Andrea Cinalli, classe ’92, è un autore abruzzese in cui il talento per la narrativa si miscela a un’inclinazione allo studio dei media narrativi. Esperto di serialità, ha esordito nella narrativa con Dentro, fuori e intorno alla gabbia (Edizioni Croce, 2020).
Con NoteVerticali Andrea ha dialogato sull’attuale panorama telefilmico, sullo scenario artistico e comunicativo italiano e internazionale, in un dialogo profondo sulle meccaniche – pratiche e “spirituali” – legate alla scrittura.
Ciao Andrea! Partiamo dalla tua ultima fatica letteraria: il romanzo Dentro, fuori e intorno alla gabbia, edito da Edizioni Croce. Vuoi dirci di cosa parla e perché hai deciso di raccontare proprio questa storia?
È una storia d’amore fra due ragazzi omosessuali all’ultimo anno di liceo, una ragazza lesbica e un ragazzo gay che insieme scoprono la bisessualità. La mia bussola creativa sono sempre stati i telefilm americani, che mettono al centro delle trame storie molto, molto particolari che non finiscono praticamente mai sui media tradizionali perché i media hanno bisogno di raccontare la realtà attraverso schemi e caselle che siano di facile comprensione, che non facciano riflettere troppo i suoi fruitori, e questo vale soprattutto per i media italiani. I telefilm, muovendosi fra letteratura e cinema, possono mostrare storie particolari e con molte più sfumature e dettagli, e i dettagli e le sfumature fanno sempre la differenza, contano sempre, in qualunque ambito della vita, quindi paradossalmente i telefilm, fra contraddizioni e aporie, sono persino più onesti di un articolo di giornale che si limita al dato numerico e a un linguaggio che semplifica all’osso problematiche complesse. Col romanzo, ho cercato di mettere in pratica tutto quello che avevo imparato dai telefilm. Inoltre, ho voluto misurarmi col sentimento dell’amore, descrivere cosa fosse per me; affrontare lo struggimento, la passione, il dolore.
La tua vita letteraria spazia dal giornalismo ai racconti, dalle sceneggiature alla saggistica. Cosa cambia tra un genere e l’altro e che ruolo hanno avuto queste multiformi passioni nella tua vita e nella scrittura?
Sono forme di scrittura molto diverse e per ognuna ho un approccio specifico. Per quanto riguarda i testi giornalistici, a me piacciono gli articoli di approfondimento, quelli che spesso coincidono coi “longform”, perché dettagliati, precisi, specifici. Produrre articoli di questo tipo richiede molto tempo: bisogna documentarsi bene e leggere tantissimo; il processo di scrittura, alla fine, sarà tanto più sciolto, semplice e naturale quanto più tempo si è speso a leggere e a riflettere, a chiarirsi le idee sull’argomento. Io considero questo di tipo di scrittura, che si fonda su una limpida organizzazione delle attività che portano a produrre l’articolo, quanto più vicino possibile al modo in cui gestiamo la nostra vita quotidiana, insomma è il dominio della razionalità. Racconti e romanzi, invece, soprattutto se si scrive narrativa non di genere, sono l’opposto: per tirarsi fuori quel fuoco, quell’incendio di dolori, contraddizioni e passioni che brucia in ognuno di noi, e per farlo nel modo più onesto possibile bisogna trovare un modo di spegnere molte di quelle inibizioni che, per educazione o pudore, abbiamo nella vita di tutti i giorni; la letteratura non è e non deve essere territorio del moralismo, la vera letteratura non insegna ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, mostra semplici punti di vista onesti, arricchisce la nostra visione del mondo, di noi stessi. Scrivere narrativa è il modo più semplice di stare a contatto con la propria anima, di conoscere il bene e il male che ognuno ha dentro di sé. Quanto alle sceneggiature, fino a poco tempo fa non mi piacevano: in Italia spesso (solo alcuni non lo fanno) vengono scritte con uno stile telegrafico (“Marco si alza dal tavolo. Marco sposta la sedia”), mentre in America c’è spazio per le figure retoriche e per una scrittura dalle sfumature evocative, e dunque le sceneggiature americane sono molto piacevoli da leggere, al pari dei testi letterari. Inoltre, non mi è mai piaciuto l’approccio troppo tecnico e analitico che in tanti hanno prima di scrivere: prima ancora di aver sviluppato la sceneggiatura, che è un testo creativo, dunque zeppo di sfumature che non possono essere programmate ma che vengono concepite solo nell’atto di scrittura vero e proprio, già si va a pensare a dove posizionare “mid-point” e “death moment”. Questo approccio, secondo me, funziona solo se si concepisce la struttura iniziale come malleabile, soggetta a modifiche, ma purtroppo ci sono tanti professionisti che hanno una visione troppo rigida di questa forma di scrittura. Una visione troppo rigida della sceneggiatura mi manderebbe in crisi. L’analisi fredda e tecnica che mi porta a riflettere sul posizionamento delle svolte narrative per me arriva dopo, a stesura conclusa, quando mi rileggo e cerco di capire quali sono gli aspetti del mio scritto che funzionano meno oppure quando sono a metà di una stesura e sono a corto di idee. In quest’ultimo caso la struttura in tre atti, con le sue regole, diventa un’ancora di salvezza.
