In un futuro incognito e difficile da decifrare, tre figure si muovono meccanicamente. Sono un uomo in attesa di una promozione, una donna che lavora come macchina parlante e un cane dalle sembianze umane, chiamato a dare piacere. Un triangolo con più di tre punti, che si dipanano in relazioni basate sulla dipendenza e sul potere, certo, ma dove riesce persino a far capolino il sentimento. Una realtà artefatta, tra felicità e solitudine, che fa da scenario a “The speaking machine“, il lavoro dell’autrice spagnola Victoria Szpunberg, che venerdì 22 novembre sarà in scena al Teatro Italia di Cosenza nell’adattamento a cura della Compagnia Ragli, per la regia di Rosario Mastrota, tra i fondatori della compagnia. Lo spettacolo sarà la seconda tappa della stagione teatrale 2019 del Progetto More, che da anni, grazie all’impegno di Scena Verticale, porta nel capoluogo bruzio il meglio della drammaturgia contemporanea. A pochi giorni dalla rappresentazione cosentina, abbiamo incontrato Rosario Mastrota, al quale abbiamo rivolto alcune domande.  

“Giorni in cui non sembreremo umani, ma ancora sapremo come essere tristi”. La frase che leggiamo nelle note di presentazione dello spettacolo ci spiazza alquanto. La tristezza allora è un sentimento talmente potente da superare l’essere umano e sopravvivergli?
La locuzione a cui fai riferimento Victoria l’aveva scritta in una delle didascalie di presentazione del testo. Ci è subito balzata all’occhio, ha rotolato nelle nostre menti nella primissima fase del lavoro ed è diventata la frase chiave del senso dello spettacolo oltre che il sottotitolo. È una frase di una potenza disturbante perché, a mio avviso chiaramente, si specchia con tutto quello che siamo o che siamo diventati. Oggi siamo soli, ognuno di noi lo è. Siamo una solitudine che si inquadra nel riflesso dello smartphone: da lì scoviamo, scrutiamo, sentenziamo e (addirittura) gioiamo. Ecco, forse pur essendo ancora umani forse così non lo siamo poi fino in fondo, stiamo diventando qualcosa di diverso, altri. Eppure riusciamo ancora, in questa solitudine, a cascare ancora più nel profondo ed è proprio lì che riusciamo ad ascoltare veramente quello che siamo realmente. Il bordone che fluisce nelle trame di The Speaking Machine prova a delineare le solitudini dei tre personaggi, completamente diversi l’uno dall’altro, isolandone, appunto, quel senso profondo di cui ti dicevo prima. Un umano e due macchine-umane: non è fantascienza, affatto, si tratta di realismo puro. Realismo magico, Kafka insomma. Le tre anime dei personaggi trasudano inquietudine, amarezza e decadenza. Gli umani che fanno le macchine per sopravvivere in mezzo agli altri umani: è un paradosso.

NoteVerticali.it_Compagnia_Ragli_The_Speaking_Machine_1La dinamica dei rapporti presente all’interno dello spettacolo descrive una realtà che, rispetto al presente, evolve in un futuro post-tecnologico, che aliena e divide. Più che di evoluzione, allora parleremmo di involuzione. E’ d’accordo?
Sì, ma preferisco decadenza a involuzione. Certo, allargando la visione al contemporaneo forse ci sarebbero molti cattivi esempi di involuzione ma per lo spettacolo preferisco attingere poeticamente alla visione dell’autrice che disegna lo spettacolo in un futuro non definito, privo di interventi tecnologici (alla Black Mirror) ma riempito di sensazioni e turbamenti umani. Valeria (la protagonista, la Macchina) è una donna in carne ed ossa, non ha nulla di meccanico, così come il Cane che dona piacere. La dinamica dei rapporti è molto semplice: ogni personaggio è una necessità per l’altro, in un circolo vizioso (un triangolo) di emozioni che necessariamente sono proprie dell’essere umano. La routine, il bisogno, la privazione della libertà sono i sentori di un marchingegno – il corpo umano – che comincia a dare segnali di malfunzionamento. Ma non c’è elettronica, quello che non funziona è il cuore, le emozioni, la testa e per rimediare si prova a ripararsi: reazione o sconfitta. Non ci sono altre strade. E nello spettacolo ci sono entrambe queste scelte.

