In un romanzo dallo stile kafkiano, la giovane scrittrice giapponese descrive l’esistenza di tre ragazzi di belle speranze alle prese con il nuovo impiego 

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Grigia, fumosa e grande quasi come una città, animata da persone e macchine che si muovono in modo indistinto, artefatto, senza alcun apparente segno di vitalità. E’ la fabbrica, vista come lo sbocco professionale di maggiore attrattività per i giovani, per i quali ogni famiglia sogna una sistemazione. Ed è proprio nella fabbrica che arrivano a riporre sogni e speranze tre giovani giapponesi, Yoshiko, Yoshio e Ushiyama. Per la prima, giovane neolaureata, l’assunzione in fabbrica è la realizzazione di un sogno che si realizza: certo, i suoi desideri erano ben diversi dalla realtà. Nella fabbrica deve accontentarsi infatti solo di un contratto a tempo determinato e di una mansione decisamente al di sotto delle proprie aspettative: viene assegnata alla “Squadra distruttori”, unicamente impegnata ad azionare per tutto il giorno una macchina distruggi-documenti. Altro è invece il destino lavorativo di Yoshio, briologo esperto in muschi, che da ricercatore universitario affogato nel precariato si trova assunto in fabbrica a tempo indeterminato come direttore dell’ufficio “Sviluppo tetti verdi” del Reparto nuove soluzioni ambientali, aperto proprio in virtù della sua assunzione. Per Ushiyama, tecnico informatico, la chiamata della fabbrica risulta invece provvidenziale: il suo improvviso licenziamento presso l’azienda per cui lavorava lo aveva gettato quasi nella depressione. La fabbrica lo accoglie a braccia aperte, e poco importa che la sua mansione ora sia quella di correttore di bozze al reparto dati e documenti. Dall’informatica alla carta, dal digitale alla penna: ma sarà davvero un’involuzione? Ciò che conta è che lui stia bene, ciò che conta è che lo stress non entri più nella sua vita.

Con “La fabbrica”, Hiroko Oyamada, giovane scrittrice giapponese, si inserisce a pieno titolo nel solco della letteratura dedicata al mondo del lavoro tracciando un singolare quadro narrativo che colpisce per l’apparente leggerezza delle descrizioni. Uno stile acuto e sottile, per un’opera prima che dietro una narrazione conciliante offre una visione quasi kafkiana di una vicenda singolare e grottesca emblematica del post-industrialismo del nostro presente. I tre giovani protagonisti sono facce di uno stesso sistema alienante, dove la dimensione umana lascia il posto a un algido appiattimento relazionale. La fabbrica diventa così il nuovo luogo di culto della società postmoderna, in cui la vita del singolo, con le proprie contraddizioni di creatura mortale e imperfetta, naufraga in nome di una religione nuova, una presenza silenziosa ma costante che cambia le esistenze, garantendo la tranquillità del quotidiano in nome di una routine che uccide ogni ambizione, e con essa lo scorrere del tempo. E’ la triste riflessione di Yoshio, che a distanza di quindici anni, al termine della vicenda narrata, è costretto a confessare, prima a se stesso e poi a una sua interlocutrice, di non aver prodotto nulla con il suo lavoro, e osservando tutto ciò si scopre più vecchio e più stanco. Leggendo tra le pagine del libro è inevitabile non pensare a “Vincenzina e la fabbrica”, capolavoro in musica di Enzo Jannacci, colonna sonora di “Romanzo popolare”, indimenticabile film del 1974 diretto da Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi, Ornella Muti e Michele Placido tra gli interpreti principali. 

Il romanzo si avvale della traduzione di Gianluca Coci, iamatologo ed esperto di letteratura giapponese.

Hiroko Oyamada, La fabbrica, Neri Pozza, 208 pagine, 2021.

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...