Pulp fiction: il tipico film che tutti hanno guardato e tutti guarderanno sempre. Lo si apprezza generazione dopo generazione e nella maggior parte dei casi il motivo non è neanche chiaro fino in fondo.
Gli sviluppi a tratti assurdi della trama ideata da Quentin Tarantino ricalcano in modo ostentato dinamiche a metà tra il reale e il surreale. Nel film, la semplicità spudorata dei dialoghi permette di palesare con schiettezza tematiche particolarmente delicate che fino a quel momento erano state mostrate sullo schermo con estremo riguardo. È proprio l’abilità con la quale le parole vengono incastrate nelle battute che ci porta a ridere guardando scene spietate o ascoltando battute su fragili temi razziali: una reazione significativa che segna l’abbattimento dei tabù del tempo. Lo spettatore è mosso dall’acuta banalità di ciò che ascolta, puntualmente aspetta la fine di una frase che non arriverà mai perché quanto viene detto è tutto ciò che serve, nessuna morale, nessuna trovata lontanamente brillante, perspicace o poetica. Si pensi a ogni volta in cui Samuel L. Jackson apre bocca e sembra fare strada a un tono perentorio, è in quel momento che inizia a parlare non dicendo nulla di rilevante. Tale tecnica dialogica era già presente ne Le iene, ma in Pulp Fiction viene ulteriormente affinata. Una delle forze motrici del film è l’assenza di scene di raccordo narrativo, nessuna pausa di respiro, ogni sequenza è marcata da un alto livello adrenalinico o da un improvviso evento destabilizzante. Nel mezzo del film arriva una sequenza di ballo che ormai fa rabbrividire tutti i cinefili, un momento lungo pochi minuti intriso delle note più iconiche di Chuck Berry: Mia Wallace e Vincent Vega, nel creare passi di un twist discutibile, danno vita a un tratto di storia del cinema, è così evidente che sembrano quasi saperlo nel momento in cui accade. Per Uma Thurman e John Travolta questa scena segna uno dei loro apici attoriali più elevati; ma anche in questo caso, l’iconicità non è circoscritta a una sola scena e nell’immaginario comune restano impressi anche un’overdose raccapricciante; un monologo su un passo della Bibbia recitato con una pistola in mano e un’inconcludente chiacchierata davanti a un frappè contaminata da un’unica perla di saggezza sul valore del silenzio tra sconosciuti e conoscenti. Ogni attimo di aspettativa dello spettatore è subito soppiantato da contrasti ironici che combinano black humor, espressioni colorite e dialoghi al limite tra l’improbabile e il credibile. Il cast totalmente tarantiniano dà vita a una concatenazione perfetta di temperamenti opposti che convivono in un’armonia che inspiegabilmente non risulta neanche forzata.
È un film temerario girato da un regista sregolato che non ha interesse nel ricreare gli equilibri narrativi di quegli anni ma deciso a crearne di nuovi e per quanto azzardata possa sembrare come scelta, una pellicola che riesce a fondere intrighi paralleli composti da ben dieci storie dissonanti, è una pellicola necessariamente intrisa di tecnica e di un ecclettismo apparentemente fortuito ma accuratamente studiato. I premi ottenuti dal film nel 1994 ne sottolineano il successo ma ad oggi risultano accessori rispetto all’eterno favore di pubblico e all’eredità culturale che Tarantino ha lasciato al cinema.

PULP FICTION (Usa, 1994, Drammatico, 150′). Regia di Quentin Tarantino. Con John Travolta, Samuel L. Jackson, Tim Roth, Amanda Plummer, Eric Stoltz, Bruce Willis, Ving Rhames, Uma Thurman, Rosanna Arquette, Harvey Keitel, Phil LaMarr, Maria de Medeiros, Peter Greene, Frank Whaley, Alexis Arquette, Paul Calderon, Christopher Walken, Quentin Tarantino, Duane Whitaker, Burr Steers, Bronagh Gallagher, Susan Griffiths, Steve Buscemi, Angela Jones, Brenda Hillhouse.

Di Viviana Punella

Appassionata di cinema, teatro e letteratura, ha studiato a fondo Christian Metz e la semiologia nella settima arte. Ha sempre una penna con sé e porta la sua travolgente curiosità in giro per l’Europa