In occasione del terzo appuntamento della rassegna dedicata al cortometraggio, in programma a Cosenza, presso il Cinema San Nicola, dal 7 al 9 giugno, abbiamo intervistato Antonio Capocasale, vicepresidente dell’Associazione Culturale Laterale, che organizza l’evento 

Nell’era della comunicazione gridata, dell’apparenza a tutti i costi, qual è il senso di proporre una rassegna che dà spazio a espressioni artistiche attraverso un linguaggio ‘in controtendenza’ come quello del corto? Si può parlare di riscatto della cinematografia periferica?

Fondamentalmente crediamo che non sia sulla base quantitativa dei minuti o dei capitoli di spesa che si misura il cinema. Il corto continua ad essere una forma particolarmente frequentata da cineasti esordienti, pur se limitata nella circolazione/distribuzione. Questo perché generalmente lo si intende solo come una economica “prova generale” in vista di altri formati, come palestra o contrazione di un “lungo”. Al contrario, tra i tanti cineasti sparsi per il mondo che andiamo scoprendo da tre anni, e più orientati a una ricerca sul linguaggio, il corto non è assolutamente concepito come opera minore, ma come forma con un suo potenziale specifico, più congeniale alle proprie esigenze e ricerche espressive del momento. È un po’, se vuoi, un modo “Laterale” di pensare il corto. Come nessuno si sognerebbe di dire che un  poesia breve di Ungaretti o uno haiku giapponese siano “meno poesia” di opere con più versi, così non è in gioco, nel corto, una intensità diminuita quanto alla durata, ma semplicemente concentrata. Da questo punto di vista c’è indubbiamente un “riscatto” della forma breve consapevolmente adottata, intorno alla quale, come Festival, ci si propone di creare condivisione, scambio, discussione. Poi, come abbiamo avuto modo di registrare e dire in questi anni, spesso l’essere “periferico” è essere nuovi rispetto a un centro, magari stagnante, consolidato, dove occorre mantenere lo status quo, stare sulla difensiva. Storicamente è invece nelle periferie degli imperi, lontano dai centri amministrativi di potere consolidato, che si sono prodotti conflitti o scambi, quando magari due popoli stavano faccia a faccia, valutando se competere o cooperare, ibridarsi, trarre vantaggi reciproci gli uni dagli altri, far di sé qualcosa di nuovo. Allo stesso modo, per noi, ciò che si gioca ai confini è di gran lunga più dinamico, interessante, rispetto a modi in certo modo consueti, centrali, di fare cinema. Tenendo conto che il “centro” spesso non è rappresentativo di nuove ricerche, estetiche o produttive, di tanti cineasti, forse perché deve mantenersi uguale a se stesso, col rischio di atrofizzarsi, chiudersi al nuovo e morire.

"Ciccillo sopravvisse", di M. Salvezza
“Ciccillo sopravvisse”, di M. Salvezza

Quella in programma quest’anno è la terza edizione del festival. Quali saranno le conferme e quali le novità di quest’anno rispetto al passato?