Da appassionato di serie TV ho letto il tuo saggio Sguardo serial. Hai parlato di alcune delle più belle opere d’arte della televisione degli ultimi trent’anni. Che idea ti sei fatto dell’attuale panorama telefilmico?
È un discorso sicuramente complesso. La nostra fiction ha sempre avuto come modello di riferimento il teatro (nonostante le parentesi cinematografiche degli anni Sessanta, quando si è realizzata Odissea, la miniserie Rai che è approdata anche sulla CBS americana, e degli anni Ottanta, quando Damiano Damiani ha creato La Piovra, e nonostante gli sforzi della Taodue e di Canale 5 di importare modelli televisivi americani, con R.I.S. – Delitti imperfetti, Distretto di Polizia, Il tredicesimo apostolo, la serie sperimentale – e costosissima – Intelligence – Servizi & Segreti). Con l’arrivo delle piattaforme streaming, la tv, e questo vale soprattutto per le reti generaliste, ha sentito il peso della competizione e quindi le serie italiane sono cambiate (pur con tutti i limiti creativi), anche se i cambiamenti non sono stati molti e in alcune serie si notano appena: per esempio, alcune preservano una recitazione di tipo teatrale e hanno solo un’estetica un po’ più curata. In America, secondo me, le piattaforme streaming – e parlo soprattutto di Netflix – stanno abbassando la qualità della serialità televisiva, che tanto faticosamente aveva conquistato il suo status di arte. Netflix si è lanciata nel campo delle produzioni originali nel 2012 con Lilyhammer, ma è nel 2013 che, producendo alcune delle serie che sarebbero diventate cult, come House of Cards e Orange is the New Black, sembrava voler ergersi a rivale di HBO. L’obiettivo di Netflix, poi, è cambiato: ha voluto puntare a essere il meglio in ogni settore dell’intrattenimento televisivo, diventando sempre più generalista. Oggi, Netflix è molto vicina ai movimenti sociali sorti negli ultimi anni e, pur producendo qualche contenuto di qualità, ci si trovano spesso serie sulle minoranze prive di spessore e con una forte impronta commerciale, tutto l’opposto di quello che in America troveresti sulla HBO. Nel mio libro, Sguardo Serial – I telefilm che raccontano la contemporaneità, che ho pubblicato con la Galaad Edizioni nel 2016, raccogliendo articoli che avevo già pubblicato, ho cercato di descrivere i mutamenti cui la serialità stava andando incontro, divisa fra le reti televisive e la realtà – allora nuova – delle piattaforme streaming. Non nego che, visto che il panorama televisivo è in costante mutazione, in futuro mi piacerebbe esplorarlo con un nuovo libro.
Quant’è difficile scrivere in Italia? Cosa è più ostico? Trovare un editore? Proporre un’idea? Avere lo “spazio” giusto per alimentare il tuo lato più profondamente artistico?
Voglio subito sfatare un mito: trovare un editore che non ti faccia sostenere spese di pubblicazione non è difficilissimo. Bisogna scrivere una storia originale e in un modo originale e perché questo avvenga bisogna ogni giorno trovare il tempo di dedicarsi alla scrittura pronti a migliorarsi, cercando di capire quali sono i punti deboli dei propri testi. Ma è qualcosa che tutti, con impegno, potrebbero fare: scrivere narrativa è la cosa più umana che ci sia, tutti abbiamo questo talento, più o meno sopito; ma bisogna avere il coraggio di far emergere la propria voce studiando, leggendo, scrivendo, mettendosi in discussione, io la vedo così. Scrivere romanzi, poi, purtroppo, non è un mestiere, non ti dà da mangiare. Anche gli scrittori che pubblicano con grandi case editrici fanno un altro mestiere, dedicandosi al romanzo solo nel tempo libero. Io credo che i problemi, per quanto riguarda la scrittura, i mestieri legati alla scrittura e alla possibilità di emergere, siano determinati, paradossalmente, da quelli che dovrebbero essere delle vetrine: i social. Per colpa dei social, secondo me, c’è stato un generale appiattimento della creatività, che invece di rimanere concentrata sul fronte umanistico si è spostata in modo definitivo verso il marketing e tutto ciò che riguarda la manipolazione dell’individuo per fini politici o commerciali. Quasi nessuno dice più quello che pensa, si dice quello che fa sicuramente presa sugli altri. Se emergessero tante voci solide, robuste, chiare, nitide, coraggiose – e perché questo accada scrittori, giornalisti e sceneggiatori devono far fronte comune – si invertirebbero certe tendenze e gli editori, i giornali, i produttori, gli streamer e i broadcaster gli darebbero tutte le attenzioni che meritano. Io la vedo così.