assenza, il sentimento di mancanza provata dal leader e bassista Roger Waters verso quel padre morto in guerra e che mai conobbe e verso i suoi stessi compagni di band che in quel periodo sembravano davvero distanti tra loro al punto da meditare un possibile scioglimento. Altro concetto (ben espresso nei due brani centrali del disco) è quello legato all’assenza, o meglio, alla mancanza di scrupoli delle persone che gravitavano nel mondo dell’industria discografica, spesso falso, incoerente, bugiardo e sempre pronte a tutto pur di macinare quattrini. Ma anche l’assenza di punti chiari su cui muoversi dopo il planetario successo del precedente The Dark Side of The Moon.

NoteVerticali.it_Pink Floyd_Wish You Were Here_2La paura del bruciarsi la carriera, la paura dell’esporsi apertamente esprimendo le proprie idee (tutti concetti questi ultimi che verranno ripresi nella celebre foto di copertina del fotografo e designer brtannico Storm Elvin Thorgerson che vede due uomini d’affari stringersi la mano e andare a fuoco). “Dovevamo capire se eravamo degli uomini d’affari o degli artisti“, dirà David Gilmour. E questa paura, questa assenza di certezze, si concretizzerà invece, a partire dal gennaio del 1975 nello Studio 3 di Abbey Road, in circa 44 minuti di suite elettriche e semiacustiche che entreranno nella storia e che si muovono sulle note futuristiche della chitarra di Gilmour (forse mai più a questi livelli) accompagnata dal suono rivoluzionario del sintetizzatore EMSVCS3 di Richard Wright e dalla batteria dannatamente appropriata di Nick Mason con il supporto dell’ingegnere del suono Brian Humphries..

E allora gloria perenne a Waters e soci per aver saputo condensare tutti questi umori in un concept album fondamentale, eterno e che ti rapisce nell’anima. Un‘anima che ritorna a cadere nel buio della stanza, nel buio della mente rapita dal viaggio, nel buio della contemplazione che certi dischi sanno lasciarti quando le note svaniscono e la puntina continua a frusciare sul piatto. E il tempo a volte fa cambiare idea un po’ a tutti e non solo a me che da ragazzino li avevo snobbati (anche il vecchio Rotten nel corso degli anni ha infatti più volte dichiarato di non odiare affatto la band). 40 anni che paiono scivolare sempre sulle stesse linee dell’emozione. 40 anni che paiono solo ore, minuti, secondi.