NoteVerticali.it_Enrico_Zambelli_il_bel_mare_zinco_cover“Coloro che vivono in riva al mare difficilmente possono formare un solo pensiero di cui il mare non sia parte”, sentenziava Hermann Broch. Ed è difficile, in effetti, confutare questo “assioma”, soprattutto se si guarda alla fervida produzione poetica radicata nel capoluogo ligure e alla sua altrettanto celebre scuola cantautorale.

Da Giorgio Caproni a Eugenio Montale, da Luigi Tenco a Fabrizio De André, ritroviamo questo arcaico topos letterario che, lungi dall’essere un mero orizzonte fisico, si presenta soprattutto come ricettacolo simbolico, talvolta in grado di racchiudere l’intera ispirazione poetica di un autore. È il caso di Enrico Zambelli, cantautore e scrittore genovese la cui ultima raccolta di liriche si intitola, emblematicamente, “Il bel Mare Zinco”. Nei suoi versi, così come nelle sue canzoni, il “moto ondoso” di un artista profondo ma al tempo stesso capace di intelligente ironia.

Spaziando tra poesia e musica, ci ha raccontato il suo “mare zinco”, fatto di riflessioni aspre e di critiche sociali, ma anche di leggerezza infantile e goliardia. Diversi aspetti che convivono in una natura sfaccettata, alla stregua di quel mare che lambisce la “Superba”. Ora calmo e rassicurante, ora ostile e insidioso, ma da sempre perfetta sintesi delle inevitabili contraddizioni della vita e dell’animo umano.

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NoteVerticali.it_Enrico_Zambelli_Il_bel_mare_zinco_2Il bel Mare Zinco”, la tua ultima raccolta di poesie, porta un titolo emblematico, sia perché è costruito sull’anagramma del tuo nome, sia perché “Il Mare Zinco” è il concetto creativo alla base della tua produzione musicale e letteraria. Lo definisci come “un luogo astratto, il rifugio ideale dove nascondersi per trovare riparo dal quotidiano”. Potresti chiarire l’idea che si cela dietro a questo titolo?

Ho scelto questo titolo perché Il mare è l’elemento nel quale mi sento più a mio agio, ancor più che la terra, probabilmente. Pensa a quanto è evocativo nella canzone, nella poesia, nella letteratura. Riesci a immaginare qualcosa di più romantico di un bacio in riva al mare col rumore delle onde in sottofondo? E riesci a immaginare qualcosa di più sofferente di un addio, tra gli ombrelloni chiusi sul finire di un’estate, scandito dallo stesso rumore delle onde che si infrangono sugli scogli? Forse la tradizione dei cantautori genovesi nasce proprio da lì, da due anime che si giurano l’eterno amore o che si dicono addio per sempre in riva al mare, Chissà… Quando, giocando ad anagrammare il mio nome, è saltato fuori «il bel mare zinco» mi ci sono subito riconosciuto e affezionato e, lasciando da parte «il bel», ho unito subito il mare e lo zinco. Il mare è l’immagine della bellezza, del romanticismo, della purezza, della trasparenza, della libertà. Lo zinco è un elemento chimico maleodorante che non evoca niente di buono. «Perfetto» mi sono detto, «non c’è niente che mi rappresenti meglio». È la sintesi delle mie contraddizioni, delle mie incoerenze, la sintesi delle mie umoralità, il bianco e il nero, l’yin e lo yang, il bene e il male. Una nemesi adorabile, l’esaltazione dei miei conflitti, quasi un ossimoro. Anzi, per dirla parafrasando il padre di tutti gli ossimori: “E il naufragar m’è dolce in questo marezinco.” Detto questo, nella scelta del nome giocata sull’anagramma di Enrico Zambelli c’è anche un pizzico di narcisismo, ma credo si sia capito!

Il “Mare Zinco” è fatto di versi ma anche di musica. In esso, infatti, non c’è una netta distinzione tra poesia e canzoni. Sembrano nascere entrambe dalla stessa esigenza: una fuga dalla realtà oppure un modo per recuperare la capacità di osservare il mondo con uno sguardo diverso?

Per quanto riguarda la questione poeta/cantante io parto sempre da un discorso prudenziale, che è poi un vecchio aneddoto che utilizzava Fabrizio De André prendendo a prestito una frase di Benedetto Croce, ovvero l’idea che tutti fino a vent’anni scrivono poesie, ma poi vanno avanti a scrivere solo i poeti e i cretini. De André rispondeva:«Io nel dubbio mi definisco cantautore!» e credo che sia un principio abbastanza condivisibile. Il poeta per me è uno che guarda gli inestetismi del mondo, con un occhio critico e con dispiacere nel vedere un mondo che non cambia, ma con la passione di chi farebbe la rivoluzione domani mattina, anche se poi non la farà. Diciamo che io parlo di poesia come concetto e come modo di vedere le cose, non come stesura formale dei versi. Nel senso che se tu sei folgorato da qualcosa, quella cosa è l’opera, laddove la sai cogliere. Sotto questo aspetto, il poeta può anche non sapere cos’è l’endecasillabo, lo iato o l’allitterazione. Per me la poesia nasce semplicemente dall’esigenza di prendere, vedere, filtrare la realtà.

