E’ tornato in scena al Teatro Manzoni di Roma lo spettacolo interpretato da Maria Letizia Gorga e diretto da Pino Ammendola.
Dopo centinaia di repliche, a vent’anni dalla sua prima messa in scena e a quindici dall’uscita della sua versione in dvd, Avec le temps, Dalida, scritto e diretto da Pino Ammendola e interpretato da Maria Letizia Gorga, torna in scena al Teatro Manzoni di Roma con la grazia e la potenza di sempre, le stesse che caratterizzano la sua ispiratrice e protagonista: Dalida, regina della musica che proprio in questo 2023 avrebbe compiuto novant’anni.
Ricorrenze, forse coincidenze, queste, certo di pura cronologia, che per gli spettatori assumono però un valore in più, se l’aria che si respira nel guardare e nell’ascoltare Gorga, accompagnata da un trio di ottimi musicisti, è quella del rito più che dell’omaggio, dell’evocazione più che dell’interpretazione. Senza tentare la strada più immediata dell’immedesimazione, infatti, Gorga qui non è, non vuole essere né tantomeno fare Dalida, ma assume il ruolo del mezzo (del medium), al centro esatto tra strumento e agente, grazie al quale è possibile ricostruire e improvvisamente ripresentare, far manifestare, quello che è stato il senso profondo del passaggio di Dalida su questa terra. Diva e ritrosa, star e stella che bruciava di passione e di dolore, d’amore sempre tragico e d’inaspettati lampi di gioia e pura (auto)ironia, Dalida sembra insomma tornare nel qui-e-ora della scena. Niente di davvero mistico, si badi, né di solo spirituale, eppure forte di una carica troppo simbolica per non essere anche un po’ liturgica, Avec le temps, Dalida si mostra cioè come l’esempio più riuscito di un teatro musicale, di un concerto teatrale, che sa farsi appuntamento collettivo, momento di viva condivisione in virtù della quale artista e spettatore sono chiamati a compartecipare, guardando in un’unica direzione che dipende ma trascende il qui-e-ora della scena – Dalida è lì, e a guardarla e ad ascoltarla non siamo solo noi, ma anche la stessa Gorga che la canta e la ricorda.
Commovente sovrapposizione di piani, natura meta- di punti di vista felicemente instabili, questa per cui Gorga è a un tempo interprete e spettatrice anche lei, che si deve anche a una drammaturgia e a un obiettivo di fondo che sarebbe ingiusto non sottolineare: strutturato a quadri, tra recitati e canzoni, secondo una linea che mescola didascalia e aneddoto, storia privata e storia sociale e di costume, con l’io che racconta ora lirico, interno, a tratti fan, ora narratore, esterno, volentieri informativo, Avec le temps, Dalida è anche, in definitiva, l’atto di riconoscenza, il ‘grazie’ che Gorga e Ammendola rivolgono all’artista italo-francese. Un ‘grazie’ che non è celebrazione, applauso di un momento, ma fondamentale e profonda messa in scena di un passaggio artistico ed umano che oggi è balsamo per gli occhi e per le orecchie – per le coscienze, anzi, se all’impegno totalizzante del fare arte per essere (l’impegno di Dalida, l’impegno di Gorga) si sta ormai sempre più sostituendo il totale disimpegno del fingersi artisti tanto per esserci.
Un omaggio, certo, ma allora anche uno schiaffo, materno e perciò non meno sonoro né potente, questo teatro, anche contro chi s’ostina a chiamarle ‘canzonette’, queste canzoni (da A ma manière a Fini la comédie, da Ciao amore, ciao a Bambino), a pesarla distrattamente e trovarla ‘leggera’, questa musica, ché Gorga sa bene (e lo sa la sua propria storia di sempre raffinata interprete, ma mai per questo altera o al sicuro nell’avorio), e qui lo ribadisce, quanta vita e quanta – ma sì! – poesia ci sia dentro e dietro e sotto questo che agli occhi disattenti del mondo sembra solo spettacolo. “Non è un gioco il carnevale”, cantava qualcuno, e non è un gioco nemmeno la memoria, mai, nemmeno quando sembra divertirci o rallegrarci. Memoria che è parola chiave, se Avec le temps, Dalida è anche il frutto di una ferrea disciplina del ricordo, un modo per resistere all’oblio, un esemplare esercizio d’etica civile: ben più della lettera, ben oltre lo spirito, quello che questo lavoro sembra fare è mettere in scena l’essenza esatta di cos’è stata e cos’è ancora “Dalida”, più per gli altri che per sé – un mito, una leggenda, ma sempre al di qua: nell’umano solo umano.
A dircelo, oltre che con la voce e la parola, è Gorga con il corpo, con un gesto che è stilema, simbolo e figura: due braccia sempre tese, a chiedere in un tempo sia ascolto che perdono, dirette apparentemente verso l’alto, a quel cielo cui comunque tocca poi guardare, ma in realtà rivolte tutte al pubblico, quel “noi” che siamo sempre tutti, due braccia che sembrano insieme salutare per l’ultima volta e accogliere per la prima un’anima o un’amica – due braccia che non possono non folgorarci come l’improvviso rianimarsi, carne e vita, di quella statua che sta lì al cimitero di Montmartre a dire che sì, si muore e ci si uccide, ma quel che conta resta, e quel che resta è canto.
AVEC LE TEMPS, DALIDA
con Maria Letizia Gorga
scritto e diretto da Pino Ammendola
arrangiamenti Stefano De Meo
elementi scenici Raffaele Golino
coreografie Jacqueline Chenal
pianoforte Stefano De Meo
violoncello Laura Pierazzuoli
fiati Luciano Orologi

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.