Stefania Sandrelli, Gary Oldman, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari e l’esordiente Celeste Dalla Porta in un viaggio tra l’onirico e il reale alla riscoperta della propria identità
“Il cinema racconta i suoi mondi, le sue storie, i suoi personaggi, con immagini. La sua espressione è figurativa, come quella dei sogni“. Lo scriveva mezzo secolo fa Federico Fellini nel suo libro “Fare un film“. L’espressione figurativa è quindi parente stretta dell’onirico, di quella dimensione sospesa che offre allo spettatore un gioco ammaliante e seduttivo, fatto di sguardi. Quello di chi sta dietro alla macchina da presa, che racconta per immagini una storia che ha già sceneggiato nella propria mente, e quello di chi sta davanti allo schermo, che si immedesima nello sguardo del regista per coglierne quante più sfumature possibili. Con “Parthenope“, il suo decimo lungometraggio, Paolo Sorrentino compie un’azione destrutturata per immagini. Un gioco della memoria del proprio luogo del cuore, Napoli, immaginata come un viaggio per immagini della vita della protagonista, battezzata Parthenope in omaggio alla città che l’ha concepita e partorita, e che nasce dal suo mare, come Venere, in una calda mattina del 1950. La protagonista, interpretata negli anni della gioventù dall’esordiente Celeste Dalla Porta, è una creatura forte e delicata al tempo stesso, una ragazza di elevata intelligenza chiamata alla vocazione della bellezza, ma anche a quella del dolore. Entrambi, bellezza e dolore, si intrecciano nella sua esistenza, fatta di incontri e di malinconie, di desideri e di incubi, dove l’elevato tendere alla perfezione scade nel grottesco e qui viene trasfigurato in una rinascita che lambisce l’eterno. Parthenope è Napoli stessa, che si bagna nel proprio mare e resta affascinata dalla propria grandezza, ma che in un excursus storico che affronta stagioni diverse (gli anni dal 1973 al 1975, poi il 1982 e infine la chiusura nel 2023) si sporca con il sangue della terra e della sua corruzione.
Il plot narrativo del film viaggia tra figure sospese a metà tra realtà e fantasia. C’è Achille Lauro, ‘o comandante, quello delle mani sulla città, padre padrone nella Napoli di metà Novecento, datore di lavoro del padre della protagonista e suo padrino, grazie al quale Parthenope conosce gli agi della vita borghese. C’è il fratello maggiore Raimondo, creatura fragile e indifesa, che subisce il fascino della sorella fino a rimanerne totalmente vittima. C’è Sandrino, innamorato da sempre della ragazza, in un rapporto che non riesce mai a decollare e destinato a infrangersi sullo scoglio immaturo della dissolvenza giovanile. C’è il mondo effimero dell’arte, esplicato attraverso gli incontri con personaggi evanescenti. Quelli reali, come lo scrittore John Cheever (interpretato da un intenso Gary Oldman), che nel paradiso di Capri resta sedotto dalla bellezza di Parthenope, ma alla quale non vuole sottrarre neanche un minuto con la propria ombrosa esistenza. Quelli inventati, come Flora Malva (una magica Isabella Ferrari), diva del passato che vive nel ritiro dorato della propria dimora ed è costretta a coprirsi il volto con una maschera per via di un’operazione malriuscita di chirurgia estetica. E quelli verosimili, come la grande attrice Greta Cool (che Luisa Ranieri restituisce in una maschera imbruttita di sguaiatezza e volgarità), facilmente identificabile con Sophia Loren, che dopo essersi lanciata in un’invettiva pubblica contro Napoli e i napoletani consiglia alla protagonista di abbandonare i propri sogni artistici. C’è poi il potere, nelle sue diverse facce. Quello, come nel personaggio di Lauro e in quello del magnate in elicottero (che vorrebbe ricordare Gianni Agnelli?) che cerca di sedurre Parthenope, declinato nella maestosa esaltazione della propria ricchezza, e quello del sottobosco del grottesco e del blasfemo, attraversato dalla malavita incarnata dal dominio che si fa sangue e corruzione, nei vicoli di Spaccanapoli come nel Duomo, e il tesoro di San Gennaro e chi lo gestisce (il cardinale Tesorone, un orrido e perfetto Peppe Lanzetta) rappresenta quel legame tra superstizione e oscenità che rende la religiosità facile preda nelle fauci del potere profano. Infine, c’è il rigore della moralità etica, incarnato dal professor Devoto Marotta (un cupo e magistrale Silvio Orlando), docente di antropologia che si rivelerà essere l’unico vero maestro di Parthenope. Da lui la ragazza imparerà il segreto di vivere il dolore con il distacco apparente della grandezza, senza privarsi della propria identità, pur accogliendo in sé i segreti da custodire gelosamente e ai quali aggrapparsi per sempre, da lontano, perché “non si può essere felici nella città più bella del mondo“.
È impossibile sintetizzare in due parole ogni film di Sorrentino, e certamente “Parthenope” non fa eccezione. Una ‘grande bellezza’ declinata in napoletano, raccontata con maestria da immagini che regalano suggestioni infinite, da dialoghi mai scelti a caso, da personaggi costruiti a tavolino ma che regalano un incastro emozionale fatto di perfezione allo stato puro. Il senso del vissuto riecheggia forse con minor disincanto rispetto al film del 2013 che conquistò l’Oscar, e ciò per l’evidente coinvolgimento ancestrale che accompagna l’autore e regista in un viaggio alla riscoperta delle proprie radici, fatte di mistero e bellezza, di malinconia e disincanto, di coraggio e rassegnazione, di identità e coraggio. Perché le origini restano parte della propria essenza, anche se si tenta di nasconderle e per sfuggire al dolore ci si allontana dalla propria terra per quarant’anni. Come fa la protagonista, che da giovane docente sceglie di rimanere a Trento fino alla pensione. Ma accanto alla rassegnata considerazione (“Forse è stato meraviglioso essere ragazzi… è durato poco“) che la Parthenope ormai adulta (Stefania Sandrelli, dolorosamente magnifica) fa a se stessa tornando a Capri, c’è la riscoperta di come sia ancora piacevole meravigliarsi. Sorrentino corre il rischio di raccontare la propria città attraverso le sue mille contraddizioni, sfidando ogni luogo comune e attraversando il confine tra reale e possibile. Nel personaggio di Parthenope è racchiuso il cuore dell’identità napoletana, quello spirito di indipendenza in cui vivere e perdersi, per raccontare l’epicità dell’esistenza e il suo dilatarsi nel tempo. Per riprendere la frase di Celine (“Certo che è enorme la vita, ti ci perdi dappertutto”) a inizio pellicola, come in un labirinto il cui finale, per parafrasare la canzone di Riccardo Cocciante che fa da colonna sonora al film, “era già tutto previsto“.
PARTHENOPE (Italia, 2024, 136′, Drammatico). Regia di Paolo Sorrentino. Con Celeste Dalla Porta, Stefania Sandrelli, Gary Oldman, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Peppe Lanzetta, Isabella Ferrari, Giampiero De Concilio, Silvia Degrandi, Alfonso Santagata, Lorenzo Gleijeses, Dario Aita, Alessandro Cucca, Brando Improta, Paola Calliari, Biagio Izzo, Nello Mascia, Daniele Rienzo. PiperFilm. In sala dal 24 ottobre 2024.
Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…