Può il corpo singolo di un uomo contenere il cuore universale degli umani? Può il tempo limitato di una scena restituire l’infinito ricominciare della Storia? E la gabbia dell’immagine può farsi tramite della sconfinata libertà della parola? può, ecco, l’ovunque e sempre de À la recherche du temps perdu trovare spazio nel qui-e-ora del teatro?

Che la risposta a queste o simili domande sia affermativa o negativa poco importa, ciò che conta è farsele senza nemmeno formularle, o formularle come ci è capitato di formularle a noi, su un’agendina del 2021 appartenuta a qualcun altro, senza nemmeno guardarla, nel semibuio del Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve per la prima nazionale dei Cahiers d’Écriture, due studi preparatori per una futura opera sul capolavoro di Marcel Proust, di Marco Filiberti. Filiberti, che di quelle e simili domande ha fatto il motore della propria ricerca, perseguendo, in anni di indefessa attività tra teatro, cinema e scrittura, più per istinto che per scelta, vocazione più che decisione, un’idea del fatto artistico che a ‘prodotto’ e ‘visibilità’ sa sempre preferire ‘creazione’ e ‘visione’.

Prima tappa di un percorso destinato ad impegnare il regista milanese per i prossimi anni (almeno fino al 2027, stando al cronoprogramma stilato con la pazienza del cesellatore, la precisione del chirurgo: la lucidissima follia dell’artista), questa presentazione, da qualunque lato la si voglia considerare, ha tutte le caratteristiche della prima volta: la prima volta per La recherche, che viene scenicamente considerata nella sua compattezza di organismo sì composito ma non davvero atomizzabile; la prima volta per il teatro contemporaneo, che guarda alla grande narrativa non come inerte giacimento di stimoli o immagini cui attingere alla bisogna, ma come creatura viva da cui farsi guidare; la prima volta per lo stesso Filiberti, che si muove su un terreno per lui davvero inedito – no, non quello della grande letteratura, non quello dell’epopea, che anzi gli sono più che famigliari (si ricordi, tanto per citare uno dei suoi precedenti lavori, la trilogia Il pianto delle Muse), ma quello dello “studio”.

Regista delle macro-architetture, delle opere-mondo dagli allestimenti grandiosi presentati nella loro veste definita e rifinita, Filiberti decide qui di aprire il proprio laboratorio, dirigendo un cast di undici performer in due momenti in progress sensibilmente micro-, dalla durata contenuta, privi di scenografia, costruiti a partire da specifici nuclei tematici che si sviluppano per un principio di pura analogia.

Il primo, dall’eloquente titolo Sulla gelosia, o dell’illusione del possesso di un altro essere umano, si concentra su tre coppie di personaggi (Marcel/Albertine, Swann/Odette, Charlus/Morel) per indagare quello che non sbaglieremmo a considerare il cuore di gran parte della Recherche, nonché leitmotiv della produzione dello stesso Filiberti: l’amore umano come ossessione, istinto di sostituzione, desiderio mimetico (come già nel Parsifal, si affaccia qui maestro René Girard) e potentiae cupido che più cresce più consuma, più si ostenta autentico e totale, più si rivela co-costruito e feticistico. A veicolare tutto questo, oltre a una regia che sembra adottare quell’impersonalità radicale che ha da sempre caratterizzato la migliore letteratura francese (e non solo) – quell’impersonalità in virtù della quale è impossibile cogliere davvero chi-sia-chi e dove, chi-parli-a-chi e davvero perché – più che le parole degli interpreti sono i loro corpi che, complici le preziose coreografie di Emanuele Burrafato, fingono una libertà la cui natura è prigionia, leggeri ma costretti come sono in un continuo, plastico vorticare senza vera via d’uscita.

Il secondo Cahier, intitolato On dit qu’un prompt départ, o di Phèdre quale doppio del narratore, ritmatissimo nei testi e nei dialoghi, dislocando lo spazio scenico e articolandosi su più livelli volentieri meta-, affonda ancora lo scandaglio nelle pulsioni e nelle ossessioni di specifici personaggi del romanzo (Berma, Marcel, Rachel, Oriane de Guermantes), aprendosi, con felice e proustiana scelta intertestuale, al mito greco e alla tragedia raciniana, a riprova di una totale continuità, di una classicità sempre contemporanea, di una contemporaneità sempre classica, quando il bersaglio dell’indagine è, e non può che essere, l’umano solo umano.

Ed eccolo qua, in fondo, il punto di contatto e di continuità tra i lavori precedenti di Filiberti e quest’inedita incursione nello “studio” come preludio, eccolo qua l’inesauribile rovello dell’arte quand’è vera: quel tutto e niente insieme, quel talmente immenso da contenere pure il suo proprio opposto che chiamiamo ‘umano’, sempre uguale e sempre diverso, sempre sé e altro da sé, apparentemente qualcuno ma sempre poi tutti.

CAHIERS D’ÉCRITURE
Scritto e diretto da: Marco Filiberti
Coreografie e movimenti scenici: Emanuele Burrafato
Con: Daniel De Rossi, Diletta Masetti, Giovanni De Giorgi, Zoe Zolferino, Luca Tanganelli, Martina Massaro, Pavel Zelinskiy, Alessio Giusto, Olimpia Marmoross, Irene Ciani, Alessandro Burzotta

 

 

Di Sacha Piersanti

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.