Nell’esordio narrativo di Paride Leporace, storie e personaggi di Cosenza attraversano i decenni e la memoria

Non scegli dove nasci. Ma il posto in cui cresci, volente o nolente, resta il tuo luogo dell’anima. Come quella cadenza che il tuo accento porta con sé e che ti fa essere riconosciuto anche a migliaia di chilometri di distanza dalla tua Itaca, insieme ai ricordi più intimi affidati all’inconscio, che hanno sempre una corsia preferenziale nei tuoi pensieri. Così è per Ciccio Paradiso, narratore di una Cosenza talmente epica e leggiadra da travalicare tempi e stagioni e da diventare “Cosangeles, Calabrifornia, a trenta chilometri da San Francisco di Paola“. Una città animata da figli senza nome, il cui ricordo si tramanda oralmente come nelle tribù di pellerossa che la Storia con la S maiuscola vorrebbe cancellare, ma che rivivono ogni volta che torna alla mente una loro frase, un loro gesto, una loro bravata. Paradiso è l’alter ego letterario di Paride Leporace, giornalista, scrittore e intellettuale che a Cosenza ha vissuto la propria formazione e che da trent’anni racconta il suo Sud con occhi mai allineati e con il cuore di chi ama l’espressione più profonda di questa terra. Una terra di eroi e artigiani, fabbri e sellai, farmacisti e mendicanti, pezzi di malacarne, vavusi ca mbucanu a posta, traffichini, compari e sognatori. “Cosangeles” (Luigi Pellegrini Editore) è il suo primo libro di racconti, e con la leggerezza del romanzo restituisce dignità a una storia minima di uomini e di donne che hanno calpestato le strade di Consentia, la “città del consenso”.

E’ la storia delle vineddre, di quelle strade laterali, di quei vicoletti bui dietro la via principale, dove, per dirla alla Dimitri Karamazov di Fedor Dostoevskij, “si incontrano avventure, sorprese, oggetti preziosi buttati nella polvere”. È il quotidiano dei discendenti degli alleati di Annibale, quei Bruzi temuti da Greci e mal sopportati dai Romani, una “razza maledetta” che non si sarebbe sentita mai seconda a nessuno grazie all’orgoglio ma anche al pensiero critico sviluppato da menti illuminate come quella di Bernardino Telesio. Cosangeles diventa allora quel toponimo dell’impossibile coniato e sbandierato in faccia a una incuriosita Ornella Muti dalla mente effervescente di Jo Pinter. Attore di cinema e teatro off, pubblicitario, commerciante, “vitellone, biscazziere, cartaro di tarocchi e di cartine”, antieroe bruzio per eccellenza che in sella a una Porsche dialoga con Fellini e con i boss di malavita, e ruba la giacca a Mick Jagger per donarla agli ultrà rossoblù che la seppelliranno a Potame. Mito e leggenda si intrecciano e suggestionano. Cosangeles è l’heimat dell’anima popolare e proletaria di Paolo Cappello che incrocia il sogno di una realtà che diventa possibile grazie all’Utopia respirata all’agorà di Palazzo dai giovani nel settantasette. È la madre matrigna del pasoliniano Bobò che ha letto Bukowski a Colle Triglio e ha buttato la vita in una siringa. È il quartiere di Fred Scotti, cantautore di malavita che tra un’imponenza e l’altra dava da mangiare al vecchio leone in gabbia alla Villa Vecchia. È la comunità dei toghi alimentata a oi Frà, Iadòna e supubenimamma, che da giovane ha ballato con Barry White al Tortuga e da adulta ha guardato con ottimismo al nuovo millennio salutato in piazza, anticipatore di una primavera che sarebbe poi finita troppo presto. È il desiderio di evadere da una Calabria troppo periferica anche rispetto a Metaponto, che sta stretta a chi vive di ambizioni e speranze e non vuole assoggettarsi alle promesse del politicante di turno.

Undici quadri raccontati da Leporace con sapiente feeling letterario alla Tondelli e un retrogusto cinematografico che ricorda Sorrentino, che restituiscono quella goccia di splendore e pietà reclamata a gran voce dai vicoli di un centro storico che ricorda quello della Napoli borbonica ai quartieri popolari di via Popilia o della Massa, dalle effimere adunate studentesche di Piazza Kennedy ai crocevia di facce e odori dell’Autostazione, dalla religiosità militante del Duomo a quella laica e pallonara del San Vito Marulla, centri di sacralità per celebrare la dignitosa speranza di un popolo contro il timore solitario dell’oblio.

Abbiamo avuto il piacere di rivolgere alcune domande a Paride Leporace, autore di “Cosangeles” (Clicca qui per acquistare il libro). Di seguito l’intervista.

