Voler bene al proprio paese significa innanzitutto impegnarsi perché le cose che non vanno possano migliorare. Spesso la denuncia sociale è vista come inutile e dannosa, e si condannano quelli che, artisti, o intellettuali, la portano avanti nei propri lavori. Un’abitudine purtroppo vecchia come il mondo, se si pensa che già un giovane Giulio Andreotti bollava come inadatto (perché destinato a macchiare l’immagine dell’Italia all’estero) il cinema neorealista di De Sica e Rossellini (“I panni sporchi si lavano in casa”, ipse dixit… sic!). L’arte come semplice evasione non è certo una costante dell’opera di Ernesto Orrico attore e regista teatrale poliedrico e capace, che in questi giorni è impegnato in “Va pensiero“, spettacolo del Teatro delle Albe scritto da Marco Martinelli per la regia a quattro mani dello stesso Martinelli con Ermanna Montanari che ha già debuttato con successo al Teatro Alighieri di Ravenna, e che da gennaio riprenderà il suo percorso con le repliche che partiranno dal Teatro Elfo Puccini di Milano. Abbiamo incontrato Orrico al suo rientro a Cosenza per le feste di fine anno.
Il lavoro che stai portando in scena in questi giorni è frutto di una drammaturgia intensa, un atto d’amore verso le istanze risorgimentali di un paese che sarebbe poi diventato corruttibile e abitato da corrotti. Che senso ha parlare di democrazia e giustizia nel nostro presente?
La drammaturgia di “Va pensiero” scritta da Marco Martinelli è un’indagine sul nostro presente, uno sguardo impietoso e vigile sulla corruzione che attraversa la vita socio-politica del nostro paese. Questo tempo ha bisogno di gesti artistici di resistenza, di manifestazioni di partecipazione civile che devono affiancare e valorizzare ciò che di buono in Italia esiste; lo spunto di partenza dell’affresco rappresentato in questo spettacolo è dato dalla vicenda del vigile urbano Donato Ungaro, la storia di un uomo che non si è girato dall’altra parte e che ha pagato un prezzo alto per il suo atto di disobbedienza civile, ha perso il suo lavoro, ma ha mantenuto la sua dignità. Il teatro, insieme ad altre arti, può e deve farsi carico di storie come questa per essere ancora luogo di confronto per la polis. Esaltare storie positive, facendo contemporaneamente vedere il marcio che esiste, bilanciando i chiaroscuri del nostro tempo attraverso una narrazione onesta e senza compromessi, così il teatro si rinnova come veicolo di una pedagogia della resistenza quanto mai necessaria per riaffermare valori di democrazia e giustizia.
‘L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani’. Se fosse ancora tra noi, secondo te Massimo D’Azeglio continuerebbe a ripetere questa frase anche oggi?
Un popolo è sempre in divenire, oggi siamo al contempo meno italiani e un po’ più europei e siamo e saremo sempre più multietnici (con o senza l’ufficialità dello ius soli). Nonostante concetti come “nazionalismo” e “protezionismo” abbiamo ripreso pericolosamente quota nel dibattito politico, sono convinto che un futuro positivo per l’Italia insista nella capacità di rinnovarsi come territorio-piattaforma di accoglienza per tutta l’area del Mediterraneo, la storia della nostra Calabria poi è un paradigma perfetto, nei secoli spazio di arrivi e partenze, terra di emigrazione e di immigrazione che oggi si sublima nell’esempio di Riace. Di recente, dopo aver appreso della scoperta dei resti di un “Elephas Antiquus” in Sila e dopo la lettura di un bell’articolo di Claudio Dionesalvi mi sono detto che non possiamo non dirci “afro-europei”. Gli italiani esistono, sono tanti, con culture, saperi e colori in continua mutazione.
Che distanza c’è tra il personaggio che interpreti in ‘Va pensiero’ e l’anarchico Joe Zangara?
