Al Teatro dell’Acquario di Cosenza è andata in scena la drammaturgia dei Fratelli Carchidi che affronta la sofferenza dell’animo umano alle prese con la propria solitudine. Ottima prova recitativa per Antonella Carchidi, incisiva la regia del fratello Francesco Ivan e di Francesco Aiello

Il tempo, inesorabilmente, offusca la mente e riempie il cuore di effimero, e svela il vero sempre dopo il suo passaggio. Lasciargli spazio significa farsi trasportare dalla caducità delle cose, dalla decadenza degli istanti che scorrono, dalla mortalità di un’esistenza destinata inevitabilmente a dissolversi. Lo sa bene Amanda, personaggio femminile che si mette a nudo su un palco scarno e buio, dove va in scena la propria sofferenza. La giovane donna soffre di acufene, un suono fantasma, senz’anima né corpo, ma talmente pressante da ossessionarla a lungo. La sua diventa allora una schiavitù logorante, alla stregua di una ferita d’amore che la conquista e non la lascia andare, impossessandosi del suo corpo e soprattutto della sua mente.

Amanda – Colei che deve essere amata”, andato in scena al Teatro dell’Acquario di Cosenza sabato 14 e domenica 15 maggio, è un colpo basso che atterra lo spettatore. La drammaturgia è opera dei Fratelli Carchidi, che si offrono alla piéce in anima e corpo: se Francesco Ivan, insieme a Francesco Aiello, cura la regia dello spettacolo, a vestire le fattezze della protagonista è invece Antonella, che, nonostante sia sola sul palco, arriva a sdoppiarsi riempiendo la scena con una determinazione che le riconosce autorità e carattere. Incuriositi dalla precarietà di un allestimento che decontestualizza l’ambientazione per offrire tutta la capacità possibile al suono, distorto, macabro, ossessivo, guardiamo Amanda preda della propria incredula follia. Un’ossessione irrefrenabile per il disagio esistenziale, uno sdoppiamento di personalità che gioca come un serial killer alla continua ricerca della prossima vittima. “Per amore della felicità si rinuncia alla felicità”, ripete Amanda, o meglio il suo alter ego inconscio che, rifugiandosi nel cerchio della propria incomunicabilità a causa del disturbo che la tormenta, ne ha acquisito il mantra in modo talmente forte da regalargli addirittura un’identità. Acufene diventa allora il suo compagno di vita, colui che ne detta tempi e modi, e che la convince addirittura ad abbracciare il vincolo di un sentimento nobile come il matrimonio. E così quel legame che avrebbe dovuto essere meta ambita per lei sublimando la propria apertura all’universo, diventa in realtà pesante come un macigno e chiude con un lucchetto d’acciaio il volo di desideri e di promesse della protagonista. L’amore diventa sentimento tossico, di sopraffazione e di dominanza sull’incredulità puerile e imbelle della protagonista, e ben presto la melodia della marcia nuziale si fa ritmo marziale a passo d’oca che rimanda alle peggiori dittature.

In fondo, l’amore è anche questo”, va ripetendo Amanda in un monologo che sconfina in un doloroso lamento. Gli attimi di lucidità diventano barlume di una coscienza che si ribella alla propria sconfitta, cercando una via di fuga che sembra non esserci, travolgendo la protagonista in un panegirico di allucinazioni. “Bisogna mischiarsi per vivere”: sembra questa la conclusione desolante di chi non vorrebbe rinunciare alla propria libertà ma deve farlo quasi come una ragione di vita. Intanto quel rumore non va via, sembra davvero per sempre, come le storie d’amore, quelle vere. II disturbo uditivo è metafora di una malattia del vivere, in cui la sofferenza sembra placare se ci si arrende ad essa, incapaci di reagire. Le musiche di Remo De Vico si trasformano in algoritmo ricorsivo di frequenze distorte, come una stazione di onde radio in procinto di captare sinusoidi infernali e diaboliche. Poi, d’improvviso un fischio, questa volta non più derivato dalla follia della patologia acufenica, ma educato su note che richiamano un’armonia quasi familiare. È la voce senza tempo di Mina, sono le note de “La voce del silenzio”, che restituisce finalmente quell’equilibrio che sembrava essersi smarrito per sempre. “Voglio sentire le farfalle nello stomaco!” grida Amanda, trovando finalmente la forza per distruggere quel confine che la richiudeva nella propria limitata precarietà. Il cerchio di solitudine è dissolto, i cavalli imbizzarriti la attendono, come la vita.

Nei sessanta minuti di spettacolo, la forza dirompente di Antonella Carchidi buca il palcoscenico. L’attrice cattura l’attenzione di chi la guarda senza trovare attimi di sbandamento, incarnando un personaggio assai complesso da rappresentare con una naturalezza che le appartiene, e questo certo non solo per le diverse repliche dello spettacolo, già approdato alla semifinale del Premio Scenario 2019 e finalista al Premio Pimoff per il teatro contemporaneo nell’edizione del 2020. Il sogno di Amanda è il sogno di chi vuole liberarsi delle proprie paure per dare finalmente ascolto alla propria attitudine, alla propria vocazione, al proprio io che si apre liberamente all’altro senza lasciarsi soggiogare. Una metafora che è grido di libertà, e che coinvolge totalmente chi la osserva, arrivando a trasferirla per un attimo sulla propria pelle.

AMANDA – Colei che deve essere amata
ideazione e drammaturgia Fratelli Carchidi
regia Francesco Ivan Carchidi & Francesco Aiello
con Antonella Carchidi
Musiche originali Remo De Vico
Direttore tecnico Jacopo Andrea Caruso
Direttrice di produzione Maria Grazia Teramo
Una produzione LaboArt

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: