“Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema / … / e un alito può trapiantare / il mio seme lontano” recita una delle poesie più celebri di Rocco Scotellaro e davvero sembra filo d’erba, davvero erba tremante, davvero sembra trapiantato e tornare, rinascere, qui, il suo seme e lui, qui sul palcoscenico del teatro di Villa Lazzaroni, un palcoscenico che non ha nemmeno bisogno di scenografia, tanto è tutta Storia, tanto è tutta vita e campi, canti, grazie alla rievocazione di Contadini del Sud, spettacolo, ormai storico, ideato e diretto da Ulderico Pesce che omaggia e interpreta il grande poeta lucano raccontandone, filologico ma mai cronachistico e anzi sempre suggestivo, la vita. E l’opera – cioè, l’opera.
Sì, perché ciò che di Scotellaro Pesce soprattutto coglie e restituisce, appassionato ma rigoroso, emotivamente coinvolto ma sempre lucido, è proprio l’impossibilità di scinderle, la vita e l’opera, l’inutilità di ogni tentativo di tenerle separate e di decidere cosa dipenda da cosa: pubblico e privato, artistico e politico, elegiaco e didattico, giornalistico e poetico – tutto concorre a costruire un’identità unica, non frammentabile, un concentrato di passione lirica e civile che, nell’arco breve di trent’anni, ha saputo imporsi e farsi esempio.
E questa totale coerenza, quell’umanissima urgenza non tanto di essere, ma proprio di esserci che fu di Scotellaro, Pesce la racconta e ce la mostra sulla scena non solo costruendo una drammaturgia che mescola opera e commento, testo e contesto, informazione biografica e pagina di letteratura, ma anche scegliendo di interpretare, lui singolo, trasformista e spesso senza soluzione di continuità, insieme a Scotellaro anche alcuni di quegli umani che sostanziano il libro-inchiesta Contadini del Sud. Un felicissimo espediente meta-, questo di farsi interprete fisico e scenico tanto dell’autore quanto dei suoi personaggi-persone, che dice subito e molto, forse già tutto, di Rocco Scotellaro, se lui stesso, in effetti, decise di raccontare quei contadini e quelle vite tramite la loro esperienza diretta, la loro voce viva. Voce viva di cui Pesce a sua volta si fa interprete e veicolo, tra dialetto e inflessioni dialettali che si portano dietro e tengono dentro tutta la tragicità e lo splendore, l’ironia e la sapienza, la fatica e la speranza di un mondo dimenticato, apparentemente lontano, ma in realtà talmente originario, più che antico, da riguardarci tutti ancora oggi.
Nessuno sguardo dall’esterno, allora, nessuna oggettivazione che spesso poi significa oggettificazione, tanto nelle pagine di Scotellaro quanto sulla scena di Pesce, ma un unico flusso d’umanità e d’incontro, che lo spettacolo regala a ritmi serrati, grazie anche a musiche della tradizione yiddish, sefardita, chassidica e lucana (eseguite dal vivo da Pasquale Laino e Stefano De Meo) e a canti tratti da queste stesse tradizioni popolari, di nuovo in linea con lo spirito più autentico, melodico ma mai soltanto lirico, dell’esperienza poetica di Scotellaro.
Esperienza poetica che fatalmente s’intrecciò a quella di un’altra grande voce della poesia del Novecento: momento di svolta nella vita di Scotellaro, a fare da pretesto e motore narrativo di Contadini del Sud è l’incontro, in una Roma che per ogni promessa di svolta nascondeva una certezza di disillusione, con Amelia Rosselli. A darle corpo e voce, a fare da interlocutrice e compagna di viaggio di Scotellaro/Pesce, è Maria Letizia Gorga, artista che della sinergia tra teatro, poesia e canto ha fatto da sempre il proprio peculiare, esemplare marchio di fabbrica. E come già in altre esperienze sceniche (si ricordi, almeno, Il folle volo, sempre scritto da Pesce e sempre dedicato a Rosselli, ma non si dimentichino Avec le temps, Dalida o Todo cambia, dedicato a M. Sosa), Gorga qui conquista per la naturalezza e l’efficacia con cui, più che semplicemente interpretare, si fa tramite e traduce corpovoce non solo una figura, ma un’intera biografia poetica, dando stavolta spazio all’incredibile candore, certo già venato di quella tragicità, di quel tormento cui siamo abituati a ricondurre l’intera sua vicenda, di un’Amelia Rosselli giovane e innamorata.
Ecco che, con l’ingresso di Gorga/Rosselli, questo Contadini del Sud che ci sembrava solo (si fa per dire) il racconto della vita di Rocco Scotellaro, diventa anche qualcos’altro: una storia d’amore, di incontro e di perdita, archetipica e già classica eppure specifica, singolare, ma anche una storia di formazione artistica, di scambio e di reciproca educazione alla bellezza. E poi, ancora e definitivamente, la messa in scena di una corrispondenza: a suggellare di nuovo l’impossibilità di scindere vita e scrittura, a farsi protagonista è il carteggio tra Scotellaro e Rosselli, le loro parole scritte, alle quali si uniscono quelle rivolte dalla madre di lui a lui che non può più sentirle, in un crescendo di pathos, ancora una volta archetipico, che scambia e confonde i ruoli e le voci, l’inizio e la fine: la strada di casa e “la via che conduce / non so dove” (A. Rosselli, Cantilena, 1953).
CONTADINI DEL SUD
dall’opera di Rocco Scotellaro e Amelia Rosselli
regia Ulderico Pesce
con Ulderico Pesce e Maria Letizia Gorga
e con Pasquale Laino (fiati) e Stefano De Meo (pianoforte)

Nasce a Roma nel 1993. Scrittore e critico teatrale, ha pubblicato i libri di poesia Pagine in corpo (Empiria, 2015) e L’uomo è verticale (Empiria, 2018) e il saggio critico Zero, nessuno e centomila. Lo specifico teatrale nell’arte di Renato Zero (Arcana, 2019). Dal 2017 collabora con il blog di R. di Giammarco Che teatro che fa su Repubblica.it.