Il cammino è da sempre metafora di vita. Attraverso le strade impervie ci si ritrova nelle giornate difficili dell’esistenza, così come i percorsi inusuali possono risultare paragonabili a quelle amicizie nate quasi per caso, che però portano a destinazione, ossia custodiscono il segreto di un’intesa basata sulla stima e sul rispetto reciproci. Alberto Rollo, scrittore, saggista e critico letterario, dedica il suo nuovo libro alla sua grande passione per la montagna. Il grande cielo è più di un saggio e più di un romanzo insieme. Il sottotitolo – Educazione sentimentale di un escursionista – non avrebbe potuto essere più esplicito: in pagine di delicata letteratura, trovano posto le memorie di un innamorato. Un uomo di pianura e di metropoli che ha sempre guardato alla montagna per amor di valico, di salita, di cielo, con il desiderio di guardare in su per guardare meglio in se stesso, nelle proprie paure, nelle proprie speranze. In 208 pagine, il racconto di un uomo che ha imparato a leggere e a rispettare la montagna attraverso l’apprendimento del cammino ma anche grazie al filtro della pittura, della musica, della memoria locale, dei racconti orali. Abbiamo avuto il piacere di rivolgere alcune domande all’autore. Qui la nostra intervista.

Da uomo di libri come ama definirsi, cos’è stato che l’ha spinta a raccontare la montagna?
Niente di più semplice. Le montagne sono arrivate prima dei libri e mi hanno sempre accompagnato, sono sempre state là, in fondo, a rammentarmi la meraviglia di un confine da superare.  Ho passato tanto del mio tempo a “leggere” i percorsi, sentieri, i corsi d’acqua, i valichi, le cime, le nubi. La montagna è di per sé un grande libro, non sempre aperto, anzi, pieno di ambiguità, di sottintesi, e anche di reticenze – tutte da interpretare.

La montagna è vissuta come una sfida dell’uomo alla natura. Fino a dove può spingersi il coraggio e dove invece rischia di subentrare l’incoscienza?
La montagna è certamente un luogo di messa alla prova delle proprie capacità e della propria intelligenza ma non implica necessariamente una sfida. Di vera e propria sfida si parla quando la disciplina sportiva contempla deliberatamente la conquista di un obiettivo: la vetta più alta, la parete più difficile, la via più dura. Nell’alpinismo ci si batte, si sfida, si studia per sfidare. Il fascino dell’alpinismo è mistico e militare insieme.

Lei scrive di guardare alla montagna con amore e sospetto. Da uomo prevalentemente di città, si sente più di tradirla o di rimpiangerla?
Nessun rimpianto. Di cosa mai?  La montagna è là. Sa aspettare, per una vita, per generazioni,  per sempre. E proprio perciò non la tradisco. Ma certamente la cerco, la corteggio, la mando a memoria. Con la bellezza, con la grandezza, non si può che procedere per avvicinamento progressivo, ed è un avvicinamento fondato sulla fisicità, la mia e la sua. Ci si tocca. Quel che di selvatico permane, continua a permanere, e da lì sorge il sospetto, perché il suo sguardo è uno sguardo da pantera, non le preme la mia umanità.  E semmai, se la minacciamo, è lo sguardo ribelle di chi si rivolta.

Nel libro leggiamo che lei ha sempre sentito l’alpinista come una figura a metà strada fra il soldato e il mistico. Una figura che incarna, aggiungo io, da un lato il missionario e dall’altro il visionario. È d’accordo?
Sì certo, l’ho detto. Militare e mistico. Il visionario senza dubbio. L’alpinista anticipa e si sente attratto da ciò che presume sia il suo obiettivo. Sul missionario non so. L’alpinista fatica per sé, solo per sé, anche quando lo fa con i compagni di cordata. Non porta un messaggio. La sua “missione” si estingue, sublime, nel risultato.

A proposito di misticismo, nel libro non mancano i riferimenti alla religione, con i ricordi delle grandi processioni con la statua della Madonna portata a braccio o issata su un carro trascinato da buoi. Una religione intima, arcaica, contadina, semplice, che stride con il rumore e con il caos della modernità e del disordine cittadino. In montagna si sente più forte la voce del cuore? E, se sì, perché?
Io ritengo che Dio lo si cerca e lo si può trovare dovunque. La montagna non aiuta, la montagna non redime. In verità detesto la formula di chi arriva a una certa altezza e dice Mi sento più vicino a Dio.  E non so neppure se si sente più forte la voce del cuore. Quando lei parla di religione arcaica (che non è solo quella di certe tradizioni montanare), dice bene: nell’arcaico c’è una percezione a noi sempre meno nota del Male.  Il pizzo Badile è una montagna “cattiva”, ci scruta truce.  Certa crudezza della vita di montagna si porta appresso una ruvidezza che spaventa.  La montagna, per essere amata, deve far paura, deve ispirare una preghiera difensiva.