Italo Calvino scriveva “Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi“. Nei ricordi del tuo alter ego Ciccio Paradiso riaffiora Cosangeles, una città che ha un nome di fantasia ma che ha un vissuto fatto di uomini e donne, di storie reali che grazie alla tua scrittura si trasfigurano in romanzo. Quanta nostalgia c’è nel raccontare quella città e quanto è lontana Cosangeles dall’attuale Cosenza? 
«Nostos è un tema utilizzato nella letteratura greca antica che parla di un protagonista che torna a casa. In quel caso era considerato un tema eroico. Io, che vivo a cavallo di due secoli, mi rifaccio al mio amico Andrea Di Consoli, che ripensando alla sua contrada natia Fratta dice che in quelle pietre c’è il senso profondo di un’appartenenza, il senso vero della vita così come è o come la ricordavamo. La Cosangeles che mi sono divertito a costruire contiene Cosenza vecchia e quella nuova, quella moderna e antica e anche quella postmoderna che è quella di oggi».

Questo libro segna il tuo esordio nella narrativa. Dopo giornalismo e saggistica, hai scelto di intraprendere la strada della forma romanzata. Ci spieghi le ragioni di questa scelta?
«Avevo molto pudore, considerato il mio amore per la letteratura, ad osare la virata verso questa forma. La narrativa però ti permette di essere più libero nella scelta del linguaggio e nel cercare uno scavo profondo che la forma del saggio non consente. Quando in casa editrice hanno letto i primi capitoli e hanno approvato la strada scelta mi sono sentito sicuro di cimentarmi».

Com’è nata l’idea di raccontare Cosangeles attraverso Jo Pinter? Ci sveli di più su questo personaggio, reale e vivente, così felliniano, vulcanico e multiforme, che, incuriositi dalle tue pagine, abbiamo ritrovato in vecchie incursioni video al Festival di Venezia?
«I miei libri nascono a tavola in situazioni piacevoli. L’anno scorso ero andato in Olanda con la mia famiglia a trovare Giuseppe Picciotto, il vero nome del Pinter, ed eravamo nel ristorante che gestisce con la compagna. Non ci vedevamo da una vita. Serata memorabile e Peppino non riusciva a credere che io conoscessi tanti aneddoti della sua vita che si aggiungevano a sue inedite narrazioni. Lucia Serino, mia moglie, mi ha detto: Ma perché non scrivi un libro? In effetti la biografia di Jo Pinter era degna di un romanzo».

Una delle invenzioni più originali del libro è il confronto con una nuova forma di linguaggio. Una sorta di gramelot che unisce italiano e dialetto fino a fonderli in un nuovo idioma, che dà anima e cuore alle storie raccontate. A proposito di dialetto, ieri era il linguaggio del popolo, della gente comune. Oggi l’appiattimento linguistico della comunicazione ha fatto terra bruciata anche delle forme di linguaggio più arcaiche. Se volessimo prenderci in giro, diremmo che la lingua ha unito ciò che da sempre è diviso. Ma sappiamo che è non è così. Se vado a Cosenza vecchia e passeggio per le vineddre del centro storico, sento ancora parlare il dialetto, magari insieme a cadenze che ricordano altri idiomi, dall’arabo al rumeno. Se scendo a Corso Mazzini, no. Perché il dialetto dalle nostre parti è sinonimo di ghettizzazione? Che fine ha fatto, se mai sia passato dalle nostre latitudini, il glocalismo come identità culturale? 
«In effetti è un aspetto che mi ha impegnato molto. Non essendoci molta tradizione letteraria, ho cercato di ricostruire lo slang parlato degli anni Settanta che mescolava con grande creatività dialetto cittadino e neologismo della modernità, pagando spesso un tributo alla parlata mascagna tipica di un certo ambiente. Sul dialetto non concordo che è stata solo lingua del popolo. La borghesia nel linguaggio familiare lo ha sempre adoperato, non lo parlava nelle circostanze sociali ufficiali. In questi anni recenti lo abbiamo meglio riconosciuto. Pensa alle campagne pubblicitarie tipo “Risparmia e cumparisci”. I media locali lo adoperano. Io credo che ci vergogniamo meno delle nostre “e” molto aperte e delle “t” taglienti come falci”».

Ad oggi l’unica forma di identità bruzia resta forse il tifo per il Cosenza calcio. Una storia di religiosità laica, una passione sofferta con molte delusioni e poche, ma fortissime, gioie, che ha attraversato il secolo breve e continua a farlo con quello corrente. Una passione che conosci molto bene, grazie alla tua lunga militanza ultrà. Quanto va riconosciuto al calcio a Cosenza per la sua capacità di aggregare e di fare comunità al di là di età e condizione sociale?    
«L’unica forse no. Il cibo è molto identitario per esempio. Il calcio con il Cosenza è però una coperta molto avvolgente. La storia degli ultrà rossoblù è di enorme rilievo, riconosciuta in tutta Italia da chi ha conosciuto il fenomeno. Con la serie B si è registrato un grande fenomeno sociale di massa che ha saputo costruire una comunità anche fuori dallo stadio caratterizzata da valori molti segnanti. Al San Vito, oggi Marulla, sono nate importanti realtà sociali e politiche. Mi duole oggi che ci siano molte divisioni del tifo. Ma la passione comune resta e per fortuna arriva anche alle nuove generazioni».

