Umberto Maria Giardini nasce il 22 giugno 1968. Cantautore marchigiano, ex batterista che dal 1999 al 2009 ha iniziato il suo percorso col nome d’arte di Moltheni. Attualmente è impegnato in una serie di concerti promozionali del suo ultimo album, quello più rappresentativo, importante e maturo, in sostanza il suo capolavoro, dal titolo “Protestantesima”, pubblicato quest’anno nel mese di febbraio. Si tratta del secondo disco pubblicato a suo nome, seguito ideale dello splendido “La dieta dell’imperatrice” del 2012. Torna in concerto a Roma al Quirinetta giovedì 12 Novembre, dopo essersi esibito al Blackout il 17 aprile scorso. Abbiamo incontrato Giardini alla vigilia del concerto romano, in un vivace dibattito e scambio di opinioni, punti di vista sulla realtà attuale, soprattutto musicale italiana.
Chi era Moltheni e chi è oggi Umberto Maria Giardini?
Erano e sono la stessa persona, anche se in due processi di vita artistica non totalmente estranei. L’esperienza Moltheni ha portato, essendo durata oltre dieci anni, uno strascico che in qualche modo viene riflesso in UMG e questo avviene secondo il naturale corso delle cose. Soprattutto dal punto di vista delle liriche e dei testi, UMG è una persona più adulta, lungimirante, con una visione più disillusa della vita. Da un punto di vista musicale il distacco è maggiore, poiché il progetto Moltheni era più pop-folk, mentre il progetto UMG a mio avviso ha fatto un salto di qualità, su un aspetto legato anche alla psichedelia, evidenziato dal quasi totale abbandono della chitarra acustica.
Quanto della tua formazione musicale in terra scozzese ha influito nelle tue scelte musicali e anche di vita? Alcune delle migliori band dell’attuale panorama musicale anni Duemila, a mio avviso, sono proprio scozzesi e penso a band molto poco conosciute in Italia, come i The Twilight Sad, Glasvegas e Turning Plates...
Assolutamente zero. Ho vissuto in Scozia nei primi anni Duemila. Sono stato molto influenzato dal fenomeno Smiths, ma non vivevo ancora in Scozia negli anni ‘80. Da un punto di vista musicale la Scozia non mi ha influenzato, lì lavoravo più che altro, e non suonavo. Ho avuto la fortuna di ascoltare ottime band dal vivo e la cosa mi ha influenzato da un punto di vista strettamente professionale. Sono andato a cercare sin da ragazzino la qualità. Ho un’ampia cultura musicale e penso che gli anni ’80 siano stati poveri per la musica d’oltreoceano, mentre negli anni ’90 c’è stato un cambio e sono subentrati fortemente gli Stati Uniti. Mi sono approcciato molto alle band di Seattle, e negli ultimi anni mi sono diviso in due, sono tornato molto sulle orme della musica dei fenomeni inglesi. Sono rimasto molto infatuato, ed è una cosa che è rimasta nel tempo, dai cantautori folk americani. Il bacino americano è fantastico e si scoprono tanti nuovi talenti capaci di fare veramente qualcosa di diverso.
Era da tempo che nel panorama italiano non avvertivo una forza poetica e una coerenza contenutistica così forte ed evocativa. Sei sicuramente stato influenzato da artisti del calibro di Battisti e Battiato (tant’è che in un film di Battiato interpreti un personaggio ispirato alla figura di Battisti se non erro), ma sei stato capace di dare lo stesso un’impronta molto personale ai tuoi lavori, specie agli ultimi due a tuo nome. Da quali fonti attingi nella creazione delle tue splendide canzoni, dei tuoi illuminanti testi?
Grazie per tutti questi complimenti che non so fino a che punto possa meritare. Battiato molto relativamente. Battisti è l’unico italiano che nella mia carriera ho seguito. I dischi degli anni ’70 soprattutto, tutti quelli legati al trittico sull’amore, la vita, la morte, sono dischi di riferimento per me. Ma è anche vero che sono tutte forme d’ispirazione che non hanno influenzato più di tanto la mia scrittura, vengono fuori piuttosto da una forma di schiettezza poco latina, dal mio stile di vita, sono molto schietto e mi permetto di giudicare ciò che ho di fronte. La mia scrittura nel lavoro riflette questo mio modo di essere e di vedere le cose.