Nello spettacolo del Teatro delle Albe sono un imprenditore legato alla ‘ndrangheta, ho cercato di restituire sulla scena una figura che si muove tra arroganza e accortezza, un uomo impegnato nel tessere trame con la politica con l’obiettivo puntato sulla più importante delle attività delle mafie contemporanee, il riciclaggio di denaro sporco proveniente dalle classiche attività estorsive o dal traffico di droga. Nel mio “La mia idea” il racconto di Joe Zangara (emigrante calabrese autore nel 1933 di un attentato contro Roosvelt) è fatto in prima persona ed è basato sulle dichiarazioni che lo stesso Zangara ha lasciato pochi giorni prima di morire sulla sedia elettrica; Antonio Dragone invece sulla scena è sempre in relazione ad altri figure ed è un personaggio di finzione, anche se quello che dice è basato su fatti e circostanze reali. Due approcci interpretativi differenti per due figure distanti, uno, Joe Zangara, idealista e un po’ pazzo, l’altro, Antonio Dragone, senza scrupoli e lucidissimo.
Interpretando il ruolo che ti ha assegnato la drammaturgia di Martinelli e Montanari, non si corre il rischio di cadere in qualcosa di stereotipato?
Marco Martinelli mi ha proposto questo ruolo dopo aver visto “U tingiuto. Un Aiace di Calabria” lo spietato spettacolo di Dario De Luca in cui interpretavo un violento ‘ndranghetista, per cui sì il rischio di restare intrappolato in uno stereotipo interpretativo era alto, ma posso affermare con una certa sicurezza che il risultato finale è assai diverso e poi per un attore la possibilità di giocare sulla scena con il proprio lato oscuro è una sfida sempre affascinante.
‘Va pensiero’ è un lavoro corale, che coinvolge attori di formazione e provenienza diverse tra loro. Qual è la cosa più inattesa che hai imparato da questa esperienza, e com’è stato il rapporto con il pubblico di Ravenna?
Il cast di “Va pensiero” è formato da un nucleo storico di attori del Teatro delle Albe, la strepitosa Ermanna Montanari (premio ANCT 2017 per lo spettacolo “Inferno”) è “la Zarina” il sindaco che scivola nella vertigine della corruzione; il bravo Alessandro Argnani è Benedetti il vigile urbano che scopre i legami tra il sindaco e la mafia, Roberto Magnani, è il magistrale interprete del mellifluo addetto stampa del sindaco, Alessandro Renda è il divertente interprete di un imprenditore romagnolo che si lascia tentare dalle sirene dei facili guadagni promessi dalla ‘ndrangheta, Laura Redaelli è la credibile segretaria del sindaco che sopporta un feroce mobbing da parte della sua datrice di lavoro; insieme a loro la pattuglia di “esterni” alla compagnia, Salvatore Caruso attore napoletano di solida esperienza che con Tonia Garante forma una coppia nella vita e nell’arte, nello spettacolo sono i bravissimi “gelatai in esilio” che si oppongono al pagamento del pizzo; Mirella Mastronardi attrice di formazione bolognese e origini pugliesi, interpreta con efficace aderenza la controversa figura della commercialista che fa da “cerniera” tra la politica e la cosca e infine Gianni Parmiani, attore di Lugo, che vanta una lunghissima esperienza nel teatro popolare, Gianni con la sua carica ironica e un po’ stralunata innerva di simpatia la figura di Olmo Tassinari, uomo del popolo che fa fatica a credere che in Emilia Romagna possa esistere la mafia.
Nello spettacolo sono presenti alcune arie del repertorio verdiano eseguite dal Coro Lirico “Bonci” di Cesena, accompagnato all’armonium e alla fisarmonica dal maestro Stefano Nanni.
Essere in scena ogni sera con oltre 30 persone sul palco è un’emozione difficile da descrivere, la conferma che il teatro può essere una grande e strana famiglia che sul palco trova e rinnova ogni volta il suo amore per la vita, per l’arte.
Da molti anni non mi capitava di lavorare con un cast così numeroso e pieno di talenti, una gioia vera poter abitare la scena in questo modo, un’occasione per prendere – almeno per un po’ – le distanze dal teatro in quasi solitaria che ho proposto negli ultimi tempi.
