
Da Marinella al suonatore Jones passando per Maria, Geordie e Don Raffaè: un viaggio che omaggia l’arte del poeta disobbediente del Novecento
Gli uomini e le donne che Fabrizio De Andrè fa vivere attraverso le sue canzoni sono tratteggiati nel cuore e scolpiti nella memoria, con l’uso di parole mai scelte a caso, e con l’intensità di una voce mai sopra le righe, anche quando forse se ne invocherebbe il bisogno, per denunciare soprusi, attaccare il potere, invocare pietà. In modo spiazzante, i personaggi sono lasciati librare in un’aura di paradiso laico assolutorio e consolante, perché, soprattutto coloro che viaggiano “in direzione ostinata e contraria“, dopo tanto sbandare, meritano “che la Fortuna li aiuti, come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere…“.
Così, Marinella, piccola giovane prostituta uccisa e gettata nel Tanaro, diventa una principessa triste dal destino segnato. Allo stesso modo, puoi immaginare lo scenario in cui si muove Piero, soldato che riflette un attimo in più prima di colpire il suo nemico, e invece cade prima di lui, attorno a mille papaveri rossi che ne veglieranno per sempre il cadavere. O ancora, vedi Barbara, Suzanne, Nancy, Sally, figure che hanno ciascuna una propria dignità e che, come i rom di “Khorakhanè“, sono accomunate dall’essere anime salve, ossia spiriti solitari, liberi e puri, servi disobbedienti alle leggi del branco. Vedi Maria, emblema della femminilità nel suo senso più ampio, e ti identifichi nel suo disincanto, nelle sue ali che dal sogno con l’angelo la portano al segreto “nascosto nel ventre“, che sarà fine della sua innocenza e inizio del suo percorso di donna chiamata alla maternità del mondo.

Poche lune più in là, ascolti il racconto di una giovane donna che, a London Bridge, invoca pietà per il suo Geordie, sorpreso a rubare sei cervi nel parco del re. O quello di un giovane indiano che racconta di un incubo purtroppo realtà, e puoi osservare il fiume Sand Creek che assurge a testimone impotente di uno dei massacri più crudeli della storia americana. Vedi poi le passanti, personificazione del rimpianto che “diventa abitudine nei momenti di solitudine“, o Teresa che con gli occhi secchi guarda il mare, erede di una tradizione di anime in attesa di salpare da un porto che non lasceranno mai. E ancora, Franziska, o l’anonimo servo pastore, emblema della libertà e della simbiosi con la natura, tra cisto e rosmarino che esaltano il paesaggio sardo, lo stesso nel quale si consuma la tragedia catartica di “Hotel Supramonte“, dove, per esorcizzare la paura del sequestro, il letto del bosco è battezzato con il nome della propria amata, anch’essa privata della libertà, e il tempo “è un signore distratto, è un bambino che dorme“. I temi sociali affrontati sono diversi, così come diverse sono le tipologie di personaggi che vivono nelle canzoni di Faber. In ogni ritratto vi è un richiamo alla realtà a volte velato, a volte intenso e evidente: “Sidun“, “Coda di lupo” e “Don Raffaè” sono calzanti nella loro attualità, così come, ne “La domenica delle salme“, è inevitabile scorgere la preveggenza, impressionante, della fine dell’Utopia. In tutto il campionario di ritratti ai quali Faber ha dato voce nel corso della sua produzione, ci piace accostare alla sua figura, quasi come una dichiarazione di intenti, la struggente parabola di chi, sorpreso dai suoi novant’anni, “con la vita avrebbe ancora giocato“: è il suonatore Jones (“…ricordi tanti, e nemmeno un rimpianto…“), emblema principe dell’anarchia espressa come sposa naturale del concetto più alto di libertà. Per questo e per tanti altri mille motivi, l’arte di Fabrizio De Andrè, intellettuale, poeta, amico fragile, servo disobbediente, principe libero, attraverso i suoi personaggi è patrimonio incondizionato di tutti, e ne è tesoro e eredità, per i prossimi “mille anni al mondo, mille ancora…“.
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…