Abbiamo incontrato uno dei protagonisti della serie tv Amazon Prime Video che racconta a tinte pop l’ascesa di un’adolescente nel mondo della criminalità
L’Italia del 1986 era davvero un altro paese. Edonismo e leggerezza dominavano incontrastati, così come le tv commerciali del Biscione e i loro martellanti “consigli per gli acquisti” che diventavano veri e propri messaggi subliminali. In radio il brit-pop invitava a volare basso, e DeeJay Television insegnava l’inglese meglio del miglior insegnante in una classe annoiata e distratta. In tv c’era ancora posto per Hollywood, e vedere Dorothy Malone che giurava amore eterno a Rock Hudson faceva ancora il suo bell’effetto. Ma la pubblicità invadeva tutto, e così capitava che una Big Babol potesse trasformarsi in una pistola con cui uccidere i nemici. Così pensava Alice Gianmatteo prima di imbattersi nelle sue origini e diventare, o tornare ad essere, Alice Barone, affiliata alla ‘ndrangheta. Un incipit dirompente per la serie tv più innovativa e originale del momento, “Bang Bang Baby”. Ideata da Andrea Di Stefano e diretta a sei mani da Michele Alhaique, Giuseppe Bonito e Margherita Ferri per Amazon Prime Video, è ispirata al romanzo autobiografico di Marisa Merico L’intoccabile, in cui la protagonista, figlia di Emilio Di Giovine, uno dei più importanti boss della ‘ndrangheta degli anni ‘80, a 19 anni, dopo l’arresto del padre, inizia a gestire i suoi traffici di armi e droga. “Bang Bang Baby” è ambientata a Milano nel 1986 e narra invece le vicende della famiglia Barone, di origini calabresi, un vero e proprio clan criminale dedito al narcotraffico al quale la protagonista Alice si riavvicina in età adolescenziale, appena scopre che suo padre, che lei credeva morto, è in realtà vivo e in carcere, e soprattutto bisognoso di aiuto. Se il plot del romanzo della Merico è certamente drammatico, poiché agisce in un contesto delinquenziale ampiamente conclamato, la serie Amazon si distingue per freschezza narrativa e spunti di colore che offrono allo spettatore quel giusto mix tra violenza e ironia che ricorda il miglior cinema di Quentin Tarantino. A interpretare Alice è l’esordiente Arianna Becheroni, mentre attorno a lei ci sono volti assai noti del cinema e della fiction italiana come Adriano Giannini, Antonio Gerardi, Dora Romano, Lucia Mascino, Ernesto Mahieux, Mattia Sbragia e Nicola Rignanese. Insieme a loro, anche Carmelo Giordano, attore di origini cosentine che nella serie interpreta Nitto Barone detto Gambacorta, fratello del nonno di Alice e braccio destro della cognata Lina, nonna di Alice e vera leader del clan. Abbiamo avuto modo di incontrare Giordano e rivolgergli alcune domande. Qui la nostra intervista.

Come è nato il tuo coinvolgimento nella serie e qual è stato il primo pensiero che hai avuto quando hai letto il copione?
Nel modo più classico per un attore, attraverso il processo della selezione, il primo provino in Calabria, con “Obiettivi Creativi” e Michela Forbicioni, poi a Roma, dove, addirittura nel novembre del 2019, sono stato chiamato ad incontrare Andrea Di Stefano, ideatore della serie e primo regista indicato, che mi ha scelto per il ruolo di Gambacorta. Le battute che ero stato chiamato ad interpretare per il provino non sono state inserite poi nella stesura finale, era una scena all’interno di un autogrill mentre la famiglia saliva a Milano, e mi avevano dato una immagine del mio personaggio diversa da quella che poi ho maturato leggendo la prima stesura del copione: rozzo, arrogante, in pratica “tamarro” e scostante. Già a gennaio 2020 mi ero ricreduto con la prima prova costume: i panni che indossavo avevano una certa eleganza, una certa ricercatezza che cozzava con la prima immagine. Col tempo, sono entrato in Gambacorta e nell’idea che avevano di Gambacorta i registi, nel frattempo cambiati.
Nitto Barone detto Gambacorta è un personaggio sui generis, che porta nella storia un’idea quasi romantica del mafioso: le sue attenzioni verso donna Lina sono evidenti, come è evidente la sua devozione infinita verso quella che è la leader indiscussa della famiglia. Qual è stato il tuo rapporto con Dora Romano, l’attrice che interpreta Donna Lina, e in generale con tutti i protagonisti della serie?
