Giulio Andreotti. Basta solo questo nome per farne venire alla mente tanti altri: Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Henry Kissinger, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Golda Meir, Jimmy Carter, Moshe Dayan, Anwar Al Sadat. E poi Mino Pecorelli, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Roberto Calvi, Michele Sindona, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Vito Ciancimino, Totò Riina, Salvo Lima, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Nomi registrati nella politica e nella cronaca degli ultimi decenni, e tutti legati al nome di Andreotti, lo stesso che riecheggia come firma per far tornare alla mente quasi cinquant’anni d’Italia.
Dietro quella struttura fisica evidentemente fragile, sembrava inarrivabile, imperscrutabile, granitico, in una parola invincibile. Discepolo di De Gasperi e innamorato da sempre della politica, ne incarnò il fascino più torbido e nascosto, mantenendo sempre un aplomb e uno humour inarrivabili: “Entrando in Chiesa, De Gasperi parlava con Dio, io con il prete”, amava dire così, senza scomporsi, senza nascondersi. E’ stato amico di diversi Papi e leader potenti di tutto il mondo, americani, russi e arabi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, e riconosciuto innocente solo per episodi successivi al 1980 e non condannabile per episodi avvenuti in precedenza perché prescritti. Innamoratissimo della moglie Livia, invidiato da molti suoi colleghi, generoso ma solo in privato, autore di libri e superbo inanellatore di battute (“Il potere logora chi non ce l’ha”, forse la più famosa), amava andare a Messa a San Giovanni de’ Fiorentini, respirando l’alba romana in ogni stagione. Dipinto come Belzebù dall’immaginario popolare e in mille vignette di Forattini (che non ha mai querelato), ha incarnato la connivenza tra stato e mafia, in un inutile gioco al gatto col topo in cui sono finite tante vite innocenti e illuse dal desiderio di servire uno stato che era anche antistato. Cantato da Baccini e celebrato da divo nel capolavoro cinematografico di Sorrentino, dotato di una cultura vastissima, sponsorizzato dal Vaticano e campione di preferenze in ennemila elezioni, è stato l’emblema della politica “dei due forni”, che abbattè a colpi di inciuci la trama che Moro e Berlinguer avevano pazientemente intrecciato nella brevissima stagione del compromesso storico.Amico di Sordi e Fellini, tifosissimo della Roma, che gli regalò lo scudetto del 1983, e appassionato di cavalli, è stato nume tutelare di Cielle e dottor Frankenstein di Franco Evangelisti e Cirino Pomicino, gente che fanno sembrare delle educande Gasparri e Scaloja. Baciato da Riina, ha ricevuto tanti regali da Cosa Nostra, compresi quelli sgraditi, tra cui l’assasinio del suo delfino Salvo Lima e l’attentato a Falcone che gli causò l’azzoppatura per la corsa al Quirinale del 1992. Il giorno dei funerali di Borsellino, la rabbia della gente che si trovò a raccogliere il neoeletto presidente Scalfaro non lo avrebbe certo risparmiato, e forse sarebbe stato il primo politico linciato della storia d’Italia. Ma fu quell’estate del 1992 a condannarlo all’oblio politico: aveva appena settantatré anni, un ragazzino rispetto alle attuali età di Napolitano e Berlusconi che sono ancora sulla sedia. Eppure, ironia della sorte, era il Vecchio per eccellenza. Qualcuno ha pianto per causa sua, e qualcun altro ora abiterà in una strada che porterà il suo nome.
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