C’è sicuramente la conferma di una formula che ha funzionato e che, a nostro avviso, si rivela la più adatta per gli obiettivi che perseguiamo, le esigenze di autori e pubblici. Il festival è internazionale e non competitivo, intanto. Proponendoci di incentivare la condivisione e la scoperta di nuovi possibili modi di intendere e fare cinema, riteniamo che spesso l’attribuzione di un premio faccia dimenticare non solo i “perdenti” ma anche il vincitore stesso. Non solo è una logica penalizzante, ma poco congeniale per il tipo di lavori che proponiamo, per i quali premiare l’essere uno “più artistico” di altri – magari con una targa che poi si posa sulla mensola di casa – non ha senso. Si compete con se stessi, semmai, come abbiamo detto in questi anni, per immaginare del nuovo. E ci si premia nella condivisione quanto più libera possibile, e a tutti aperta. Pertanto il festival è anche a ingresso gratuito. Inoltre, anche quest’anno avremo ospiti in sala alcuni autori, italiani e non, disposti a dialogare col pubblico del proprio lavoro. Quanto alle novità, in una fase pre-festival, si è dedicato intanto più spazio all’approfondimento critico dei lavori in programma, grazie al blog il tempo impresso curato da Mattia Fiorino, che da qualche tempo sta pubblicando articoli sui singoli corti. È un discorso che si affianca a quello, diverso, realizzato con la rivista di cinema Lo Specchio Scuro, che già lo scorso anno ha fornito dei contributi teorici sui lavori presentati. Il tutto, nella volontà di creare ulteriore discussione e attenzione intorno a quanto di importante è in gioco nei film che proponiamo. Inoltre, nella fase di visione e selezione dei lavori, abbiamo deciso di costruire il programma in maniera tale da incentivare, per quanto possibile, una fruizione attiva e divertita, volendo. L’obiettivo era strutturare il programma come una entità dialogante, sia col pubblico, sia a livello degli stessi film, come se parlassero e rispondessero gli uni agli altri. Negli anni precedenti ci siamo spesso resi conto a posteriori che alcune opere, per quanto estremamente diverse tra loro a livello stilistico, quasi parlavano, appunto, l’una con l’altra, sia per le tematiche in gioco, sia per tecniche di realizzazione, ecc. Quest’anno ciò è emerso in maniera più forte ed evidente, e pertanto abbiamo strutturato il programma affinché ciascuno spettatore potesse rintracciare, immaginare, secondo il proprio gusto e le proprie sensazioni, delle possibili connessioni tra i vari film, come facendo mentalmente una propria proiezione “montandoli” insieme. Anche per questo abbiamo dato tre titoli alle tre serate del festival in base a suggestioni accomunanti i vari lavori: metà corpo metà ombra; dall’esilio; luogo e impulso. Non più che tracce per la fruizione, piccole bussole.

Un frammento di "Blind body", uno dei corti che hanno partecipato al Festival.
Un frammento di “Blind body”, uno dei corti che hanno partecipato al Festival.

La rassegna ospita opere italiane e straniere. È possibile riscontrare affinità e differenze tra le sceneggiature a seconda della propria provenienza? In altri termini, ha senso parlare di identità espressiva forte di un nazionalismo socioculturale?

Ogni film Laterale è per forza profondamente diverso dagli altri quando un regista si chiede qualcosa come “Bene, che posso far dire di nuovo al cinema? Dove lo porto, oggi?” Ecco, è una diversità non data dalla provenienza nazionale. Se le risposte a questi interrogativi variano come variano film e autori, di per sé le domande comuni descrivono un campo condiviso di ricerca, che però ciascuno interpreta e persegue liberamente a proprio modo. Direi quindi che c’è sicuramente una affinità di pratiche o tecniche, che accomunano lavori realizzati in Italia come in Portogallo o negli Stati Uniti (penso ad esempio al rimontaggio di filmati d’archivio preesistenti, o al trattamento manuale-artigianale dell’immagine), ma di cui ciascuno si serve liberamente, in modi nuovi. Credo che in questo cinema emergano senz’altro delle identità culturali, ma mai declinate in senso esclusivamente nazionale. Per conto nostro, preferiamo parlare di espressività artistica e culturale in termini di umanità più che di cittadinanza. Al limite, più che con l’idea di “nazione”, alcuni lavori hanno a che fare con quella che Ernesto De Martino chiamava “patria culturale”, che non è l’entità statale amministrativa, ma ciò che si chiama e percepisce come “mondo” come propria realtà quotidiana, in cui opera in base al proprio orizzonte culturale, e presuppone che la sua idea sia più o meno condivisibile da altri. Penso inoltre che a questo proposito siano significative due delle frasi che quest’anno definiscono un po’ lo spirito e l’attitudine dei lavori della selezione: “All’internazionale dell’invisibile”, “A chi fa e cerca film esuli”. Questo perché riteniamo che la cultura, che di per sé dovrebbe essere circolante, accomunante (e dunque non erudizione museale di pochi), ed è una cosa che si coltiva nel tempo (la radice etimologica è la stessa di “colere”, coltivare), quindi non data una volta per tutte, ma in continua – si spera – evoluzione,  e si mette e crea discussione. Da questo punto di vista è assolutamente antitetica ai nazionalismi e sovranismi esasperati dello scenario politico contemporaneo, al contrario improntati solo a una idea di immunizzazione e protezionismo identitari. Come se anche l’identità, poi, fosse qualcosa di dato una volta per tutte nella storia, mai suscettibile di cambiamenti: presupposto fallace come pochi. È ancora, se vuoi, la contrapposizione tra centro stagnante e periferia dinamica.