Alcune canzoni in particolare trovo rappresentino al meglio la tua poesia e la tua energia evocativa esperienziale. “Anni luce”, “Quasi Nirvana”, “Discographia” del primo disco, mentre del secondo sicuramente “Protestantesima”, “Molteplici e riflessi”, “Il vaso di Pandora”, “Seconda madre”. Ti va di raccontarci qualche aneddoto sulla genesi di questi splendidi brani?
Lo racconterei volentieri se ci fossero ma non ci sono. Dovrei inventarmeli, sono tutti brani maturati attraverso tanto lavoro, tante ore in sala prove. Il primo album è stato un disco fatto di emozioni molto sentite, perché era quello d’esordio, mentre il secondo è stato un disco venuto più di getto, con molta maggior sicurezza delle mie potenzialità. Lo spessore finale è maggiore nel secondo album anche da un punto di vista prettamente tecnico. C’è un grosso elemento che accomuna tutta la composizione a nome UMG.
“Il Vaso di Pandora”, brano particolarmente significativo a mio avviso, cosa rappresenta? Che messaggio hai voluto dare con questa canzone che fra l’altro t’impegna in un’estensione vocale di un certo spessore?
Il messaggio è molto chiaro e ironico. Molti hanno pensato che il brano sia dedicato agli Afterhours, ma in realtà è dedicato alla discografia milanese che secondo me è molto sciocca, perché ancora considera la cocaina come elemento fondamentale per poter fare il mestiere di musicista. La cocaina è un male nella musica italiana, la considero estremamente ridicola, perché la cocaina è una droga ridicola, che a differenza di tante altre droghe toglie la dignità, perché mentre un eroinomane diventa malato, il cocainomane diventa un cretino e la maggior parte delle band italiane è composta da cretini. Basta vedere l’approccio dei musicisti stranieri paragonato a quello dei musicisti italiani. C’è una enorme differenza, e nonostante questo molti musicisti italiani si considerano chissà chi. E non scendiamo sul discorso dei cachet perché è una vergogna. I musicisti italiani sono come i politici, una manica di cretini.
Mi sembra che nei tuoi testi, fortemente visionari, ci sia concentrata anche l’esperienza poetica cinematografica, non solo per i contenuti, ma anche per il modo in cui crei le melodie. Vai spesso al cinema? Hai degli amori anche lì? Ti va di dirci qualcosa anche della tua esperienza sul set del film “Perduto Amor”?
Assolutamente sì. Riguardo l’esperienza sul set non ho niente da dire perché la mia è stata una doppia comparsa, sarebbe stato capace chiunque di farla. Sono un grande appassionato di cinema ma ho un palato fine, mi piacciono solo ed esclusivamente determinate cose. Credo che i migliori registi italiani siano quelli degli anni Settanta, penso soprattutto a Elio Petri che è il mio regista italiano preferito, mentre come attore adoro Gian Maria Volonté, che penso sia il più grande in assoluto della nostra cinematografia. Nel cinema a 360° ho i miei amori, il primo in assoluto credo sia Terrence Malick, che considero un regista straordinario, con un senso della fotografia mostruoso; poi sono affezionato a Lars Von Trier, al suo essere così eclettico, anticonformista. Mi piacciono moltissimo anche registi minori che ovviamente vengono scoperti dopo un certo periodo, come Vincent Gallo, che l’ho trovato splendido nelle sue poche regie. Sono un grande affezionato della fotografia, è la cosa che mi rapisce di più in un film, al pari della storia e degli attori.
Nella tua musica vi è un afflato lirico non indifferente che abbraccia non soltanto il pop, anche se io direi soprattutto dream-pop, di quello più sofisticato, e che sta tornando in auge a livello internazionale. Ma c’è anche tanto rock in virtù credo delle tue esperienze britanniche, delle reminiscenze progressive, secondo alcuni critici di settore un rock più psichedelico, ma io non restringerei più di tanto il cerchio. Questa cosa si fa più marcata quando inserisci brani strumentali, come hai fatto ne “La dieta dell’imperatrice”, disco che sembra provenire dalle atmosfere di un’epoca lontana eppure vicina. Cos’hai da dire al riguardo?
