Fabrizio De Andrè ha rappresentato una figura di intellettuale anomalo ma presente nella società italiana del Novecento. La sua arte di servo disobbediente e principe libero, oggi più che mai, resta patrimonio di tutti, per ‘mille anni al mondo, mille ancora’…Chi è l’intellettuale? E’ colui che, attraverso la cultura, stimola discussioni, riflessioni, pensieri, azioni. Parlare, anzi scrivere di Fabrizio De Andrè oggi significa scrivere, forse, di uno degli ultimi intellettuali italiani del Novecento. Un intellettuale anomalo, certo, in un paese anomalo come l’Italia, ricco di contraddizioni e di esperienze, contaminato nel linguaggio ma forse non eccessivamente cosmopolita nella cultura, sempre troppo severa nelle espressioni istituzionali e assai poco coraggiosa nell’esprimere una indipendenza scevra di sciovinismo. In un paese ancora intento a leccarsi le ferite dalla guerra, in preda però al boom economico della ricostruzione, dove librarsi nel blu dipinto di blu significava concorrere all’entusiasmo di chi vuole lasciarsi alle spalle le macerie e i lutti, De Andrè esordisce nel mondo della canzonetta in modo dirompente ed esplosivo, con echi di François Villon, dei poeti di piazza francesi prima di Michel de Montaigne, o di Charles Baudelaire, Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, e con una voce amara, asciutta, ma pulita e, già dal suo inizio, assolutamente unica.
Figlio della borghesia genovese, dà scandalo frequentando i vicoli e accompagnandosi con ladri e prostitute, gli stessi che entreranno a far parte della sua poetica musicale e artistica, rimanendovi come espressione costante di un punto di vista, quello dei perdenti e degli ultimi, che non ha mai nulla del paternalismo ipocrita e deamicisiano, ma è piuttosto espressione di un modo di essere, che lo marchierà a vita caratterizzandolo e distinguendolo da qualunque altro suo collega. La droga, il carcere, il suicidio, la guerra, la morte, sono temi che accompagnano le prime produzioni di Fabrizio, attraverso descrizioni schiette, a volte ironiche (vedi l’episodio di Carlo Martello) e mai, mai retoriche, che a metà degli anni ’60 stridono con lo ye-ye imperante del beat ma appaiono sin da subito riferimento e fonte di ispirazione irrinunciabile per la generazione successiva, quella che attraverserà il decennio seguente e quelli a venire. Ma De Andrè non può riciclare le mode, o essere continuatore di un sentire “già sentito”. Deve rompere gli schemi, perché questo è il suo compito, la sua missione, la sua vocazione anarchica. E lo fa con una voce che non è mai sopra le righe, ma è quasi sussurrata, ideale per descrivere i personaggi che racconta, disegnandoli con una poesia e una tenerezza che, nonostante parole crude e niente affatto concilianti, li esaltano e li lasciano librare in un’aura di paradiso laico assolutorio e consolante. E lo fa usando un linguaggio che è diverso, a volte arcaico e allegorico, a volte diretto, a volte addirittura nascosto attraverso l’uso del dialetto… come non ricordare “Creuza de ma”, disco di canzoni scritte interamente in genovese, piombato nel mezzo del turbinìo edonistico degli anni ottanta, a stravolgere il “provincialesimo” discografico di casa nostra?…

Così, Marinella, piccola giovane prostituta uccisa e gettata nel Tanaro, diventa una principessa triste dal destino segnato, che scivola nel fiume e vola in cielo su una stella. O Piero, soldato che riflette un attimo in più prima di colpire il suo nemico ed è colpito a sua volta. O ancora Barbara, Maria, Nancy, Sally, Andrea, Teresa, Franziska e tutte le protagoniste delle altre canzoni, figure che hanno ciascuna una propria dignità e un proprio distinto modo di essere e di affrontare la vita, ma sono accomunate dall’essere anime salve, ossia spiriti solitari, liberi e puri, servi disobbedienti o figli di navi pirata svezzati da esistenze in cui sono stati messi in discussione dalla vita, che li ha attraversati non senza rumore. Così, dall’ottica delle anime salve, all’indomani del Sessantotto De Andrè sceglie di dedicare un disco a Gesù, da lui stesso definito il più grande rivoluzionario della storia, con canzoni ispirate ai Vangeli apocrifi. E, a cinque anni dal maggio francese, giunge “Storia di un impiegato”, del 1973, un quadro in cui è forte il senso della lotta e della rivolta come moniti e strumenti (“…per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti…”) per cambiare la società passando dall’individualismo alla collettività, anche a costo di rischiare buonsenso e affetti. E in mezzo, “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”, del 1971, la parabola ispirata all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, un campionario di ritratti che in prima persona raccontano la propria vita, chiudendo con la struggente e autentica dichiarazione del suonatore Jones (“…ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto…”), emblema principe dell’anarchia espressa come sposa naturale del concetto più alto di libertà.
La produzione successiva, a partire da “Volume VIII”, pubblicato nel 1975, prosegue nel mettere in musica sogni, illusioni spezzate, amara consapevolezza dell’incapacità umana di ritagliare per se stessi una condizione di appagamento anche provvisorio. L’allegoria della cattiva strada, posta all’inizio del disco, prova ad aprire spiragli anche per le scelte sbagliate (“…ma c’è amore un po’ per tutti, e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada…”), ma il disco si chiude con “Amico fragile“, amara constatazione, ispirata da una notte di alcool, sul non poter uscire dall’ingabbiamento “borghese” che allontana dai sogni e riporta l’uomo verso tutto ciò che è materiale e, come tale, destinato, prima o poi, a perdersi.