Nelle tue poesie, così come nelle canzoni, alterni temi piuttosto seri e delicati (come nel brano “Buon Natale”dedicato alle morti sul lavoro), ad argomenti più “frivoli”. Sembri molto lontano dalla figura dell’intellettuale impettito chiuso nella sua torre d’avorio..

Sicuramente. Trovo che stare sulla torre d’avorio sia brutto oltreché noioso. In realtà io sono serio e impegnato in tutte le cose che faccio, anche in quelle apparentemente frivole. In tutto ciò che scrivo c’è lo stesso livello di emozione e di intensità. Ci sono dei momenti in cui fa piacere un po’ di “leggerezza”, anche se la parte più emozionale, in genere, è quella della sofferenza, perché è più facile essere stimolati da accadimenti tristi. A questo proposito mi torna in mente Bruno Lauzi quando diceva “scrivo canzoni tristi, perché quando sono allegro esco”. Il concetto è un po’ quello. Ma penso anche che a volte sia utile sdrammatizzare, prendersi in giro. Credo che nella vita serva un po’ di auto-ironia.

Enrico Zambelli
Enrico Zambelli

Eugenio Montale, nel suo discorso del ’75 per la consegna del Nobel a Stoccolma, pronunciò queste parole: ”Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile”. Cosa ne pensi di questa affermazione?

Io credo che ci sia tanta poesia ma che manchino i poeti. La poesia è ovunque e la si trova nelle situazioni più strane, basta vederla. Un giorno con mio figlio sono andato in una scuola dove i bambini avevano messo in scena una recita tratta da una mia canzone. Si parlava del “cosa vorrei fare da grande” e una bambina disse “Io vorrei fare la luna”. Penso che questa risposta sia molto poetica. Secondo me alla base della poesia, in fondo, c’è anche la voglia del “dolce stare male”, il soffrire per qualcosa che ha valore. Spesso la gente sta male per delle inezie, perché non può comprare l’auto nuova ecc..ecc..Credo invece che sia bello stare male per qualcosa di più profondo, perché in tal caso è una “sofferenza” utile.

Nella poesia “Il porto illusorio” definisci l’illusione come un movente, uno stato mentale, un disagio suadente. Qual è la tua peggiore (o migliore) illusione?

Quella di poter fare la vita che vorrei. L’illusione di una libertà totale, di svegliarsi la mattina sapendo che non ti serve niente, che non hai bisogno di nulla per migliorare la tua esistenza e che va bene così. In parte riesco a vivere come mi immagino, ma al tempo stesso ho la convinzione che quella sensazione di libertà totale non ci sarà mai e rimane un’illusione in sospeso. È un po’ come comprare un gratta e vinci, lo gratti ma intanto sai che non vincerai. Io se li compro non li gratto, perché finché non gratto tutto è possibile, nel senso che c’è sempre un margine di miglioramento. In un certo senso la mia vita è un gratta e vinci non grattato (sorride). L’illusione di poter sempre migliorare, di arrivare a essere quello che veramente si vorrebbe essere, ma per mille motivi non si riesce a farlo. Il problema è che ci si scontra con la realtà, con le debolezze, con le vigliaccherie, con aspetti complicati della propria personalità. Nel mio libro c’è un aforisma che dice: «è orrendamente frustrante chiamare ʺimpotenza” la “vigliaccheria”…d’altronde, un alibi non si nega a nessuno». E a volte è così, non si fa qualcosa e si trovano mille alibi per non ammettere che dipende da noi.

La canzone “Questa Storia”, tratta dall’omonima poesia, mette in luce la tua spiccata capacità narrativa, qui espressa nel raccontare, con dovizia di particolari, una toccante storia partigiana. Da dove nasce questa idea? È una vicenda realmente accaduta?

Sì, è una vicenda che riguarda i miei nonni materni, che peraltro all’epoca si conoscevano da poco. Si tratta di una storia che ho sentito raccontare molte volte, praticamente “a ogni pranzo di Natale”, come dico nella canzone. Infatti, quando ero ragazzino e i miei nonni erano ancora in vita, ci si ritrovava tutti insieme e si raccontavano storie, passando dagli aneddoti più tristi a quelli più divertenti. Chi ha vissuto gli anni della guerra ha nei propri ricordi e nei propri racconti simili vicende. “Questa storia” l’ho sentita raccontare tante volte da mia nonna ed è una storia che ha modificato il corso di molte vite, perché per un particolare, per una frazione di secondo, l’evoluzione dei fatti sarebbe stata diversa e non saremmo qui a raccontarla. Inoltre è una storia comune a molti di quella generazione. “Questa storia” è anche un modo per omaggiare chi ha avuto il coraggio e la determinazione necessarie per poter sopravvivere o per salvare altre vite. E poi considera che queste cose accadevano in un paesino davvero piccolissimo, dove la gente non aveva mai visto nulla al di fuori dell’asino e della capra che c’erano nella stalla. Le informazioni non arrivavano e magari c’era una radio a dieci kilometri di distanza, quindi era ancora più complicato ed eroico riuscire a cavarsela in determinate situazioni.