Quello che vediamo di Gambacorta nella serie è, ovviamente, l’arrivo di un vissuto precedente. Fratello del defunto marito di Lina, da sempre innamorato della cognata e nell’ambiente in cui vive ed opera questo è una colpa. Terminale al sud dei traffici della famiglia Barone, con la morte del fratello nutre più speranze, in amore e in affari. La devozione è la summa di queste speranze e il riconoscimento del lavoro svolto dalla cognata per i traffici in Lombardia e per il polso mostrato. Dora è un’attrice meravigliosa e una splendida persona, ci siamo trovati in sintonia e grazie alle nostre professionalità è stato facile intenderci e riuscire al meglio nell’assecondare i desiderata di Michele Alhaique e degli altri registi. Gli altri protagonisti sono tutti attori di grande esperienza e bravura, in massima parte provenienti dal teatro. I casting director hanno creato una grande ensemble e l’amalgama fra attori più datati e splendide giovani realtà ha creato il prodotto che vediamo, montato splendidamente a mio avviso.

Un attore interpreta il proprio personaggio immedesimandosi in esso, ma, inevitabilmente, porta nel personaggio qualcosa di sé. Cosa ha portato Carmelo Giordano in Gambacorta e cosa invece ti ha lasciato Gambacorta?
In Gambacorta ho portato la mia cifra attoriale che, a partire da Ruzzante, è quella di vivere la vita che devo interpretare. Non potendo trovare, dentro me, sensazioni ed emozioni ‘ndranghetistiche, mi sono concentrato molto su quello che avrei fatto o potrei fare, anche di estremo poiché era chiaro che non avrei potuto pormi nel caso specifico limiti morali o etici, per una persona di cui sono stato, o potrei essere, perdutamente innamorato calandomi, senza compromessi nel suo mondo fino a divenire complice totale e prigioniero del non volere e potere sfuggire verso vite più facili. Gambacorta mi ha dato tanto, principalmente nel campo delle esperienze con professionisti eccezionali in ogni settore. Più personalmente mi ha dato la possibilità di vivere una Roma lunare, di essere padrone di giornate intere senza gente per strada. Abbiamo girato in pieno lockdown e con un tampone ogni due giorni per evitare il blocco della produzione. Mi ha fatto lavorare in periodi di fermo totale e ha confermato il rispetto che è necessario per ogni singola pedina di un mondo altamente parcellizzato.
In prima battuta, la famiglia Barone risponde appieno allo stereotipo dei meridionali “pezzi di malacarne”, ossia persone senza scrupoli dedite ad attività criminali. Non c’è il rischio che questa fiction, dove pure i personaggi sono attraversati da una certa dose di ironia che alleggerisce il contesto da cronaca nera in cui sono avvolti, possa alimentare un pregiudizio duro a morire?
Se si pensa ai traffici in cui i Barone sono implicati, o se si ragiona solo sulle aspettative di una serie che parla di una famiglia “criminale” si può avere questa impressione: molti dei commenti al post di lancio di Prime Video all’uscita del primo teaser andavano in questa direzione. Quello che mi ha infastidito di più era assolutamente tranchant: “Non c’era davvero bisogno di un’altra serie sulla delinquenza meridionale con interi dialoghi in dialetto calabrese che poi dialetto non è?” e questo senza che fossero uscite le prime puntate. La realtà è diversa e già dall’arrivo confusionario della famiglia dal Sud si comprende la cifra della serie. Come dici tu, i personaggi sono delineati con ironia e, anzi, abbiamo dovuto faticare molto perché non risultassero macchiettistici. La serie si deve guardare attraverso gli occhi e sentirla attraverso le orecchie di Alice, cresciuta al Nord e che la Calabria non l’aveva mai nemmeno incontrata, ed è proprio in questa direzione che va la sublimazione del dialetto calabrese e alcune delle scene cult: penso principalmente al ricordo della “famiglia felice” che guida ad una visione diversa in cui è necessario farsi coinvolgere senza pregiudizi.
Al di là della fedina penale, i protagonisti sono di fatto degli emigrati al Nord. L’emigrazione è un elemento che noi ‘terroni’ portiamo marchiato nell’anima: non c’è infatti una famiglia che non abbia una storia di emigrazione tra i propri componenti. Spesso si parte per non tornare più, ma quasi sempre il desiderio di tornare resta un elemento fortemente caratterizzante. Secondo te l’arte e la cultura possono essere le chiavi segrete attraverso cui “ribaltare la partita”, ossia far sì che chi intraprenda la strada del cinema o del teatro, pur spostandosi, possa continuare a vivere al Sud?
