NoteVerticali_ScenaVerticaleCi sono realtà che animano la vita culturale di provincia, fornendo stimoli sempre nuovi a una comunità desiderosa di riceverli. Ci sono realtà, nate nella provincia sonnacchiosa e misera, dove lo spirito e la creatività superano ogni genere di ostacolo. Dici Scena Verticale e pensi a una compagnia teatrale che potrebbe benissimo reggere il confronto con esperienze realizzate in territori importanti, di richiamo e non di passaggio. Invece è nata in Calabria, a Castrovillari, nel 1992, grazie alla caparbietà, alla lungimiranza e al genio di Saverio La Ruina e di Dario De Luca, che hanno fatto del teatro una ragione di vita. Tanti spettacoli al loro attivo, e numerosi riconoscimenti, tra cui, nel 2001, il Premio Bartolucci per una realtà nuova e, nel 2003, il Premio della Critica Teatrale assegnato dall’Associazione Nazionale dei Critici Teatrali. 

Di La Ruina e De Luca l’idea della Primavera dei Teatri, il festival nato nel 1999 sui nuovi linguaggi della scena contemporanea, e vincitore nel 2009 del Premio UBU. Nel 2011 De Luca vince il Premio Antonio Landieri “Teatro d’Impegno Civile”, nella categoria Migliore Attore, per l’interpretazione dello spettacolo “U Tingiutu – Un Aiace di Calabria”. E dal 2012 nasce il “Progetto MORE”, sostenuto dal Comune di Cosenza e dalla Regione Calabria, che fa rivivere il teatro contemporaneo nella residenza del vecchio Teatro Morelli, nel cuore storico del capoluogo bruzio, ospitando alcuni tra i massimi esponenti del teatro contemporaneo d’autore nazionale e internazionale. Dal 2013 il “Progetto More” si declina anche in un progetto triennale che, oltre che in forma teatrale, prende anima in corpo musicale e didattico, con concerti, incontri, laboratori, workshop, e altro, con l’obiettivo di creare occasioni di incontro e confronto tra la scena e la platea, tra il teatro e la città.

Abbiamo avuto il piacere di incontrare Dario De Luca per un’intervista.  

Ciao Dario, siamo alla vigilia di una nuova stagione teatrale per ‘More Fridays’, l’appuntamento del Progetto More che negli ultimi due anni, grazie a Scena Verticale, ha senz’altro ravvivato e rinnovato la scena culturale cosentina. Che bilancio ti senti di fare delle edizioni precedenti?

Guardandomi indietro, sono contentissimo di come siano andate le cose. C’è stata una bella partecipazione di pubblico, e in generale grande entusiasmo e curiosità da parte della città. A far la parte del leone è stato senz’altro il teatro contemporaneo, con gli appuntamenti del venerdì di ‘More Fridays’, ma sono anche molto contento del rapporto del pubblico con la musica che abbiamo proposto, e poi anche con gli appuntamenti collaterali: penso a tutto il percorso laboratoriale e di pedagogia che è un altro tassello importante di questa residenza. Credo che in città ci fosse evidentemente un’attesa, direi una fame, di qualcosa. Certo, non si può sopperire a tutto, e naturalmente una programmazione vive di alti e bassi, però sono contento del percorso portato avanti finora come direzione, e credo si possano fare ancora tante cose. Infatti, guardiamo con grande speranza alla possibilità del rinnovo di questo progetto di residenza…

 

NoteVerticali.it_Dario De Luca_4Ce lo auguriamo tutti…

Grazie. Onestamente, sono convinto, a prescindere da noi, che sia un progetto importante messo in campo dalla Regione Calabria. Sul territorio regionale vivono al momento undici residenze teatrali. Undici spazi che guardano a una collettività gestiti da compagnie di produzione. Non tutti sono andati benissimo, non ci sono stati dappertutto risultati egregi. Questo però non deve alimentare passi indietro, perché penso che continuare significhi veramente contribuire concretamente alla crescita di un Teatro in Calabria, e a mio parere in questo preciso momento ciò rappresenta un tassello davvero fondamentale.

