Abbiamo intervistato lo storico bassista degli Stadio, che vanta collaborazioni eccellenti, da Conte a Dalla, a Vinnie Colaiuta. A breve uscirà con un progetto solista 

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Roberto Drovandi ha iniziato la sua carriera come bassista di Paolo Conte (Foto Alessandro Sassoni)

Tra il ricordo degli esordi e la consapevolezza della maturità, Roberto Drovandi racconta il suo amore per la musica. Una passione autentica e poliedrica che cerca sempre nuove forme per esprimersi.

La recente vittoria degli Stadio a Sanremo corona il tuo lungo sodalizio con la band. Qual è il segreto di questa longeva collaborazione?

Sicuramente, come in una coppia, quando si sta insieme da tanto tempo ci sono degli alti e dei bassi. Ma la cosa importante è dialogare, parlarsi e trovare sempre un punto d’incontro. Noi stiamo insieme da tanto tempo anche perché l’alchimia che si è creata tra noi quattro è ormai indissolubile. Abbiamo trovato anche un nostro modo di dialogare musicalmente che credo sia unico. Non ho mai avuto con altre persone questo tipo di feeling e questo tipo di alchimia sul palco.

Sei entrato nel mondo della musica molto giovane e a soli diciassette anni hai iniziato la tua carriera da session man. C’è qualcuno a cui pensi con gratitudine quando ti guardi indietro?

Sicuramente sono grato a Paolo Conte, con cui ho aperto le danze e ho iniziato il mio percorso da professionista quando non avevo neanche diciotto anni. Il primo tour che ho fatto è stato tra l’81 e l’82 e probabilmente ero il bassista più giovane d’Italia in quel momento. Oltre a Conte sono riconoscente anche a Luca Carboni, con il quale ho intrapreso un altro “viaggio” durato diversi anni. Poi ho incontrato anche tanti altri artisti, da Eugenio Finardi e Max Pezzali, con i quali ho avuto delle bellissime esperienze musicali. Ognuno di loro mi ha regalato qualche cosa e spero di aver fatto altrettanto. Su tutte queste esperienze ho costruito il mio background musicale e ho imparato molto. Continuo tuttora questo percorso. Io non mi sento arrivato solo perché suono da tanti anni. La musica è un percorso continuo nel quale non si finisce mai di imparare.

Sul tuo sito ufficiale c’è una sorta di diario, “Diario di Dro”, nel quale hai deciso di immortalare, attraverso le canzoni, alcuni dei momenti più significativi della tua vita artistica e personale. Se ad esempio ti dicessi: 1997, “La forza dell’Amore”, quale immagine ti verrebbe in mente?

In primis quella dell’incontro con un caro amico, ovvero Fabrizio Consoli, peraltro autore di quel brano. E poi soprattutto il ricordo della collaborazione con Eugenio Finardi, che mi ha portato in studio, dove ho avuto l’onore di poter suonare con il batterista Vinnie Colaiuta. Quest’ultimo mi ha fatto capire molte cose su cosa significa essere musicista e su come i grandi sanno affrontare la musica. Lì mi sono reso conto realmente che si poteva suonare come immaginavo da ragazzino, quando ascoltavo i dischi dei mostri sacri, dai Led Zeppelin ai Weather Report. Ho capito che bisogna suonare con il cuore, con l’anima. Bisogna darsi alla musica completamente per creare qualcosa di bello.

Dopo tanti anni di carriera hai deciso di intraprendere una svolta solista parallela agli Stadio e a breve uscirà il tuo album..

Sì…Sarebbe dovuto uscire tra aprile e maggio ma in seguito alla vincita degli Stadio al Festival di Sanremo (cosa inaspettata!) ho dovuto posticipare l’uscita, che penso avverrà tra settembre e ottobre. In realtà è un album che intraprende un iter simile al “Diario di Dro”, una sorta di racconto del mio percorso musicale iniziato trentacinque anni fa, quando verso i quindici, sedici anni ho iniziato a suonare da professionista. Un percorso che va avanti tuttora che ho appena compiuto cinquantun anni. Direi che questo lasso di tempo  è relativamente breve, è un battito di ciglia nella vita…Però ho pensato che fosse il momento di “dire la mia”. Questo mio progetto, va da sé, è parallelo al discorso Stadio e non intende in nessun modo “intaccare” il lavoro che faccio da tanto tempo con la band.

Nel singolo “Shake up”, che anticipa l’uscita del disco, si fondono sonorità funky, rock e fusion. In te sembrano convivere più identità musicali…

Sicuramente ho dentro questo tipo di sensazione musicale e credo che uno debba esprimersi liberamente per riuscire a dare qualcosa e a comunicare. Io amo tutta la musica. Certamente c’è un genere in cui mi identifico meglio quando suono perché mi rappresenta di più, come il rock e il funky.. Ma amo anche il jazz e la classica e credo che qualsiasi cosa, se fatta con passione, può essere percepita da tutti . Io miro a questo, a fare qualcosa che possa arrivare e che possa piacere. Ciò che fa la differenza è la forza, l’energia e la passione. Il genere, in questo discorso, c’entra poco. L’energia la puoi trovare anche in una ballata o nel brano di un grande jazzista come Miles Davis! Ciò che conta davvero è il modo in cui ti esprimi.

