“Cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono quelli di Roma, e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria e c’è lo Stato. Sono mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza.”
(Carlo Levi, “Cristo si è fermato a Eboli“).
Quanto segue è la semplice riproposizione di ciò che ebbi a scrivere dieci anni fa di questa entità quasi fiabesca – il paese che non c’è – e il fatto che giunti al 71° compleanno della Repubblica a me non sia sembrata datato non è motivo di conforto. Di “due Italie” si parlò prima del 25 aprile, e di “due Italie” continuiamo a parlare oggi.
A un’osservazione anche solo superficiale della società e della politica italiana, sembra che non si siano poi fatti molti passi avanti rispetto alle invasioni della penisola avvenute dal quarto secolo in poi, fino alla pace che i Longobardi stipularono con Bisanzio, nel 603, a suddividere l’Italia in due zone: la cosiddetta Romania (Calabria, Puglia, Sicilia, Sardegna, Corsica, Roma e il suo territorio, Ravenna e il nord delle Marche) sotto il controllo dell’impero bizantino d’Oriente, e la Longobardia, che comprendeva le terre a nord di questa.
L’introduzione, che ho voluto affidare ad una delle migliori espressioni della letteratura italiana nel dopoguerra, può essere forse buona premessa alla comprensione della nostra Storia e, segnatamente, di quel Mezzogiorno che ha sempre pagato amaramente arretratezze ed errori propri e violenze ed imbrogli altrui, a cominciare proprio dallo Stato Unitario che non colse nessun’istanza spontanea di unificazione dal Sud, ma decise, di fatto, di acquisire a sé quelle terre e di quelle genti. Mentre riflettevo sui contenuti di questo articolo, continuavo a ricordare i numeri del cosiddetto “banditismo”, stroncato definitivamente dall’esercito piemontese solo sessant’anni prima degli eventi trattati: il numero dei meridionali vittime di quella dimenticata guerra civile fu superiore alla somma dei caduti di tutti i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870.
Le vicende della Storia, poi, rimarcarono in più di un’occasione – e rimarcano ancora oggi – la differenza tra le due parti d’Italia: la nascita della Repubblica sulle rovine del fascismo, della monarchia e dell’occupazione tedesca ne evidenziò alcuni dei motivi più drammatici.
Assumendo la guerra di Liberazione a premessa della Repubblica nata dalla Carta Costituzionale, il biennio 1943-1944 costituì per il Sud un’esperienza radicalmente diversa rispetto a quanto avvenuto nelle regioni del centro – nord. Questo, però, non deve indurre la convinzione che nel Meridione ci sia stato il rifiuto di partecipare a vicende che non lo riguardavano, ma piuttosto sottolinea che la lotta condotta al Nord dal Comitato di Liberazione Nazionale, oltre ad unire forze vecchie e nuove nella lotta comune al fascismo e all’invasore tedesco, conteneva in sé le premesse politiche alla futura Repubblica. Qui, invece, la resistenza non ebbe lo stesso carattere organico e fu, di fatto, un insieme di rivolte spontanee al terrore tedesco che non implicavano un programma politico e non rivendicavano identità di sorta.
Nel settentrione, infatti, svolsero un ruolo fondamentale l’attesa degli Alleati, che avrebbero giocato il ruolo militare più importante nella Liberazione del Paese, la contrapposizione con la Repubblica di Salò, la collaborazione di questa alle pagine peggiori dell’occupazione tedesca, la leadership politica del PCI, che aveva formato nella clandestinità la propria organizzazione e controllava la maggioranza dei combattenti, il ruolo determinante della classe operaia urbana, che per sua natura sociale assegnava un’omogeneità al movimento che nel Sud non poteva essere raggiunta.
Quest’ultimo aspetto è rilevante non solo per la Guerra di Liberazione, ma per tutta la storia del Mezzogiorno, e qui potrà essere solo riassunto per sommi capi. Nel Latifondo meridionale i contratti agrari tra i proprietari e i contadini erano i peggiori che si sarebbero potuti immaginare, erano quasi sempre regolati su base individuale e spesso non erano neppure formalizzati, ma garantiti (si fa per dire) dalla parola del proprietario o del suo rappresentante. I latifondisti erano una delle classi dirigenti più squalificate del continente, che prediligeva l’assenteismo e affidava la gestione della proprietà a figure intermedie di varia natura, che capitalizzavano sulle spalle dei braccianti la propria posizione parassitaria di controllo. Tra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento, i contadini meridionali erano stati privati della parte che spettava loro tra le antiche terre demaniali e avevano perso addirittura il diritto di spigolatura, di pascolo e di accesso ai boschi.
In questa situazione la solidarietà tra loro era sostituita dalla continua competizione per ottenere le migliori fasce di terra sul latifondo, e dalla lotta per aggiudicarsi le poche risorse disponibili; a queste si associava la necessità di mantenere il migliore rapporto possibile con il proprietario e i suoi rappresentanti, e, in ultimo, nel 1865 si registrò per la prima volta in un documento ufficiale del Regno il termine Mafia, che rappresentava un sistema di difesa dei privilegi e di chi li rappresentava (i cosiddetti “gabellotti”) a sua volta espressione non di un fenomeno unitario ma, al contrario, di gruppi concorrenti che, nel tempo, si configurarono come unità di contropotere criminale che sostituiva istituzioni latenti o lontane.