Tutto estremamente schietto e vero. Mi ci riconosco molto in quello che dici. Credo che la scelta di fare brani strumentali non debba essere pilotata, e lo dimostra il fatto che in “Protestantesima” non ce n’è neppure uno. Io mi considero più un musicista, piuttosto che un cantautore. Significa avere un approccio diretto con la musica. Gli episodi in cui appaiono solo brani strumentali mi rappresentano tantissimo, perché le emozioni primarie vengono proprio dalla musica, che rappresenta un momento di catarsi e d’ipnosi. E’ parte integrante del mio modo di scrivere.
Nelle tue canzoni c’è anche una certa femminilità, un’obiettività, un’onestà e una sensualità rare. Il tuo rapporto con le donne?
C’è una femminilità perché io comunque ho uno spiccato lato femminile naturale, che potrebbe essersi riflesso nella delicatezza, nell’eleganza e nell’impegno che metto nei miei lavori. La figura femminile rappresenta per me una figura totalizzante, legata all’amore materno, al sesso, alla bellezza. Pertanto sono stato sempre molto ispirato dall’universo femminile.
Trovo che nel panorama musicale attuale straniero, soprattutto americano e britannico, ci sia un gran fermento, stimoli, idee e contrariamente a quanto solitamente ci propinano in radio, una grande e bella qualità. Il suono è migliorato di pari passo con l’avanzamento della tecnologia e ci sono tante nuove band e cantautori di livello, purtroppo poco conosciuti qui da noi. Ce ne sono alcuni che apprezzi o ami in particolar modo e che hai avuto modo di vedere anche dal vivo?
Premetto che ascolto pochissima musica legata alle nuove realtà italiane. Anna B. Savage, una realtà londinese, rappresenta veramente il mio unico scopo di ascolto in questi ultimi 20 giorni, perché la sto ascoltando moltissimo. Ce ne sarebbero tanti di personaggi interessanti d’ascoltare e scoprire poco a poco, ma il problema è che la programmazione della radio a livello nazionale è abbastanza patetica, non è più un mezzo da tener conto per scoprire nuovi fenomeni. Basta pensare a una città come Milano che non ha una radio rock. Non si può considerare Virgin Radio Italia come radio rock. L’unico bacino per poter ascoltare musica rock è quello di John Vignola in Rai, per il resto è un lacrimorium pazzesco. Può esistere a livello provinciale attraverso qualche rubrica di nicchia ma è piuttosto raro. Ormai la realtà oggettiva che io denuncio è assurda, non ci sono più fondi, non ci sono più soldi, tutto in Italia sta scadendo nel peggio, non si danno più spazi alla cultura, alla qualità, ma se ne danno di sempre maggiori alla pubblicità e ai nuovi “fenomeni” della radio nostrana. Viviamo in un’epoca di povertà, la gente è moscia e se non sei un nome straconosciuto, farti un battito di mani diviene un sacrificio vitale, tutto ciò non è assolutamente paragonabile all’entusiasmo che c’era nei club negli anni ’90. Oggi sembrano esistere solo “bimbeminchia” che stanno in prima fila ai concerti con le lacrime agli occhi per i loro idoli. Le nuove generazioni non ascoltano più i dischi per intero, i giovani ormai non hanno più questo tipo di approccio alla musica, sembra averla più gente sopra i trent’anni. Viviamo in un’epoca in cui la musica purtroppo riflette quello che è la società, è tutto estremamente superficiale e scadente.
Un viatico ideale a chi vuole fare della propria arte la ragione di vita in una sola frase. Cosa consiglieresti?
Seguire la propria strada senza necessariamente guardare l’orizzonte.
Federico Mattioni, rapportando la vita e i sensi al cinema, sta tentando di costruire un impero del piacere per mezzo della fruizione e della diffusione delle immagini, delle parole, dei concetti. Adora il Cinema, la Musica e la Letteratura, a tal punto da decidere d’immergervi dentro anche l’anima, canalizzando l’energia da trasformare in fuoco, lo stesso ardere che profonde da tempo immemore nelle ammalianti entità femminili.