"Primi a Sanremo con gli Stadio: che bella soddisfazione!" (foto Daniele Barraco)
“Primi a Sanremo con gli Stadio: che bella soddisfazione!” (foto Daniele Barraco)

Tu hai due figli. In che modo li hai fatti accostare alla musica? Cosa si ascolta a casa tua?

Ho due gemelli di tredici anni, un maschio e una femmina. Mia figlia ascolta Ariana Grande, come tante ragazzine della sua età, però è molto curiosa, come il fratello, verso ciò che non conosce . Di recente le ho fatto ascoltare i Beatles, un multitraccia con le sole voci. Ma capita anche che si incuriosiscano per un disco di musica classica. Personalmente non li forzo e non dico loro di suonare nessuno strumento. Ogni tanto vengono nel mio studio e tirano una corda del basso o strimpellano la chitarra e poi se ne vanno. Oppure mi chiedono: “Ma che cos’era quel brano che ascoltavi prima? È bello!”, poi magari è un pezzo dei Led Zeppelin, dei Weather Report o dei Deep Purple. È emozionante vedere gli occhi di un bambino che si illuminano per una particolare melodia o per un brano che lo ha colpito. In quei momenti riprovo la stessa sensazione di quando ero bambino io e mi rendo conto che certe opere hanno una bellezza universale. Io, ad esempio, sono un beatlesiano incallito e quando ascolto “Golden Slumbers” sono sempre rapito come se fosse la prima volta..Per me è come ascoltare Mozart, perché alla fine tutti i grandi artisti parlano con l’anima.

Il tuo interesse per il futuro della musica italiana e per le “nuove leve” è testimoniato dal fatto che nel 2013 hai fondato un’etichetta indipendente, la Twins104 Records, per dare visibilità ad artisti che faticano a farsi conoscere, com’è nata quest’idea?

Il nome deriva da 10.4 che è la data di nascita dei miei figli. L’ho dedicata a loro nel 2013, quando avevano dieci anni. Questa etichetta può essere classificata come una vanity label più che un’etichetta vera con un portafoglio da poter investire. Ho un bel team che fa parte di questo progetto e da parte mia la volontà di far pubblicare o di aiutare a far conoscere quegli artisti che non riescono o non sono riusciti, attraverso le major, ad avere un aggancio, ad essere distribuiti o semplicemente prodotti. Ho incontrato degli artisti veramente bravi a cui nessuno apriva la porta. Ricevo regolarmente due o tre proposte alla settimana di gruppi o solisti che fanno della bella musica. Molti di loro hanno delle ottime idee ma magari poche risorse. Io ascolto e faccio tutto quello che posso per aiutare gli artisti italiani talentuosi che hanno poca visibilità, perché sebbene non siano popolari rimangono artisti a tutto tondo.

Com’è conciliabile, a tuo avviso, la crisi del mercato discografico e del supporto fisico con la possibilità, per una piccola etichetta, di costruire un profitto sulla musica emergente?

La cosa che mi interessa principalmente non è il profitto, in realtà. Sembrerò matto ma mi interessa maggiormente il lato artistico, perché credo che a volte il profitto distrugga l’arte e faccia fare delle scelte sbagliate. Io penso prima alla parte artistica, se c’è quella è già un bel passo. Poi con internet e la possibilità di fare dello streaming,  possiamo già dimenticarci del download così come della vendita dei dischi. Un discorso diverso va fatto per il vinile, che invece è ancora apprezzato e collezionato. Infatti cercherò di fare una stampa in vinile del mio progetto senza realizzare nemmeno il cd, perché alla fine ciò che importa è diffondere la musica. Se poi qualcuno vuole avere un ricordo del mio progetto o degli artisti della Twins 104,  il vinile è sicuramente qualcosa che resta, è come un bel libro, è da leggere, si può autografare ed è più grande. Tornare all’epoca del vinile, in un certo senso, sarebbe davvero bello.

Che consiglio daresti a chi, seguendo il tuo esempio, vorrebbe fare della musica il proprio mestiere?

Per me la musica è stata ed è una passione e una missione. Non riuscirei a fare altro. Io sin da bambino sognavo di diventare un professionista, di suonare sui palchi, in giro per il mondo. Il consiglio che darei a chi ha lo stesso sogno e la stessa passione è quello di studiare, di applicarsi tanto e di perseverare, di non abbattersi per via dei risultati negativi. Io stesso ho avuti tantissimi momenti di difficoltà, soprattutto a livello caratteriale nel rapportarmi con lo show business, però alla fine sono riuscito a fare qualcosa. Vivo di musica e continuo a vivere di musica a questa età. Penso quindi che il consiglio migliore sia di andare avanti con determinazione e con passione.

ROBERTO DROVANDI – SHAKE UP

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