Uno dei più grandi meriti di De Andrè è stato prodigarsi per collaborare con altri artisti, senza dimenticare le traduzioni di brani di autori stranieri, da George Brassens, a Bob Dylan, a Leonard Cohen: da Riccardo Mannerini a Enzo Jannacci (coautore quasi anonimo di “Via del campo”), da Giuseppe Bentivoglio a Nicola Piovani, a Francesco De Gregori, la PFM, Massimo Bubola, Mauro Pagani, Ivano Fossati, queste simbiosi artistiche (per la verità assai poco comuni in altre realtà musicali italiane) che hanno prodotto i capolavori della produzione deandreiana hanno contribuito, da un lato, a generare esempi di coerenza unici nella discografia italiana, e, dall’altro, a gettare semi di creatività che hanno finito per influenzare, artisticamente e culturalmente parlando, più di una generazione. Scorrendo la produzione di Faber, non vi sono cadute di stile o episodi di incertezza: la coerenza è l’elemento evidente, così come è forte il senso del vigilare e dell’attenzione, propri e tipici di un intellettuale mai assopito. Per questo, per esempio, “Coda di lupo” o “Don Raffaè” non avrebbero potuto essere state scritte vent’anni prima del periodo in cui sono state pubblicate, così come è inevitabile scorgere la preveggenza, impressionante, di ciò che è descritto ne “La domenica delle salme”, triste, visionario e purtroppo realistico dipinto sulla fine dell’Utopia, in un clima surreale, suggellato dal frinire finale delle cicale a sovrastare ogni altro rumore, e adatto per la colonna sonora di un film di Luis Bunuel o di Elio Petri e circondato dalla caduta del Muro e dal trionfo del consumismo e della globalizzazione.
Ma non è stata solo l’attualità ad interessare artisticamente Fabrizio: la sua era curiosità pura, voglia di contaminarsi con esperimenti che omaggiassero altre produzioni letterarie, piccole o grandi, lontane nel tempo e nello spazio ma non nella sensibilità. Così, dalla canzone popolare francese del XV secolo che ispirò “La ballata dell’eroe” fino a Fernanda Farias De Albuquerque e Maurizio Jannelli, autori del libro che ha dato il la a “Princesa”, e ad Alvaro Mutis, autore di “Saga di Maqroll – Il gabbiere” e che De Andrè (insieme a Fossati) ha portato in “Smisurata preghiera”, vasto è il campionario di riferimenti che ha ispirato la produzione di De Andrè. Lo stesso Aristofane, le cui “Nuvole” avevano rappresentato il leit-motiv del lavoro omonimo del 1990, era diventato ancora un riferimento per l’album a cui De Andrè stava lavorando prima di morire. Il tema affrontato era la notte, vista attraverso diverse declinazioni (paura del buio, cecità del potere, morte e fenomeno fisico e atmosferico), e intesa come momento di ritrovo di se stessi, di amore, di perdizione e di riscatto.
Non possiamo dire cosa sarebbe stato questo suo lavoro notturno: il tempo, la vita e il destino hanno fatto sì che la produzione artistica in studio di Fabrizio si fermasse con “Anime salve”, il disco del 1996 dedicato ai reietti, ai dimenticati e agli umili, con punte di estrema poesia (come non citare “Khorakhanè”?): ci resta in eredità la sua produzione, suggellata da “Smisurata preghiera”, il suo testamento spirituale che chiude proprio “Anime salve”, e nel quale Fabrizio dà voce alle minoranze, a chi “viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione” e che, dopo tanto sbandare, merita “che la Fortuna li aiuti, come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere…”. Per questo e per tanti altri mille motivi, l’arte di Fabrizio De Andrè, intellettuale, poeta, amico fragile mai dimenticato, servo disobbediente, principe libero, è patrimonio di tutti, e ne va fatto tesoro, per i prossimi dieci, venti, cento, “mille anni al mondo, mille ancora…”.

Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…