Paride Leporace ha guidato la Lucana Film Commission.

Nel ricordo tenero e struggente che riservi nel libro a Bobò, c’è un omaggio a tutte le giovani vittime della tossicodipendenza, che anche a Cosenza, “tra spazi sballati e rock ‘n roll”, non furono poche. Un rovescio della medaglia per una stagione che fu per molti altri di crescita e formazione. Come venivano considerati i tossicodipendenti nella società cosentina degli anni Ottanta e quale fu il ruolo degli ultrà nella riabilitazione di molti ragazzi?       
«Mi ha molto commosso la telefonata di un’operatrice sanitaria, all’epoca alle prime armi, che aveva seguito a mani nude quelle tossicodipendenze. Anche Cosenza era mondo. Parliamo ancora di anni di piombo e non siamo in grado di storicizzare una vicenda tristissima che ha ucciso decine di giovani e distrutto famiglie abbandonate da tutti. Il successo della docuserie “Sanpa” infatti ha riaperto una questione che abbiamo rimosso con una certa leggerezza».

Nel libro trova posto anche la malavita, e insieme a diverse figure senza nome viene raccontato, romanzandolo, anche il ritorno a Cosenza di Franco Pino, il boss della malavita cosentina, emblema di quel grattismo diventato ‘ndrangheta di cui scrivi in Cosangeles. Nelle parole che metti in bocca a Pino c’è la leggerezza del romanzo, che attutisce la brutalità delle azioni che negli anni ‘80 rendevano Cosenza e le sue strade un posto pericoloso in cui vivere. Hai mai pensato di raccontare, considerando quanto hai scritto come una sorta di spin-off, la malavita cosentina in un “Romanzo criminale” in salsa bruzia? 
«In parte ritengo di averlo fatto. Penso emerga il ruolo di un gruppo sociale che ha molto condizionato la vita e lo sviluppo della città e della provincia. Le contaminazioni sono state diffuse e forse inevitabili. Siamo diventati adulti in mezzo alle guerre di mafia e non ne siamo neanche consapevoli. Mi sembra ci sia un rimosso. Si diceva  “sono fatti loro” e invece erano “fatti di tuttI”. La narrativa mi ha aiutato a far venir fuori quello che la cronaca nera o i saggi specialistici non possono raccontare. Per il momento sto a quello che ho scritto». 

C’è una frase di un personaggio del film “I basilischi” di Lina Wertmuller che dice: “Qua tutti laureati. A questo paese, quattro gatti siamo e tre tengono la laurea, con che risultati? Rimanete tutti qua!”. Estendendo il campo, la pigrizia e l’indolenza sono caratteristiche comuni al meridionale e al provinciale in genere. Ma mentre la Basilicata sembra non essere più quella descritta sessant’anni fa dalla Wertmuller, grazie a iniziative importanti quali Matera 2019 che ti ha visto protagonista in prima persona, sembra che la Calabria, e ovviamente anche Cosenza, soffra ancora di questa atavica pecca. Forse perché Cosenza diventi Cosangeles bisogna guardarla da lontano. Solo così il provincialismo diventa un merito e non una condanna. Credi sia così, e se è così, perché? Siamo ancora prigionieri di una questione meridionale? 
«Guarda che molti lucani non amano quel film, anche se è un bellissimo film. L’acedia è una sorta di malattia meridionale. Ma la provincia in genere non è sempre e solo un posto bastardo. Anzi c’è una forte attenzione verso i posti estremi e piccoli e lontani dalle rotte principali della globalizzazione. Il successo di Matera è anche questo. Il maledittismo della Calabria lo combatto. I problemi non mancano. Ma dobbiamo saper riconoscere la molta vita buona che sta dalle nostre parti».

Paride Leporace a Radio Ciroma.

Nel libro trova posto, graditissima, la radio. Nelle pagine in cui scrivi di Radio Ciroma c’è molto amore per quell’esperienza che, nella Cosenza di oggi, continua a resistere. Cosa ti ha lasciato?
«Ciroma è stata molto generosa nei miei riguardi e della città che l’ha vista nascere. E’ un’esperienza collettiva che ha formato alla vita e alle passioni collettive molte generazioni. Se ho scritto questo romanzo è perché ho passato molte ore a Ciroma a discutere, capire, vivere con gli altri, saper far festa collettiva. Non mi sembra poco».

Cosangeles si presta volentieri a un adattamento cinematografico in stile sorrentiniano. E’ solo una suggestione del lettore o è qualcosa di più? 
«Sai che sono sorrentiniano e nel libro ne lascio testimonianze evidenti. Ma non si emula facilmente un maestro del cinema. Penso che Cosangeles abbia buon materiale per tentare di scrivere una buona serie. Ci stiamo lavorando. Mai dire mai».

Paride Leporace, “Cosangeles”, 176 pagine, Luigi Pellegrini Editore, 2021.

       

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