Se ne va il padre del Free Jazz, stroncato a 85 anni da un arresto cardiaco a Manhattan
Oltre gli stili, oltre il genere, è possibile percepire la musica come un’idea, un incredibile linguaggio che si schiude ed entra in contatto con la nostra anima: lo si può fare prendendo a braccetto il suo intero vocabolario – come si fa con le regole grammaticali di una qualsiasi lingua viva – per spingersi oltre e capirne la totalità: questo è stato un aspetto della grande rivoluzione proposta dal grande sassofonista jazz Ornette Coleman. Una vera e propria voce fuori dal coro, una figura controversa che ha fatto dibattere critici e intenditori.
Coleman vive un’infanzia sofferta, a Forth Worth in Texas, dove incarna l’amaro ritratto di un afroamericano di umilissime origini. Il padre muore quando lui è ancora un bambino e la madre, una sarta, gli regala un sassofono che impara a suonare praticamente da autodidatta. Siamo negli anni ’40: anni di travaglio nella storia americana, in cui le piaghe della società si rispecchiano in grossi conflitti e cambiamenti della forma musicale: il bebop, con i suoi ritmi frenetici e il rigetto per tutto ciò che sia banale o ballabile si allarga a macchia d’olio dall’epicentro newyorkese, accende forti polemiche tra i musicisti; tra gli altri Coleman si gioca la possibilità di incidere con un’orchestruccia in Mississippi, licenziato dal direttore d’orchestra per aver cercato di insegnare lo stile incriminato a un collega.
Dopo una serie di sfortunate peripezie e netti rifiuti verso il suo modo di suonare (tra cui una vera e propria aggressione in Louisiana), lo troviamo a Los Angeles, in cerca di fortuna. Fa la fame, impegnato in lavori umili nella speranza di ottenere successo. Attorno a lui si riunisce un piccolo gruppo di musicisti e i contatti gli fruttano un incontro con Lester Koening (proprietario della Contemporary Records): il risultato è l’album “Something else!!!!” che, alle soglie del 1958, suscita grande interesse tra i jazzmen. Coleman mette in pratica la noncuranza verso ogni e qualsiasi regola melodica e armonica appartenente alla tradizione, suonando secondo l’impressione e cercando di “liberare” il jazz dalle convenzioni che si erano stratificate nel tempo. Lo afferma con la sua voce calda e pastosa: «io dico che non c’è alcuna maniera “giusta” di suonare jazz». Nel 1960 il disco “Free jazz” segna l’apice della stravaganza di pensiero del jazzista: in un flusso musicale di 38 minuti un doppio quartetto suona contemporaneamente, si mantiene lo spazio per i solisti ma il tutto viene sostenuto e affiancato da altrettante improvvisazioni libere della sezione dei fiati, le quali talvolta sfociano in “meta-improvvisazioni”.
Lo scrittore Murakami Haruki nei suoi “Ritratti in jazz” ricorda la musica di Coleman in questo periodo: «Negli anni Sessanta, in piena guerra del Vietnam, nei jazz café saturi di fumo di Shinjuku, la maggior parte dei giovani ascoltavano la musica di Ornette Coleman che usciva a tutto volume dagli speaker neri della Jbl con l’ansia di leggere e decifrare, in quell’inondazione di note, qualche messaggio urgente scritto in codice», a testimonianza del fatto che questa musica libera, fuori dagli schemi tonali e caratterizzata dai ritmi irregolari aveva segnato una vera e propria svolta. Coleman non si è tuttavia fermato: tra la colonna sonora per il film d’avanguardia “Chappaqua”, numerose collaborazioni (tra le quali ricordiamo “Song X” prodotta nel 1986 a fianco di Pat Metheny) e progetti musicali sempre volti con interesse all’interazione con le tradizioni provenienti da tutto il mondo, ha lavorato con spontaneità e dedizione alla sua più grande passione, un vero e proprio esempio di “qualcosa di diverso!!!!”.