Uno dei temi a te cari è la denuncia contro l’omologazione del pensiero, contro coloro che puntano il dito perché non sono in grado di avere prospettive diverse sulla realtà. Un concetto bene espresso in una delle tue canzoni, che si intitola “Il Gregge”, brano in difesa di coloro che sono etichettati come “diversi” e per questo emarginati…

Esatto.“Il Gregge” si ispira a un’idea resa bene da Nietzsche, quando scrive :«Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica». L’importante, senza dubbio, è “sentire la musica”. Sicuramente la maggioranza (non silenziosa) punta il dito contro tutto ciò che è difforme e uscire dal gregge è difficile, perché è molto più rassicurante starci dentro. È un po’ il concetto della solitudine dei numeri primi. Se hai delle anomalie, come posso averne io, cose banali che comunque ti portano ad avere difficoltà, ansie, attacchi di panico, vieni visto molto male. Vieni fuori quando butti giù le maschere. Io, ad esempio, ho l’abitudine di parlare da solo (sorride). Ho degli amici immaginari con i quali “dialogo” e per ovviare a questo problema ho comprato un auricolare bluetooth. Così se sono fermo al semaforo e qualcuno mi guarda faccio finta di parlare con il commercialista, perché se parli col commercialista sei una persona normale! Pensa a persone come Alda Merini o Dino Campana, che venivano considerate folli…Quelli che puntano il dito magari sono gli stessi che vanno alle sei del mattino al centro commerciale perché ci sono le scarpe di Dolce e Gabbana in offerta. Chi è il vero folle?

NoteVerticali.it_Enrico_Zambelli_Il_bel_mare_zinco_1Sia come cantautore che come poeta avrai sicuramente alcuni punti di riferimento che fanno parte della tua formazione. Quali sono gli artisti e i poeti che ti hanno maggiormente influenzato?

Per quanto riguarda la poesia ce ne sono molti: Charles Bukowski, Stefano Benni, Trilussa e altri ancora. Ma la figura più significativa dal punto di vista letterario è sicuramente Pier Paolo Pasolini, perché credo sia stata la mente più lucida degli ultimi seicento anni e probabilmente dei prossimi seicento anni. Per quanto riguarda la musica, io mi rendo conto di ascoltare solo gente morta e finché la ascolto va pure bene, quando la vedrò inizierò a preoccuparmi! Posso dirti che amo Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo, Piero Ciampi, Fabrizio De André, Lucio Dalla, Rino Gaetano, Georges Brassens, Jacques Brel, Pierangelo Bertoli, Ivan Graziani e…Francesco Guccini (che fortunatamente è vivo!).

Hai in progetto la realizzazione di un ep o di un vero e proprio album per far conoscere le tue canzoni?

Sì, in realtà sono in cantiere entrambe le cose. L’ep introdurrà l’uscita dell’album, diciamo che con l’autunno ci saranno parecchie novità. Come direbbero quelli che parlano male:«stay tuned».

Vorrei concludere prendendo nuovamente spunto da Eugenio  Montale e dal suo discorso del ’75, durante il quale disse: “Se considero la poesia come un oggetto ritengo che essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale al martellamento delle prime musiche tribali“. Montale ravvisa quindi una stretta parentela tra poesia e musica e un’origine comune. Tu come vivi questo legame? In quale di questi due“mondi” senti di poterti esprimere più liberamente?

Rileggi la frase di Montale, senti che bel suono dà il concatenarsi delle parole, non è nemmeno necessario capirne il significato! I due mondi sono per me molto vicini e flirtano di continuo. A volte c’è la voglia e l’ispirazione di incastrare i pensieri in rima magari già accompagnandoli in modo un po’ arbitrario con una melodia, intervenendo in un secondo tempo con la parte musicale. A volte scrivo direttamente con la chitarra (anche se preferisco scrivere con la matita, fare la punta alla chitarra è un problema non indifferente). Altre volte c’è il bisogno di scrivere in modo più aperto e allora si percorre la via del racconto, della poesia, dell’aforisma e chi più ne ha più ne metta. La sola cosa che conta è l’emozione che dà il via a tutto, altrimenti sei uno spacciatore di falsi batticuore, un mestierante della parola. Poi trai le conclusioni, rigiri il foglio tra le dite, rileggi… Emily Dickinson diceva «Se mi sento fisicamente come se una parte della mia testa mi venga asportata, io so che questa è poesia.» Rende l’idea.

Ascolta i contributi audio di Enrico Zambelli

Enrico Zambelli, Il bel Mare Zinco, ERGA, 96 pagine, 2015.