Siamo troppo giovani per ragionare e troppo cresciuti per sognare. Partendo da questa intuizione proviamo a parlare dello spettacolo che mr. Bryan Ferry ha portato a Milano la scorsa settimana. Quarantacinque anni di carriera e una classe assolutamente inalterata sono il patrimonio in dote all’artista britannico, il tutto a favore di una performance musicale che ha letteralmente paralizzato gli spettatori del Teatro degli Arcimboldi. Una sapiente miscela di pezzi vecchi e nuovi hanno intrattenuto, divertito e fatto sognare i fans del leader storico dei Roxy Music proiettando la scena glam rock londinese anni 70 direttamente nel nuovo millennio. Le continue dimostrazioni d’affetto del pubblico, in una sala assolutamente gremita, fanno capire come un artista lo si è per sempre. Due ore di concerto senza alcun cedimento nella passione e nell’abnegazione alla causa di chi, da tanto tempo, non si limita a svolgere una professione ma crede che la musica sia una vera e propria missione attraverso la quale proporre se stessi e il proprio lavoro a prescindere da nuove tendenze o rivisitazioni varie.

Una musica completa, per una voce e una presenza scenica che oggi come allora, riesce a dare un nuovo senso alla coerenza delle note, facendole proprie. A prescindere dai tempi è e sarà sempre lo stile a giudicare qualsiasi lavoro. Ferry ha proposto tutte le hit che i Roxy Music hanno regalato alla scena musicale negli anni, lo ha fatto con quel gusto e quel sapore che ricorda una generazione di artisti di altri tempi. Accompagnato da una band di estremo spessore, il sound risulta essere quello delle grandi occasioni. Chris Spedding, decano del classic rock inglese, è il punto di riferimento per un gruppo eterogeneo di strumentisti che si cimenta perfettamente sia con i brani glam dei Roxy che con le atmosfere più intimiste e new romantic proprie degli anni 80.

L’assenza di nuovi album da promuovere trasforma un semplice concerto in una vera e propria testimonianza. La sensazione è quella di assistere allo spettacolo di un esponente di un periodo che anno dopo anno appare sempre meno limpido se non nel ricordo e nelle note. Senza musica creata a tavolino si sente e si vede tutta quella saggezza che chi lottato per farsi accettare porta ancora con sé . Mentre tutto il pubblico si pone all’unisono la medesima domanda: quando sentiremo Slave to Love? La canzone arriva quasi subito, a voler mischiare le carte e dichiarare che un concerto non è che l’insieme di emozioni senza alcuna regola precisa. La misura di alcuni spettacoli non sarà mai colma anche perché in attesa ci sono brani quali More Than This, in grado di creare un atmosfera che supera la semplice musica (ricordiamo l’interpretazione di Bill Murray in Lost in Traslation). E poi Love is the drug, Re make \Re model, tutte canzoni che da sole varrebbero il prezzo di un biglietto, eterogenee per brevità notevoli. Suoni che spaziano dai Jefferson Airplane a David Bowie fino ad arrivare alla generazione talent show con un fascino che non esisterà mai più se non nella grande fortuna di averle sentite dal vivo. La somma delle parti fa pensare a un artista totale, forse il miglior concerto del panorama milanese 2017 e, a indegno parere di chi scrive, nei cinque concerti migliori che una vita possa riservare. Anche quando si esibisce in cover mr. Ferry non si limita a una mera esecuzione, ma estende la sua cifra stilistica a brani che pur non essendo del suo repertorio assumono , attraverso la sua voce, una dimensione unica. Da Jealous Guy a Like a Hurricane, Brian non riserva nemmeno un briciolo di energia dando tutto quello che un professionista dovrebbe dare al suo pubblico. Lo stile è importante. Tanta gente urla la verità, ma senza stile è inutile, non serve.

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Di Paolo Quaglia

Nasce a Milano qualche anno fa. Usa la scrittura come antidoto alla sua misantropia, con risultati alterni. Ama l’onestà intellettuale sopra ogni altra cosa, anche se non sempre riesce a praticarla.