Venne meno quindi la solidarietà orizzontale che si manifestò in pochissimi casi: con i Fasci Siciliani di fine secolo e tra i braccianti delle Puglie dopo il primo conflitto mondiale, grazie alla guida degli anarco – sindacalisti. Ben diversa la situazione del ceto operaio al nord: numeroso e concentrato nella lineare contrapposizione frontale col padronato, e con una lunga tradizione sindacale e di solidarietà alle spalle (l’esperienza di associazionismo e mutualità delle Società Operaie di Mutuo Soccorso).
Senza la forza e la compattezza di un gruppo sociale di riferimento e senza una classe dirigente che si divise, in quegli anni, in tendenze politiche disomogenee a protezione dei privilegi, quella del Mezzogiorno fu una liberazione essenzialmente militare, ad opera dell’esercito alleato, senza un importante movimento popolare e politico organizzato a supporto, e alla diversità dei soggetti “resistenti” fino a qui esposta si associava una situazione molto più ambigua anche dal punto di vista politico. Dopo l’otto settembre, infatti, Vittorio Emanuele Terzo riparò a Brindisi, e di lì diede vita alla breve esperienza del “Regno del Sud” dove tutta l’amministrazione pubblica lavorò all’insegna della continuità badogliana, frenando ogni istanza di rinnovamento reale.
Gli stessi partiti antifascisti del meridione stentavano ad assumere un profilo politico ed una forza organizzativa adeguata al bisogno e, anzi, all’interno di questi si affermavano soggetti come Democrazia del Lavoro, che si muovevano per il mantenimento dello status quo intorno a personaggi dell’antico notabilato prefascista. Il gruppo dirigente di quei partiti, quindi, non ebbe nessuna possibilità di “farsi stato”, risultato conseguito invece al Nord dal CLN, che giunse anzi a svolgere un ruolo importante nella defascistizzazione dell’apparato statale (prima che il processo fosse drasticamente frenato dall’arrivo delle truppe di Eisenhower e Montgomery), come ad esempio nella designazione dei prefetti e dei sindaci.
Questo non significa, però, come alcuni imprudentemente (o strumentalmente) hanno sostenuto, che ci fu un vento del sud contrapposto a quello del nord: anche nel mezzogiorno, dopo il 25 luglio, vi furono manifestazioni di giubilo per la caduta del fascismo, accompagnate alla speranza che con la caduta del regime finisse anche la guerra, ma la repressione badogliana colpì la partecipazione popolare. L’esempio più clamoroso avvenne a Bari il 28 luglio: il corteo, che si dirigeva verso il carcere da cui ancora non erano stati liberati i numerosi antifascisti detenuti, fu fermato dai militari davanti alla locale sede del PNF e negli scontri che ne seguirono le truppe del generale Roatta spararono contro la folla, uccidendo venti persone. Nel Meridione l’occupazione tedesca dopo l’otto settembre fu breve, intensa e feroce, e la popolazione diede vita a molti episodi di resistenza, intesa però come reazione al terrore tedesco (rastrellamenti di uomini, saccheggi, razzie di bestiame, distruzione sistematica degli impianti produttivi) rispetto al quale si impose la scelta della lotta armata come necessità contingente non finalizzata ad obiettivi strategici.
L’eroismo delle Quattro Giornate di Napoli, che consegnarono la città agli alleati, fu esempio calzante della caratteristica “civile” della resistenza all’invasore e, contemporaneamente, espressione della contraddittorietà del quadro politico e della profonda differenza rispetto all’Italia settentrionale. Esse nacquero come reazione ai rastrellamenti dei tedeschi, che internarono 18.000 uomini, all’ordine di sgombero di tutta l’area occidentale cittadina, alla sistematica distruzione delle fabbriche e del porto. Ebbero però anche un significato politico: la rivolta espresse inevitabilmente elementi di autorganizzazione, ma non fu possibile creare un comando unificato: il CLN di Napoli ritenne di non dovere accogliere la proposta di costituirsi in organismo insurrezionale con funzioni di governo provvisorio.
Dopo la nascita della Repubblica, la crescita successiva del decennio 50/60 non andò di pari passo con uno sviluppo economico paritario e un progresso civile di eguale forza: al permanere di forti disuguaglianze sociali e territoriali, si accompagnò invece la perdurante assenza di rapporto tra i cittadini e lo Stato, con il conseguente ulteriore radicamento della famiglia (in senso stretto ma anche in quello più ampio e preoccupante del termine), vissuta come presidio degli interessi individuali e ricovero di un’insoddisfacente collocazione sociale. La carenza di politiche pubbliche a sostegno dei bisogni collettivi rafforzò inevitabilmente questa tendenza, che già si era manifestata come dura resistenza del Sud agricolo all’invasione piemontese.
L’inevitabile conseguenza di questa concezione fu la crescente diffusione di pratiche clientelari che a loro volta l’avrebbero favorita e alimentata e di cui la classe politica repubblicana fu addirittura modello, concependo l’azione di sostegno dello Stato centrale come dispensa paternalistica di sussidi e prebende. Una pratica politica, insomma, per la quale il diritto si è presentato sotto forma di favore da scambiarsi con un altro favore – il voto – in una logica costante di “indennizzi” e ricatti, di mantenimento della diversità e della rinuncia, nascosta neppure troppo bene dalle pompose celebrazioni ufficiali, a qualsiasi pur fragile identità comune. La considerazione finale è quasi obbligata: date queste premesse, potrà mai esserci un solo Paese?