Qual è stato l’approccio al testo da regista e quale quello da attore? Dove i due approcci coincidono e dove invece sono più distanti?
In lettura ho avuto delle sensazioni molto positive. Ho creduto da subito che quello che stavo leggendo accontentava il mio gusto e perciò era in linea con le modalità di narrazione del presente che amo scrivere nei miei testi. Subito dopo ho pensato che questo gusto potesse accontentare anche quello della Compagnia Ragli perché c’erano gli ingredienti necessari per il nostro modo di fare teatro: la storia, i personaggi invisibili e il risvolto sociale. Infatti i miei soci (Dalila Cozzolino e Andrea Cappadona) hanno avuto le mie stesse impressioni selezionando questo testo in cima alla pila di testi che avevamo avuto il piacere di leggere. Da regista la sfida è stata importante. Il progetto prevedeva la possibilità di lavorare fianco a fianco con l’autrice (Victoria Szpunberg) permettendomi di interpretare liberamente il testo, discuterlo e revisionarlo. Ho fatto delle proposte, avrei modificato alcune cose, ho compreso il senso del messaggio che l’autrice ci ha raccontato durante la sua permanenza e ho accettato la sfida proponendo un lavoro gratificante. Non sono tra gli interpreti, mi sarebbe piaciuto, ma il cast è straordinario così.

Portare in scena un lavoro del genere presuppone una maturità artistica notevole. Cos’è che ritiene di aver imparato dai suoi attori e cosa invece pensa che i suoi attori abbiano imparato da lei?
Gli attori sono Dalila Cozzolino (Premio Hystrio alla Vocazione), Antonio Monsellato (attore leccese interprete di una serie Tv per Rai1) e Maurizio Aloisio Rippa (un monumento del Teatro Italiano). Questo mix di straordinarie doti artistiche ha facilitato il mio lavoro: gli attori per me sono essenziali, li scelgo sempre con grande attenzione e con il desiderio di poter avere, appunto, da ognuno di loro una restituzione immediata di una qualsiasi delle loro capacità e in questo terzetto, ti assicuro, c’è tanta roba! Io non saprei dirti cosa ho dato a loro, forse dovrebbero dirlo loro, ma io li osservo, li guido, li ripulisco dagli eccessi che potrebbero (generosamente) voler dare in più. Me ne sto lì, tranquillo, e se a volte propongo delle cose assurde (che loro giudicano come spregiudicate) alla fine ho ragione, perché loro riescono a cucirle addosso e incantare le platee. Forse credono che io non li conosca fino in fondo ma si sbagliano, quando percepisco che in ciascuno di loro c’è qualcosa da tirar fuori la percezione non sbaglia mai. Per The Speaking Machine è stato difficile isolare le anime diverse dei tre personaggi ma alla fine il risultato è arrivato e l’armonia ha determinato una piacevolissima resa. Dalila ha costruito un personaggio destabilizzante, sforzandosi con tenacia, e ha creato una straordinaria meraviglia. Antonio ha il personaggio più spigoloso e su questo ha lavorato, rendendolo misterioso e affascinante. Maurizio è un artista completo, catalizzante, capace di alternare umorismo e lacrime con una passione unica, il suo Bruno sfiora diverse corde emozionali.
Ah, vedrete in scena alcuni costumi appartenuti a Carmelo Bene, tra l’altro.

NoteVerticali.it_Rosario_Mastrota_2E qual è stato invece il rapporto con l’autrice Victoria Szpunberg?
Victoria è stata nostra ospite a Roma nello spazio in cui ci occupiamo della gestione delle attività teatrali (ÀP Accademia – www.apaccademia.it) e ci ha colpito la leggerezza della sua presenza. Ha creato da subito un clima pacato, senza ansie, senza primadonnismo. Ci ha conosciuti artisticamente e noi abbiamo conosciuto la sua vivace attività artistica di Barcellona. Victoria è un’intellettuale, una brava scrittrice e un’ottima collega. Ha seguito il lavoro di allestimento senza interferire, salvaguardando alcune dovute richieste testuali o di personaggio. Alla fine era entusiasta. Si è molto complimentata. Sarebbe venuta a Cosenza per rivedere lo spettacolo ma impegni lavorativi l’hanno trattenuta. Ma vuole tornare, forse a Gennaio, quando andremo in scena a Roma.

Lo spettacolo ha già avuto modo di testare la reazione del pubblico. Qual è stata la conferma più grande e quale invece la sorpresa più inattesa?
Il pubblico non si testa. Non facciamo cabaret. Il pubblico si rispetta. E per il nostro lavoro è fondamentale questo aspetto. C’è chi fa un teatro scollante, che tiene il pubblico distante e lo emoziona oppure no mediante scelte disparate. Per noi. Invece, è fondamentale averli lì, quasi sul palcoscenico, con noi, a partecipare al rito ascoltandone i respiri, le emozioni e le risate. Certo, per accontentarli tutti (critici compresi) bisognerebbe fare degli spettacoli dentro una grande scatola bianca con un buco al centro da cui escono solo alcuni suoni indistinti: come la pecora del Piccolo Principe, ma non vogliamo accontentare tutti sempre.

