Liriche e versi tornano ad animare favorevolmente il dibattito culturale dei nostri tempi. Segnaliamo le importanti raccolte firmate da Vera Linder, Riccardo Innocenti, Edith Dzieduszycka, Carlotta Cicci, Anna Cascella Luciani e Stefano Massari

Morta o viva, letta o ignorata, invocata o rimossa, pop o d’élite, la poesia parla e di poesia si parla e si scrive sempre di più: al di là dei come e dei perché, dei quanto e persino dei chi, è un fatto che, complice una non sempre pacifica convivenza sui e coi social, questa forma-non-forma, strana creatura espressiva, che chiamiamo “poesia” (qualcuno, anzi, ancora “Poesia”) negli ultimi anni si è a poco a poco ripresa uno spazio non indifferente nel dibattito culturale contemporaneo. Basti pensare, per esempio, che solo recentissimamente (Autunno 2022) alla poesia s’è aperto pure il Premio Strega. Quale sarà il destino di questo “Premio Strega Poesia”, se farà la fine del suo omologo narrativo (resta celebre la definizione data da Aldo Busi, che pure dello Strega rischiò il colpo nel 2012: “È un premio per analfabeti”), non possiamo saperlo – tanto vale affidarsi, sospesi tra l’ignavia e la speranza, al sempre comodo e mai retorico: “Bene o male, purché se ne parli”.

E allora, piccola deroga, di poesia parliamo anche noi, qui, oggi, all’inizio di questo 2023, segnalando solo alcuni tra i titoli più interessanti, per tenuta e peculiarità d’espressione, usciti nel corso degli ultimi mesi, consapevoli di non essere né esaustivi né obiettivi. Per correttezza e completezza, dichiariamo sin da subito che abbiamo deciso di dedicarci alle pubblicazioni meno, per dir così, fortunate a livello di collocazione e distribuzione editoriale: una panoramica minima, questa, dunque, che significa omaggio e personale apprezzamento.

Vera Linder, Corpus in a tongue, Arcipelago Itaca, 124 pp., 17 €

Un esordio che ha tutto fuorché le caratteristiche di un’opera prima, Corpus in a tongue di Vera Linder è un organismo vivo e vibrante, un libro da guardare e da ascoltare prim’ancora che da leggere: “Dormienza is a word that I rarely used sembra / unire il corpo all’appartenenza sembra richiamare / il bisogno di abbandono delle nostre cellule”. Scritto parte in inglese parte in italiano parte in una terza lingua che è entrambe e nessuna delle due, questo corpus-corpo letterario si muove combinando descrizione e riflessione, sensualità e rigore, tutto teso a delineare una biografia che si finge auto- per rappresentare lo specifico umano più generale: quella sinonimia tra libertà e prigionia che è la lingua. “When I add all the sensation then I am // almost when I add I am comp / I am compl when I add I add consonants, vowel, vows // what can you be so many things none / is complete”. Arricchisce il libro un’estesa prefazione di Anne Waldman, sacerdotessa della poesia contemporanea americana che in Italia ancora in troppo pochi (ri)conoscono e di cui Linder (nella foto a inizio articolo) sposa senza retoriche la lezione: ulteriore suo merito, questo, che regala una ventata d’aria buona alla poesia italiana e alla sua lingua.

Riccardo Innocenti, Lacrime di babirussa, NEM, 88 pp., 14 €

Titolo singolare, a effetto, e tanto ironico quanto tragico, se il babirussa è quella particolare specie di maiale selvatico le cui zanne crescono al punto da (rischiare di) perforargli il cranio, l’esordio di Riccardo Innocenti mescola lirica e prosa, espressionismo e descrittivismo, lungo un percorso ben strutturato ma come in continua riconfigurazione che sembra concepire la scrittura come atto tanto creativo quanto scientifico-osservativo: “Se per esperimento decidessimo / di mettere un topo in una piccola gabbia / insieme a una femmina fertile, i due / inizierebbero presto ad accoppiarsi…”. Fedele a quella ormai solida tradizione di poesia tecnico-prosastica, volentieri umoristica e, qui e là, erotica, che ha i suoi massimi esponenti in Wilcock, Zeichen, Bordini, ma senza subirne la statura e anzi costruendosi una versificazione tutta personale, Innocenti guarda al mondo, alla realtà, alle relazioni umane con occhio vigile, distaccato ma non freddo, disilluso ma non davvero disincantato, consapevole com’è che non c’è filtro, né d’estetica né d’etica, che tenga di fronte all’oggettivo, naturale, biologicamente ritmato incanto delle cose: “Nei giorni teneri del desiderio / la lingua si spinge fuori dal guscio / muscolo morbido dentro al Tartana / succhia la sabbia con la ketamina. // Stretta la carne nella sua conchiglia / mastica e ignora la forma che riempie / torna gabbiano, un giovane niente / piccolo vuoto scompatta la mente”.

