Nel romanzo di Alberto Riva edito da Neri Pozza, il rapporto tra Domenico Scarlatti e Maria Barbara di Braganza nella Lisbona del diciottesimo secolo

Nell’estate del 1720 Domenico Scarlatti, giovane compositore italiano, figlio del più celebre Alessandro, si reca a Lisbona, alla corte di re João V, per insegnare musica alla figlia del re, Maria Barbara di Braganza, che andrà poi in sposa a Fernando di Borbone diventando regina di Spagna. “Il maestro e l’infanta“, romanzo di Alberto Riva, racconta il rapporto tra Domenico e Maria Barbara, che durerà per tutta la vita. Un’intesa in nome della musica che unirà due anime accomunate dalla stessa solitudine, che grazie alla musica troveranno una complicità inattesa e profonda. La scrittura di Riva, attenta e misurata, avvolge il lettore dalla prima all’ultima pagina, guidandolo alla scoperta di due figure complesse e importanti che vissero in un’epoca di guerre e complotti, di ambizioni e potere, ma riuscirono a restare se stessi. “Il maestro e l’infanta” è un romanzo prezioso per questi tempi affrettati, una goccia di splendore in un oceano calpestato dal rumore.

Abbiamo incontrato Alberto Riva, che si è gentilmente prestato alle nostre domande.

Come è nata l’idea della storia raccontata nel libro?
Più che un’idea si è fatta avanti, poco a poco, negli anni, la voglia di raccontare qual è la ragione che ha portato fino a noi le sonate di Scarlatti e quindi inevitabilmente raccontare l’incontro tra Domenico e Maria Barbara di Braganza, dal momento che le sonate nient’altro sono se non gli esercizi che per quasi quarant’anni il Maestro ha composto per la sua allieva, prima infanta del Portogallo poi Principessa delle Asturie e infine Regina di Spagna. 

L’immagine di copertina ritrae la coprotagonista del romanzo, l’infanta Maria Barbara di Braganza, in un ritratto che ci trasmette un’immagine austera e misteriosa. Ci può dire qualcosa in più di lei e se nella sua vita prevalsero di più gli accordi in maggiore o quelli in minore?  
È vero, in quel ritratto Maria Barbara, dipinta da Domenico Duprà, trasmette qualcosa di misterioso, e credo sia l’unico tratto realistico che il pittore ha restituito. E anche lo sguardo: nel romanzo scrivo «l’eco di un dolore». Era, ci dicono, una donna di un certo magnetismo, nonostante fosse considerata poco aggraziata dal punto di vista estetico, non bella. Da bambina danzava e cantava. Soffrì, da adulta, di una salute molto cagionevole. Soffrì fisicamente. Amava gli animali. Aveva paura di restare sola alla corte di Spagna, se fosse rimasta vedova. Era colta. Ebbe molti nemici, a cominciare da sua suocera Elisabetta Farnese. Se lei allude alla tristezza dell’accordo minore rispetto alla solarità del maggiore, credo che in Barbara, come in Domenico, i due aspetti convivessero con repentini cambi di tonalità, che li facevano sorridere, sebbene lei più apertamente. 

Michel Tournier, nella frase che introduce il romanzo, scrive “La musica racconta una storia? Certamente, e nel modo più puro e rigoroso che ci sia”. Che storia racconta la musica di Scarlatti?
Io vedo le sonate, gli esercizi, che accompagnano questo rapporto maestro/allieva per molti anni, come una sorta di diario, di taccuino aperto del lungo viaggio di Domenico, dall’Italia al Portogallo e poi alla Spagna. Ascoltandole nel profondo, le sonate raccontano questa storia, una storia di dislocamento, di sradicamento, che all’armamentario tecnico musicale che lui porta con sé uniscono gli umori, le suggestioni di un’apertura culturale ma anche esistenziale: e cioè la musica spagnola di quel tempo, che si fonda anche sulla tradizione araba e giudaica del passato iberico, le danze, i canti, le voci, quel sostrato di vita vissuta e cultura che si fondono, anche nella civiltà dei gitani. A me interessava l’artista, già moderno, che esce dalla bottega e si apre al mondo. Maria Barbara, in questa storia, è la chiave di volta della sua vita, gli permette di incontrarsi come artista. Questa è la storia che la musica di Scarlatti mi ha raccontato.

Gli episodi narrati nel romanzo sono fedeli alla ricostruzione storica o in alcuni casi è prevalso l’artificio letterario per renderli più ‘appetibili’ al lettore?  
Moltissime delle vicende narrate sono realmente accadute, dallo scambio delle infante sul confine tra Spagna e Portogallo, alla malattia di Maria Barbara, alla copiatura delle sonate da parte della Regina, al figlio di Scarlatti che diventa prete, ma altre parti sono inventate seguendo appunto la suggestione della sua musica e coerentemente alla storia dell’epoca – per esempio le famiglie di gitani con cui Domenico entra in contatto a Granada – però tutto, realtà e invenzione, è rivissuto dalla mia fantasia come una visione interiore: tutto è reinventato in modo impressionistico. Racconto quello che vedo guardandomi dentro, non cerco di romanzare la realtà o presunta tale.  

Domenico e Maria Barbara sono all’apparenza profondamente diversi, ma in realtà accomunati dal fatto di essere due persone fondamentalmente sole. La solitudine, come la musica, può essere un terreno di comune appartenenza, un linguaggio universale in grado di superare distanze sociali?    
Sì, secondo me sì, io credo molto nell’importanza della solitudine. Certo, esistono tanti tipi di solitudine, che può anche essere una condizione dolorosa che si subisce. Ma quando invece è una scelta di necessità, una condizione sana di concentrazione e ascolto, allora è paradossalmente fondamentale all’incontro, specialmente con ciò che apparentemente ci pare lontano, diverso. Per esempio: se facciamo un viaggio da soli, avremo molta più probabilità di conoscere altre persone, magari di lasciarci portare dove non avevamo programmato di andare. La solitudine è una condizione creativa senza la quale difficilmente l’artista si esprime. 

Parliamo di lei adesso. La musica attraversa da sempre la sua vita professionale, anche grazie a incontri e collaborazioni proficue, come quelle con Enrico Rava e Stefano Bollani. Cos’hanno in comune secondo lei il jazz e la musica classica, al di là delle note e dei tasti bianchi e neri di un pianoforte?
La musica è musica: in ogni caso il musicista ha un rapporto molto profondo con la propria esigenza creativa, che sia jazzista o interprete di Schumann. L’artista porta il suo sentimento, il suo gusto, le sue idee, la sua passione nella musica che suona. Che sia uno standard di Bill Evans o uno dei sublimi Lied senza parole di Mendelssohn, il musicista vero inietta in quella musica la sua forza creativa. È come nella scrittura: che ciò che si racconti sia reale o meno non fa alcuna differenza, quello che conta è come lo si racconta, la scrittura. Dunque, ciò che hanno in comune, le musiche, è la disponibilità ad essere capite dal musicista e a sprigionare sempre qualcosa di diverso. 

NoteVerticali si occupa di letteratura e musica, ma anche di cinema. Se fosse un film, che film sarebbe “Il maestro e l’infanta” e a chi lei affiderebbe la regia?
Sarebbe certamente un film in costume, ma non un kolossal. Se dovessi scegliere e avessi la bacchetta magica penserei all’inglese Mike Leigh. 

Ha progetti nel cassetto? Può darci qualche anticipazione?
Ho in laboratorio due libri: un romanzo e una non-fiction. 

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...