La tua esperienza ravennate si pone idealmente a metà tra il tour a New York di qualche mese fa e l’attività teatrale nel tuo contesto geografico di origine, quello cosentino e calabrese in genere. Se ricordiamo la recente classifica del Sole 24 Ore sulla qualità della vita in Italia, Cosenza e tutto il Sud in genere viaggiano tristemente in posizioni di coda. Se dovessimo fare una classifica su come la cultura viene aiutata e incoraggiata nelle città italiane, le distanze tra Ravenna e Cosenza, e tra Nord e Sud, sarebbero le stesse? E New York resterebbe irraggiungibile sia per Ravenna oltre che per Cosenza?
La distanza tra nord e sud, nel settore della gestione pubblica della cultura, è grande, e in particolare quella tra nord e Calabria mi appare – amaramente – incolmabile sul breve periodo, in particolare per quanto riguarda il teatro mi tocca ricordare ancora una volta che nella nostra regione non sono presenti né un Teatro di Rilevante Interesse Culturale né un Centro di Produzione (le categorie ministeriali che identificano le strutture di produzione e promozione teatrale che hanno sostituito i teatri stabili e che in tutta Italia ricevono sostegni statali per le loro attività). A me par chiaro che se non si lavora per colmare questo gap i nostri ritardi strutturali continueranno ad aumentare, come si può fare? L’unica strada percorribile per cambiare questa condizione è quella di lavorare in rete, se alcune delle “buone pratiche” che esistono in Calabria trovassero il modo di collaborare si potrebbe, forse nel giro di un lustro, dare vita ad una struttura privata capace di interloquire con il MiBact da una posizione di maggior forza.
Per altro va sottolineato che, nonostante le carenze gestionali-organizzative, negli ultimi 20 anni da un punto di vista della creazione artistica la nostra regione ha continuato a sfornare produzioni teatrali di grande qualità, penso, disordinatamente e senza alcuna pretesa di esaustività, a “Bollari” del Teatro della Maruca, a “Patres” di Scenari Visibili, a “Radio Argo” e “Rock Oedipus” di Rossosimona, a “L’emigrazione è puttana” del Teatro della Ginestra, a “Come un granello di sabbia” di Mana Chuma, a tutto il lavoro di aggiornamento sulla figura del cantastorie proposto da Nino Racco e ovviamente a tutta l’attività di Scena Verticale con le opere di Saverio La Ruina e Dario De Luca e con l’organizzazione di Primavera dei Teatri, festival che è ormai uno dei più importanti appuntamenti nazionali per il contemporaneo.
Ravenna è una città con una tradizione culturale enorme, attraversata continuamente, anche in questo rigido autunno, da turisti attratti dagli straordinari mosaici bizantini presenti nelle sue chiese, dalla tomba di Dante Alighieri e da un centro storico in perfetto stato di conservazione, ha diverse biblioteche e musei assai frequentati, facoltà universitarie in pieno centro e un tessuto produttivo sicuramente ricco e sfaccettato, in definitiva una città molto diversa dai capoluoghi calabresi.
Una cosa mi ha molto colpito qualche sera fa, ho partecipato ad un incontro sul tema della pervasività mafiosa in Emilia Romagna, la sala era piena di gente e si sono avvicendati al microfono diverse voci che hanno portato le loro testimonianze rispetto ad azioni di contrasto alla criminalità organizzata, un incontro denso e interessante che testimonia l’esistenza di una società civile attenta e coraggiosa, ma la vera sorpresa per me è arrivata alla fine, quando dopo quasi tre ore di dibattito ha preso la parola un assessore comunale che per tutta la durata dell’incontro era rimasta seduta ad ascoltare e prendere appunti e insieme a lei c’erano ben 3 consiglieri comunali (di diversa connotazione politica), ecco ho provato ad immaginare la stessa situazione in Calabria, ma sinceramente non ci sono riuscito.
New York invece è proprio un’altra cosa, le sue peculiarità e la sua storia di città-mondo sono tali da renderla un unicum, anche per gli stessi Stati Uniti… a mio modesto avviso non può e non deve essere un modello, né per Cosenza né per Ravenna che hanno e devono esaltare le loro particolarità. Ma certo a New York possiamo e dobbiamo continuare a rubare idee, suggestioni, visioni… resta il luogo del pianeta Terra a più alta concentrazione di menti creative, un vero crogiolo di razze e culture.

Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…