Il mondo del cinema piange il regista che nei suoi film ha raccontato le speranze e le illusioni della società italiana di metà Novecento
“Il cinema è bello se riesce a leggere la realtà“. La frase, di Ettore Scola, suona come una dichiarazione di intenti e descrive appieno quello che è stato il cinema del regista nato a Trevico, in Irpinia, ma trapiantato a Roma. Come forse nessun altro tra i colleghi della sua generazione, Scola ha infatti raccontato l’Italia e gli italiani, attraverso un mix intelligente di allegria caciarona e malinconia beffarda con cui, sin dagli anni ’50, ha sapientemente condito i suoi film. Titoli rimasti nella memoria collettiva, realizzati prima come sceneggiatore (“Un americano a Roma“, “Il sorpasso“), poi come regista (da “Riusciranno i nostri eroi…?” a “La famiglia“, per citare i titoli che hanno aperto e chiuso la sua stagione più feconda), che, attraverso interpretazioni entrate nel mito, da Alberto Sordi a Vittorio Gassman, hanno dipinto vizi e virtù di una società che stava cambiando pelle, passando dalla positività del benessere del primo dopoguerra fino al boom degli anni ’60 alla consapevolezza di quella decadenza imperante che avrebbe segnato i decenni successivi.

Simpatie politiche mai nascoste, la regia di Scola ha descritto in modo impietoso anche la trasformazione della sinistra italiana, già proprio da “C’eravamo tanto amati“, che probabilmente raccoglie la summa del suo pensiero registico e che narra vicende che vanno dalla metà degli anni ’40 a quella degli anni ’70. Nel film del 1974 dedicato a Vittorio De Sica, è chiara ed evidente la frattura tra tre diversi modi di pensare, che spaccò e divise probabilmente per sempre il movimento partigiano all’indomani della caduta del fascismo e della nascita della nuova Italia repubblicana. L’illusorio idealismo di Nicola (Stefano Satta Flores), il pragmatismo proletario di Antonio (Nino Manfredi) e il rampante carrierismo di Gianni Perego (Vittorio Gassman) sono le anime nelle quali è stato declinato lo spirito partigiano, dissoltosi nella nebbia dei ricordi e della accomodante realtà borghese. Una lettura amara e impietosa dei sogni e di cosa sono diventati, che sarebbe poi esplosa in modo più eclatante in un film come “La terrazza“, che racconta le stanchezze di una classe politica di chi, finita l’epoca incendiaria, si prepara a diventare pompiere (“A che ora è la rivoluzione?“, per citare la battuta del personaggio interpretato da Vittorio Gassman).

Scola, a ben vedere, ha sempre cercato una via alternativa a quella della classica commedia, e in questo si è affrancato più volte, specie negli anni ’70, da un certo manierismo che sembrava coinvolgere il cinema nostrano. In questo senso, se è un vero peccato che siano passati presto nel dimenticatoio titoli come “Ballando ballando“, osannato in Francia, o “Splendor” e “Che ora è?“, che celebrarono l’inedita coppia composta da Marcello Mastroianni e Massimo Troisi, va inserito un film che oggi si definirebbe politicamente scorretto come “Brutti, sporchi e cattivi“, del 1976, con un immenso Nino Manfredi, che racconta le borgate romane a due passi da San Pietro in toni pasoliniani e senza sconti o appelli, e che è distante anni luce, per esempio, da una pellicola – “Lo scopone scientifico” – altrettanto di successo ambientata negli stessi luoghi e girata tre anni prima da Luigi Comencini. Singolare poi il recupero storico che Scola fece dell’epoca fascista, ambientazione difficilmente affrontata, forse perché scomoda, nel cinema italiano dell’ultimo mezzo secolo se si escludono i film di Luigi Zampa (“Anni ruggenti“), Luciano Salce (“Il federale“) o di Mario Monicelli (“La marcia su Roma“) dei primi anni ’60. Se in “Una giornata particolare“, del 1977, Scola traccia un ritratto impietoso della società italiana ai tempi di Mussolini, dando voce a due personaggi – magistralmente interpretati da Sophia Loren e da Marcello Mastroianni – che identificano la minoranza silenziosa e debole di un paese che vuole alzare la voce e non ammette debolezze, in “Concorrenza sleale“, del 2001, con Sergio Castellitto e Diego Abatantuono, ci ricorda cosa furono le leggi razziali in Italia, e quali sofferenze portarono a chi fu privato dalla sera alla mattina della dignità e dell’onore.

Scola, la cui filmografia si ferma stranamente al 2003, se si fa eccezione il documentario Che strano chaimarsi Federico (2013) dedicato a Fellini, va anche ricordato per la sua costante volontà di coralità, un desiderio mai sopito che ha accomunato tutta la sua filmografia. In molti, all’indomani della sua scomparsa, hanno sottolineato quel ‘noi’ che riecheggia continuamente nelle storie dirette dal maestro originario di Trevico, quell’impegno in forma di confronto continuo con la realtà, senza mai personaggi solitari, ma anzi con l’accorato desiderio di coinvolgimento di tutti e di ciascuno. La lezione di cinema di Ettore Scola può essere allora racchiusa in una vocazione al pluralismo, volta al desiderio di dare voce a tutte le espressioni della società, partendo dal basso. Una società, quindi, immaginata e sognata secondo la tradizione della sinistra berlingueriana (non a caso Scola fu ministro della Cultura nel ‘governo ombra’ che il PCI varò con Occhetto alla fine degli anni ’80), nella quale chiunque avrebbe avuto il suo posto, la sua attenzione, la sua dignità. Un mondo di ‘Antonio‘ o di ‘Nicola‘, per un’Italia che sarebbe tristemente diventata di tanti, troppi, ‘Gianni Perego’.
C’ERAVAMO TANTO AMATI – La nostra generazione ha fatto veramente schifo
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…