Edith Dzieduszycka, Del liocorno l’ombra, Genesi, 116 pp., 15 €

Autrice prolifica e appartata, Edith Dzieduszycka conferma la limpidezza del proprio scrivere con Del liocorno l’ombra, raccolta composita che gioca con le forme più classiche della retorica (inversioni, iperbati, preziosismi lessicali) per scandagliare senza moralismi e sempre laterale il buio cui l’umanità sembra essersi condannata da sé: “Le acque / scivolando / sui cavalli di Frisia / trascinano / fuscelli / nel loro corso / corpi / che al largo si perdono / andando a seminare / di ossa / del mare il fondo”. Raffinata ed elegante nella tessitura dei versi (lo ricorda anche l’attenta prefazione di Silvio Raffo), melodica e consapevole dell’energia della propria naïveté, la raccolta, in dichiarato dialogo col miglior Caproni (“Ovvio / era ovvio / che si portasse appresso / il viaggiatore una valigia”; “Mi vidi in mezzo a loro / una sera d’autunno…Ero proprio io / o il pietoso clone / di un fantasma?”), liquida in un subito il “liocorno” per dedicarsi a quella che si potrebbe definire una biografia dell’ombra. Tema topico della poesia di tutti i tempi, nella raccolta di Dzieduszycka l’ombra si carica di un significato diverso e meno scontato: non un buio né un’oscurità maligna, non un rimosso che ci minaccia, ma qualcosa di troppo affine alla luce (e all’acqua, se è vero – e lo è! – che nell’etimologia di ‘ombra’ c’è il greco ‘pioggia’) per non sentirne la forza vivificatrice. E rivelatrice di “all’improvviso un canto”.

Carlotta Cicci, Sul banco dei pesci, L’Arcolaio, 121 pp, 14 €

 Fremente / dilaniata / felice / quanta umanità / ho messo al mondo”: basterebbero questi pochi versi, scolpiti e insieme liquidi, in un crescendo emotivo apparentemente contraddittorio che mette a fuoco con commovente disinvoltura la parola chiave e l’obiettivo di ogni scrittura (“umanità”), per comprendere la bruciante urgenza e l’onestà poetica di Sul banco dei pesci, raccolta d’esordio della romana Carlotta Cicci. Un libro che, mostrandosi diario, racconto volentieri autoriflessivo di un io che è figlia e madre e donna in un contesto umano e urbano che sembra impedire ogni possibilità di comunione e convivenza, un contesto in cui realtà e sua percezione, sua distorsione, si contendono violentemente il trono di una mente (di ogni mente: “non perderti di vista / potrebbe spaccarsi la realtà”), testimonia una condizione di scissione e frattura che ha il sapore dell’analisi, lo spessore dello scavo nell’altro (Altro) da sé: “bisogna compiere il viaggio / leggere nella mente degli uomini / poi cadere addormentati // non ci sono Signori qui? // qualcuno passa nella notte / disincarnato in atti terribili / capitoli e versetti…”.

Anna Cascella Luciani, A Lisabetta, raccontando al fuoco, Via Ozanam, 32 pp., 7 €

Ideato, progettato, finanziato e diventato realtà grazie all’impegno e all’intelligenza creativa dello scrittore Giorgio Ghiotti e del pianista Leonardo Laviola, il progetto culturale Via Ozanam è la prova concreta di come si possano fare eccellenti edizioni di poesia (e non solo) senza assecondare le logiche cannibali e plutocratiche della cosiddetta “industria culturale”. Due collane, un formato che è una garanzia di qualità (la plaquette), una storica tipografia (la Ograro di Roma) e una massiccia dose di caparbia passione per la parola: ecco via Ozanam. Tra i primi titoli pubblicati, oltre a L’età dell’oro dello stesso Ghiotti (una sorta di raccolta-di-formazione che regala versi intensi: “tu sarai libero e sgomento, lenzuola / senza freddo, cuore riflesso nel nero / meccanico del vento, tremando bambino / dall’energia divina metterai mani aperte / sull’amore, ustione e regola del mondo”) la collana di poesia vanta il ritorno alla pubblicazione di Anna Cascella Luciani, poetessa di rara eleganza che non sarebbe fuori luogo definire già un classico. A Lisabetta, raccontando al fuoco si può leggerlo come un unico pometto, compatto e stretto in un unico fiato, che, vivido e commovente nella sua oralità, nel suo continuo farsi e disfarsi nella mente del lettore-ascoltatore, mostra la reversibilità tra racconto e ricordo, memoria e presenza: “…facevo la spesa / per la casa – e non sapevo / allora che anni dopo – sola – / avrei abitato a lungo / ancora in quel rione / né sapevo che la vita / di Menina – giovane – da sola – / Menina che fu mia madre – / era trascorsa – aspettando / il compiersi dei nove mesi – / in quel rione”.

Stefano Massari, Macchine del diluvio, MC edizioni, 96 pp., 14 €

Aperto da alcune “parole trascritte durante una seduta spiritica”, Macchine del diluvio è più che un libro un’esperienza emotiva e intellettuale che costringe il lettore a fare i conti con l’indicibile. Franto, contratto, disarticolato ma compatto, lo scrivere di Massari porta i segni della fatica, il sudore dell’artigiano, fabbro o falegname di immagini e parole che sono sempre cosa anche quando sembrano solo simbolo: “la larva organica cristiana argilla moltitudine / separata in parti odiate e in parti alveari / la sorella crociata  che taglia i pani e gli infermi / i figli che portano il buio coi denti”. Forte di una tecnica metrico-ritmica che sa coniugare tradizione e innovazione (si leggano ad alta voce i suoi versi e ci si lasci stordire dalla lancinante imprevedibilità di certe rime, di certi rimandi corpo-sonori), costruendo un libro-mondo in cui precise e tangibili figure e visioni tornano e si richiamano l’un l’altra, Massari sembra materialmente intagliare la propria materia biografica e linguistica fino a realizzare singoli testi che hanno il peso e la storia del manufatto – tracce, testimonianze di passaggi di un umano che è tutti gli umani prima di lui: “avremo i nostri figli  legioni / i nostri fiori sentinelle / le vene disarmate  le gambe unite / come latitudini avverate  le mani / impareranno a riposare il pane / lo faremo insieme”.

Di Sacha Piersanti

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.