Uno dei testi più antichi di ogni letteratura, attraversato, anzi, intriso, di dolcezza e cura, che rimanda a immagini legate alla bellezza che si fa carnalità, poesia e fecondità insieme. E’ il Cantico dei Cantici, un inno alla meraviglia dell’amore che si fa danza e libertà, tra astrazioni e concretezza. Un testo semplice, se lo si libera dalla complessità tipica del costrutto religioso. Prova a farlo Roberto Latini, attore, autore e regista romano, tra le espressioni più vive del teatro contemporaneo, vincitore del Premio Ubu 2014, già direttore del Teatro San Martino di Bologna, e fondatore della compagnia Fortebraccio Teatro. Il suo Cantico non riporta alla lettera le parole, ma trasmette intatta la sensazione e il sentimento che affiorano da queste pagine millenarie, in un gioco con il tempo, rispettoso e catartico insieme.

Abbiamo incontrato Latini alla vigilia del suo debutto con il Cantico dei Cantici al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, in anteprima nazionale, sabato 3 giugno alle ore 19.

Il Cantico dei cantici è un inno alla bellezza. Può essere un’idea rivoluzionaria per questi tempi in cui la religione e il sacro per alcuni sembrano essere addirittura depositari di violenza?
Come di fronte all’assoluto, credo ci sia bisogno di relativizzare. Per avere a che fare con la grandezza dobbiamo imparare cosa vuol dire essere piccoli. Il “Cantico dei Cantici” è un movimento dell’anima che tende alla bellezza. E la bellezza è rivoluzione.

Il Cantico è espressione di amore a tutto tondo, e restituisce dignità alla poesia in quanto parola pensata e scandita, quasi a voler testimoniare un diritto all’esistenza. Nel mondo di oggi ci sono troppe parole ma c’è poco silenzio, non trova?
Il teatro mi ha insegnato che le parole si misurano nella qualità del silenzio che riescono a produrre.

Nella società di oggi sembra che tutto abbia una data di scadenza. Chi fa teatro sembra essere un Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento. Cosa si può fare per avvicinare i giovani alla magia del teatro?
Tenersi nell’incanto. Tra platea e palco c’è un patto basato sulla disponibilità all’incontro, sulla possibilità che c’è tra ascolto e relazione. Si tratta di sentire l’occasione teatro, nelle sue altezze possibili, oltre quelle che siamo. Dell’immaginazione, sono sicuro,m ci possiamo fidare.

La cultura è catarsi, e libera da pregiudizi e inibizioni. Qual è il consiglio che si sentirebbe di dare a chi ci governa e dichiara di avere a cuore la cultura?
La cultura si è, non si fa. La cultura non è numeri e bilanci, non è voti e consenso, non è propaganda o meriti da attribuirsi, non è e non può essere campo di battaglia. La cultura è pensiero. Se non si costruisce quello, se non si tiene quello nella cura e protezione, non si cono altre possibilità.

Fra un secolo ci si ricorderà ancora del Cantico dei Cantici?
Se ce lo meritreremo, credo che il “Cantico dei Cantici” possa ricordarsi di noi.

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