Montagna è anche sport, e il rimando va inevitabilmente al ciclismo. Lei scrive che “la bicicletta associata alla montagna oblitera la percezione del tempo”. Un’immagine che personalmente ritengo bellissima, e che per me offre una definizione assolutamente originale del concetto di felicità. Ma è vero che in montagna il tempo scorre più lentamente?
Certamente il ciclismo, che è altra disciplina sportiva legata agli obiettivi è liberatorio, ispira l’epicità dell’impresa, e di un’impresa che matura nella solitudine della pedalata. Lo strappo della salita ma anche il delirio della discesa sono condizioni che si possono esperire solo nella beatitudine del valico.  Sul tempo non saprei. Il tempo si distende ma non rallenta. Accelera invece quando la luce declina. Andare per montagne significa avere un orologio interiore e saper leggere tutti i segni che lascia la parabola del giorno. Quando si sale ad alta quota è ben raro fermarsi a lungo, perché mentre senti che il vento spinge, mentre leggi le nubi, avverti che la montagna c’è in ragione di un tempo che non è il nostro. Possiamo farci passare anche la fame, in quota, possiamo venir meno a molti allarmi fisici, possiamo distrarci misticamente o no non importa, ma è proprio allora il momento di obbedire alla bestia che è in noi.

Nel libro c’è spazio per tanti personaggi che lei incontra, fisicamente o anche solo con il pensiero. Troviamo così Rimbaud, Kerouac, Goethe, Buzzati. E poi Mauro Corona con i suoi Cristi di legno tormentato, e Paolo Rumiz, i cui scarponi, scrive, “misurano le grandi distanze e le asperità del suolo, aprono strade e creano affinità”. Voci diverse per un sentire che spesso li accomuna, quello di vivere avvolti da un mistero più grande di loro che li custodisce e li protegge dalla banalità del mondo. La montagna è più madre o matrigna?
Mi piace sentire come il rapporto con la montagna (ascesa, percorsa, contemplata) incide sul sentimento del tempo e sulla scrittura. Corona ci fruga dentro come fosse una miniera di umanità, Rumiz ne mappa i volti diversi cercando insieme ai tracciati, ai tratturi, alle tracce il destino degli uomini e delle donne che incontra, Buzzati l’ha scalata come avesse scalato l’immaginazione. Rimbaud sapeva che l’età della wilderness, del mondo intatto e selvaggio sarebbe finita con lui. Holderlin sentiva con i tre fiumi del Gottardo (Ticino, Rodano e Reno) che l’Europa cominciava lì, lì dove Rimbaud avanza a piedi sotto la neve per scendere a Milano. La montagna si è lasciata “scrivere” si è lasciata raccontare, senza cedere un’ombra del suo mistero. C’è qualcosa di fraterno che mi lega idealmente alle figure di poeti e scrittori che ho citato. Loro lo sanno quanto hanno chiesto alla meraviglia, e la restituiscono.

La montagna è gioco e paura. Ma è anche amore, come dimostrano i ricordi di esperienze condivise con la sua compagna di vita. Qual è l’escursione fatta con sua moglie a cui si sente maggiormente legato?
Sì ho giocato molto con la compagna della mia vita, che è stata compagna armata di scarponi giusti e dello spirito giusto.  Ci siamo conosciuti su un’isola del Mediterraneo ma non abbiamo smesso mai di salire, anche sulle isole. E forse è la montagna di fuoco, lo Stromboli, a disegnare con più forza il nostro profilo nella notte. Siamo saliti senza guida, da Ginostra, abbiamo dormito fra lava e ginestre in fondo alla Valle della luna. Sulle Orobie ci siamo detti cose importanti. Sulle Alpi austriache ci siamo inventati la compagnia di un orso.  Ora gli orsi hanno purtroppo fatto sentire i loro diritti – e non c’è nulla di più ostile della natura “di ritorno”.  Quanto dobbiamo imparare.            

Il rimando all’infanzia, a cui affida i primi ricordi in montagna, è inevitabilmente un rimando a suo padre Cesare. Colui che tra le altre cose le ha insegnato l’andatura. Cosa significa ‘camminare’ in montagna?
Camminare in montagna significa inventare un ritmo, imparare a mettere un passo dopo l’altro con la costanza e la severità di una regola non scritta. È stupendo sentire l’andatura come fosse il sentiero a dettarla. C’è qualcosa che ha a che fare con la musica.

Qual è stato il riscontro più originale che ha avuto dal libro presso i lettori?
Il riscontro più bello è stato quello di sentire da più di un lettore che si erano trovati dentro a una ricognizione narrativa intrecciata all’avventura interiore di chi va per monti. E in effetti è così. Non è né una guida né un calepino filosofico. Il grande cielo è quello sul quale si cammina. Magari anche per perdersi.

Alberto Rollo, IL GRANDE CIELO, 208 pagine, Ponte alle Grazie, 2023.

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...