Qual è lo stato di salute del cinema italiano? L’Italia di oggi incoraggia i nuovi autori o li penalizza?

Credo che dal punto di vista artistico, i primi venti anni del 2000 abbiano visto una stagione artisticamente molto significativa con l’affermazione di un considerevole numero di cineasti estremamente validi, spesso vicini a uno sguardo documentario e magari operanti con budget relativamente ristretti. Di questo cinema particolarmente significativo si sono accorte spesso più la distribuzione e la critica estera, meno quelle italiane. Il cinema italiano più interessante ha nelle nostre sale una circolazione ancora limitata o nulla, mentre all’estero registra maggiori consensi, anche di pubblico e non solo nel circuito cinefilo d’essai. A livello produttivo si tratta di un cinema che non ha vita facile: è ancora imperante, in Italia, il sostegno alla realizzazione e circolazione di film (commedie o drammi in interni) che abbiano incassi più o meno sicuri “in casa”, per altro con scarsa lungimiranza, perché poi raramente sono capaci di varcare i confini con altrettanto successo. Per quanto riguarda i giovani autori credo sia necessario lavorare ulteriormente, e con altri presupposti, forse, dal momento che anche i provvedimenti di legge in questo senso sembrano fortemente orientati a incoraggiare il lavoro di autori e produttori già consolidati (last not least la nuova Legge Cinema del 2016, contemplante, tra l’altro, la brutta definizione di “film difficili” senza chiarire per chi, perché, in base a cosa…). Anche semplicemente dando un’occhiata alle domande degli anni passati prima della nuova legge, per l’accesso ai contributi statali, ci si rende conto che in molti presentano a più riprese le loro proposte per più anni, modificando via via il progetto, sia come gestione economica sia artisticamente, per essere puntualmente scavalcati da autori e produttori affermati. La stessa qualifica di “giovani autori esordienti” è piuttosto ambigua anagraficamente, se riferita a registi che realizzano il primo lungo a quarant’anni e passa e impiegano poi ancora altro tempo per poter finalizzare l’opera seconda.

"O Meu Pijama", di Maria Ines Gonçalves
“O Meu Pijama”, di Maria Ines Gonçalves

Forte di un’esperienza ormai triennale, è giusto che il Laterale Film Festival pensi a nuove sfide. Quali saranno quelle dei prossimi anni?

Sicuramente il proposito è configurarsi maggiormente come luogo di ricerca, sperimentazione, discussione, di riavvicinamento tra pubblici e autori. Sono tutte domande piuttosto forti, e che a nostro avviso non hanno trovato adeguata risposta. Offrire ancora più spazio, e magari anche più tempo, quindi, diversificando e ampliando la tipologia di offerta culturale. In questo senso proseguiremo certamente un discorso intrapreso in questi anni cercando di far viaggiare un po’ il Laterale, con degli eventi itineranti. Abbiamo dato vita a una serie di piccoli “Laterale On Tour”, infatti, in altre città e altri contesti (l’Apollo Undici e la Biblioteca Quarticciolo a Roma, Kinetta Spazio Labus di Benevento) in cui abbiamo presentato nuovamente una selezione di alcuni film visti a Cosenza, e dialogando con altri pubblici, diversi dal nostro, e scoprendoli estremamente curiosi, ricettivi. Smentendo l’idea che i pubblici siano sciocchi e i film difficili.

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