In realtà è un serpente che si morde la coda: conosco molti artisti calabresi che lavorano in giro per l’Italia e hanno base in Calabria. Dipende dal settore in cui si lavora. In tutti comunque il fattore principale è la competenza e, di conseguenza, la notorietà. Per il teatro, se si entra in circuito, la residenza dell’attore ha poca importanza. Nei tempi più recenti, agli storici si sono aggiunte compagnie, e singoli, giovani che riescono a lavorare su tutto il territorio nazionale mentre alcune, altrettanto valide, hanno scelto altre città come punto di partenza. Per televisione e cinema Il primo impulso è quello di prendere la residenza nei luoghi dove è più presente la possibilità di lavorare, dove c’è più fermento e si può entrare in competizione perché, per iniziare, per figurazioni e piccoli ruoli è richiesta la residenza per ridurre le spese. La Calabria comincia ad essere piena di figure professionali riconosciute a tutti i livelli, parlo di maestranze tecniche e di figure artistiche, non può che giovarsi del disegno della Regione degli Studios di Lamezia che, in uno con il sostegno finanziario a produzioni sempre più importanti, può creare un magnete attrattivo di grande forza. È tuttavia necessario che si applichino gli esempi di tutte le altre film commission e, in controtendenza alle ultime indicazioni, si stabilisca un limite percentuale di figure locali per punteggio.

Qual è secondo te il più grosso pregio di noi meridionali? E quale invece il più grosso difetto?
In senso generale, e a mio avviso, il pregio più grosso dei meridionali coincide anche con il più grosso difetto ed è la passionalità. Affrontiamo tutto, lavoro, amicizia, rapporti andando oltre la normalità e se questo ci permette di dare tutto noi stessi, spesso altera la valutazione della situazione da affrontare e ci espone a errori di scelta.
La tua vocazione attoriale nasce in età matura. Puoi raccontarcela?
No, in realtà no, da giovanissimo sono cresciuto con le commedie di Gilberto Govi che trasmetteva l’unico canale della RAI e con tutto il teatro in bianco e nero degli anni successivi, Romolo Valli e Rossella Falk, il ciclo di Eduardo De Filippo. Per il teatro ho studiato fra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli ’80 per poi fare altro senza abbandonare, nel mio piccolo, le scene e senza allontanarmi troppo dalle tavole. Il cinema arriva invece in età matura e quasi per caso quando Alice Rohrwacher mi ha scelto per interpretare Ignazio in Corpo Celeste. Da li ho iniziato a rispondere a richieste di partecipazione e partecipato più consapevolmente a casting e a lavorare in film e fiction, oltre a tanti corti universitari e poi Arbëria, Calibro 9 e Bang Bang Baby.
C’è un film o uno spettacolo teatrale che avresti voluto interpretare, e perché?
Sì, “Uomo e Galantuomo” di Eduardo, puro metateatro. Mi sarebbe piaciuto perdermi in quelle indicazioni registiche e nei ritmi di quella commedia con il culmine delle prove. Una delle frasi che ho in testa da sempre, e tutto quello che quella frase, in termini di interazione e rapporto con la scena e gli altri personaggi, crea è: “…’Nzerra chella porta”.
In questi due anni di lockdown cinema e teatro hanno subito una forte penalizzazione. Si parla finalmente di ripresa e tutti si augurano che possa essere davvero così. Cosa ha significato per te nel periodo di stop non poter avere il contatto con il pubblico?
Vero, tanti miei colleghi ed amici hanno subito un fermo totale, io no, durante tutto il periodo ho lavorato, Bang Bang Baby, presentato all’inizio come “Mafia Princess” sarebbe dovuto partire a marzo 2020, proprio durante l’esplosione della pandemia. Dopo i primi tempi di incertezza e le rassicurazioni da parte dell’agente e dei contatti di produzione, formalizzati i protocolli antiCovid America-Italia, nello specifico Amazon-Wildside, ho incominciato ad interiorizzare il personaggio fino all’arrivo del contratto definitivo e all’inizio in ottobre delle riprese negli studi Lumina dove era stata costruita la “casa di nonna Lina”. Mi sono sentito fortunato ma non ho mai smesso di seguire il dibattito sul fermo imposto dal lockdown, ho partecipato con tanti altri alle manifestazioni di Largo Argentina. Resta il fatto che durante il periodo ho lavorato e, quindi, ho sentito di meno il blocco delle attività.
Quali saranno i tuoi prossimi impegni? Puoi anticiparci qualcosa?
Evito, per scaramanzia se vuoi, di essere preciso, ma ho in vista la partecipazione a due film molto importanti, uno finanziato da diverse film commission ed uno indipendente con colleghi con cui sarà un onore e un piacere lavorare, e poi un corto di un autore calabrese, in cui sarò protagonista, che mi ha letteralmente affascinato, per storia e scrittura. Sono invece in dirittura d’arrivo altri due progetti a cui tengo moltissimo: “La quarta regola” di Luigi Simone e un corto diretto da Francesco Gallo sulla morte del calciatore del Cosenza Donato Bergamini.
Idealista e visionario, forse un pazzo, forse un poeta, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…