La scena teatrale calabrese è molto vivace e attiva. Come può contribuire secondo lei a (ri)svegliare le coscienze?
Una coscienza può essere risvegliata solo dalla propria forza di volontà, dalla scelta personale di ognuno. Questa metodica scienza del risveglio delle coscienze non funziona, basta guardarsi attorno per vedere che razza di greggi si creano andando dietro a chi si eleva a capo coscienzioso. No, il teatro non deve svegliare nessuna coscienza di massa. Il teatro deve dare gli strumenti personali per cui ciascuno, tornato a casa e posato lo smartphone si possa fermare un attimo allo specchio e da lì, da quella semplice personalissima inquadratura restare ad ascoltarsi. Stavo per dire “a riflettere” ma sarebbe venuta fuori una pessima battuta sugli specchi. La Calabria è viva, teatralmente e anche per tutto il resto. Gli artisti devono solo sentirsi meno isolati, perché di intraprendenza e voglia di esprimere ottima arte ne hanno tantissima. Qualcuno riesce a creare dei piccoli miracoli anche in Calabria e l’eco di questo duro lavoro si riflette su tutti. A me la Calabria manca tantissimo.

Quali sono gli stimoli che ogni giorno trova per proseguire la sua attività in teatro?
Ho avuto un anno di sbandamento artistico. Una preoccupazione intellettuale che mi aveva spinto ad allontanarmi, a cedere, a considerare alcuni aspetti poco motivanti di un sistema che schiaccia chi non riesce a resistere. Ma poi mi sono fermato a pensare alla parola resistenza: come suona bene. Ho considerato la nostra (modesta) missione teatrale come un percorso di resistenza. E sono andato avanti, siamo (Compagnia Ragli) andati avanti. Abbiamo un pubblico affezionato che ci motiva replica dopo replica, abbiamo creato degli spettacoli che in mezzo ai giganti hanno ricevuto acclamazioni gratificanti e affrontato delle tematiche che sono poi diventate dei filoni di tutta una schiera di altri artisti e altri spettacoli e quindi abbiamo deciso di resistere, fino alla fine. Abbiamo deciso di debuttare ogni anno con un nuovo lavoro, salvaguardando la circuitazione dei lavori precedenti. Gestiamo un Teatro a Roma e ci occupiamo della direzione artistica di un Premio teatrale molto prestigioso (Premio Mauro Rostagno) con la supervisione eccezionale dei nostri compagni di viaggio dell’associazione antimafia Dasud. Siamo motivati, da noi stessi e dal piacere di andare in scena. E questo credo sia lo stimolo più importante.

Sta lavorando a qualcosa di nuovo? Può darci qualche anticipazione?
Rubo una riga per sponsorizzare i miei due libri: Chiller, edito da La Ponga edizioni e il nuovissimo Brogliaccio edito da Montag.
Per quanto riguarda la novità del 2020 stiamo allestendo un nuovo spettacolo, s’intitola Chi niente fu e debutterà a Roma al Teatrosophia alla fine di Gennaio. Il testo è di un giovanissimo autore che si chiama Giuseppe Pipino e l’interprete sarà Dalila Cozzolino. Sono tre monologhi. Ogni monologo potrebbe prendere forma autonomamente, forse. Ma leggendoli insieme, uno dopo l’altro, abbiamo subito pensato alla possibilità di un’unica messa in scena. I tre personaggi sono distanti solo in parte: in tutti si scorge immediatamente la condizione di atopos, senza luogo e fuori luogo.
La letteratura, la filosofia, la psicoanalisi hanno lasciato una lunga bibliografia su chi vive “ai margini”, sui cosiddetti “anormali”. Anche la drammaturgia contemporanea ha esplorato numerose possibilità, mettendo in relazione gli emarginati con la società “liquida” attuale.
Questo lavoro parte dal provare ad immaginare che cosa fa nella sua solitudine chi è stato lasciato completamente solo. Non ci sono personaggi “antagonisti” appartenenti al “fuori”, si vuole provare ad entrare nelle stanze di questi personaggi senza fare rumore.
Vi aspettiamo al Teatro Italia per The Speaking Machine il 22 novembre alle 20.30!!

Una scena tratta da "Chi niente fu", che debutterà a gennaio 2020 a Roma (Foto Rachele Minelli)
Dalila Cozzolino in “Chi niente fu”, lo spettacolo della Compagnia Ragli che debutterà a gennaio 2020 al Teatrosophia di  Roma (Foto Rachele Minelli)

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...

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