Ebbene sì, anch’io ho visto la serie tv Sky sulla “leggendaria” storia degli 883. Fondamentalmente per curiosità e perché apprezzo le cose di Sidney Sibilia. Non certo per nostalgia verso la musica di Max Pezzali e Mauro Repetto, che tuttavia mi hanno sempre ispirato simpatia per la loro storia di amicizia e le comuni origini provinciali. Ricordo che nel 1992, ai tempi dell’album “Hanno ucciso l’Uomo Ragno” in un’intervista radiofonica su RaiStereoDue ascoltai Francesco De Gregori dire che gli piacevano gli 883, e questa cosa mi meravigliò non poco, considerando la distanza artistica abissale che li separava. E poi ricordo quando, sempre nel 1992 ad agosto, in Inghilterra, a Brighton, mentre stavo suonando la chitarra in un falò sulla spiaggia, dopo aver cantato Battisti, Vasco Rossi e gli U2, mi trovai, quasi inconsapevolmente, a cantare e suonare “Con un deca” e “Hanno ucciso l’uomo ragno” che era diventato un tormentone anche per i ragazzi stranieri.
Premesso ciò, la serie Sky sulla storia degli 883 mi è piaciuta per lo spirito di sana leggerezza che lascia trasparire e per il disincanto con cui affronta quello che in Italia fu un periodo di forte decadenza culturale. Nella crisi che stava affrontando la politica (il 17 febbraio, una settimana dopo l’uscita del primo album degli 883, era stato arrestato Mario Chiesa, e di fatto era iniziata Tangentopoli) e dove si assisteva impotenti alle stragi di mafia, la musica era ormai perlopiù un prodotto commerciale al pari di un detersivo. Certo, c’erano splendide eccezioni, sul palco del Primo Maggio trovavi Guccini e De André, ma la tv non propinava cultura né modelli utili alla crescita di un popolo. Era già esploso il trash, grazie ovviamente allo sdoganamento berlusconiano delle reti Fininvest che la Rai avrebbe scopiazzato negli anni a venire.
Ebbene, gli 883 sono stati uno dei prodotti di quella mediocrità, di quell’americanismo surrogato e di quello spirito ancora pionieristico con il quale si affrontava tutto con la sfrontatezza e la consapevolezza di non essere bravi a far nulla, ma non per questo ci si doveva buttar giù, perché era l’epoca in cui per fare il musicista o il cantante non occorreva per forza saper suonare né essere intonato. Ho sempre pensato che il vero e unico genio della faccenda sia stato Claudio Cecchetto che ha tirato fuori l’oro dalla terra, sia con loro che con Jovanotti e poi con altri artisti che sarebbero diventati più o meno famosi, oltre ovviamente a scoprire il talento di Fiorello.
Tornando alla serie tv sul duo pavese, della cui discografia salvo “Gli anni”, “Come mai” e un altro paio di cose, ho trovato molta approssimazione nella sceneggiatura, nella ricostruzione degli ambienti e nella scelta degli attori. Ok, in una fiction si tende molto a semplificare e a ridurre, e certamente edulcorare e alleggerire è il segreto perché il pubblico possa ricordare meglio battute e situazioni. Tuttavia, in alcuni casi la scelta degli attori mi è sembrata poco calzante. Poco da dire sul duo protagonista (Luca Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli), attori in erba ma la cui carica emotiva riempie alcuni vuoti recitativi evidenti. Ho trovato che Cecchetto (interpretato da Roberto Zibetti) sia stato dipinto come uno schizzato fuori di testa dallo sguardo luciferino. Anche la scelta dell’attore che interpreta Fiorello (Carlo Palmeri) mi è sembrata tutt’altro che azzeccata, anche semplicemente per l’altezza fisica dell’attore, che nella fiction è più basso dei protagonisti, e per il fatto che il personaggio di Fiorello sembra serissimo e quasi anonimo, mentre all’epoca era già ben conosciuto come dj e aveva inciso già due dischi.
Al di là di tutto, la serie resta un prodotto tutto sommato passabile, per la leggerezza di cui sopra e per lo spirito di amicizia, libertà e di riscatto che emana. E poi perché dimostra come per una volta la provincia vinca e riesca ad imporsi su stereotipi che regnavano trent’anni fa, e forse regnano anche adesso.

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...