In un certo senso tu e Saverio La Ruina, con Scena Verticale, siete stati gli apripista di un nuovo modo di fare teatro… E in Calabria tutto questo prima non si era mai verificato, nonostante ci fossero state esperienze comunque lodevoli: penso a quella del Teatro dell’Acquario…

Certo. Io sono convinto di questa cosa, anche se potrei sembrare immodesto. Hao detto bene, c’erano già esperienze di livello: io stesso esco dai laboratori di formazione del Teatro dell’Acquario. Direi anzi che, se non ci fosse stato il Teatro dell’Acquario, non ci sarebbe stato per me l’ingresso nel mondo del teatro e tutto quello che ne è seguito dopo. Però sicuramente, da un po’ di anni a questa parte, è nato e si è sviluppato un concetto nuovo, quello di ‘sistema’. Un concetto che noi abbiamo fortemente voluto e difeso, arrivando anche a battere i pugni in tante situazioni, anche istituzionali, dove invece esistevano – e resistevano – leggi ‘ad personam’, situazioni di conoscenze personali politiche. Noi abbiamo sempre detto: no, facciamo sistema, facciamo capire che esiste una qualità, un mondo che può vivere di impresa teatrale, e non di una tantum e di piccole cose. Siamo sempre stati convinti che essere soli in un territorio avrebbe significato prima o poi morire, mentre essere in tanti – e avere anche il problema di mettersi in discussione, anche in competizione – non potesse che far bene all’intero sistema. Se torniamo oggi in Regione o al ministero, siamo più forti, perché la Calabria esiste non solo per la singola compagnia, ma perché è una realtà unica. Esistono più compagnie, esistono teatri in luoghi che programmano, c’è un DAMS [Dipartimento Arti Musica e Spettacolo dell’Università della Calabria, NdR], ci sono dei critici, e anche attraverso loro ci si affaccia al panorama nazionale, raccontando anche ciò che avviene nella nostra terra… Insomma, tutto cambia.

In questi anni, è cambiato in un certo senso anche l’approccio che le istituzioni hanno verso il teatro e la cultura in genere?

Sì, è senz’altro cambiato. E’ uscito proprio di recente sul “Garantista” un articolo di Settimio [Pisano, NdR], il nostro organizzatore, che a proposito delle politiche culturali regionali evidenzia quanto maggiore sia oggi l’attenzione delle istituzioni verso il teatro e la cultura nella nostra regione. E’ vero, adesso andremo a vedere anche come si comporterà la politica: in Calabria siamo in attesa di un nuovo giorno dopo questo periodo di ‘vacanza istituzionale’, e tante cose sono partite anche grazie ai fondi europei (penso ai bandi sugli eventi storicizzati, a quelli sui grandi eventi, al Magna Graecia Teatro Festival, allo stesso progetto di residenza, eccetera). E’ pur vero però che bisogna iniziare ad avere delle economie che escano dalla regione per continuare a dare gambe forti al sistema teatrale regionale. Questa sarà la vera cartina di tornasole per capire quanto la politica creda realmente nel volano cultura, e quanto invece lo usi soltanto in campagna elettorale, e poi però non faccia nulla di concreto per dimostrare che in questa cosa davvero ci crede e vuole davvero investire…

Veniamo all’edizione di ‘More Fridays’ di quest’anno. Si comincia venerdì 7 novembre con il nuovo spettacolo di Ricci e Forte. Cosa avete preparato e in cosa si differenzierà l’edizione di quest’anno rispetto al passato?

Quest’anno abbiamo voluto fare un’unica stagione. In passato avevamo pensato di dividere le stagioni a metà, mezza in primavera e mezza in autunno, da un lato con un focus più calabrese e dall’altro con uno sguardo più sul nazionale. Ci è sempre sembrato doveroso che ci dovesse essere uno sguardo sulla Calabria, e su quanto di buono, di qualitativo e di esportabile ci fosse nella produzione calabrese. Ci piace farlo, sia perché sentiamo di averlo per vocazione (da anni ormai organizziamo il Festival ‘Primavera dei Teatri’, e in quel contesto non abbiamo mai lesinato spazio ad artisti calabresi), sia perché ci troviamo in un teatro e in una città come Cosenza, dove c’è uno sguardo attento, la stampa che ti segue, l’Università,…

…ci sono maggiori stimoli…

Sì, esatto. Il triennio di residenza si ferma a maggio 2015, quindi abbiamo deciso di fare una stagione unica importante, di lungo respiro, con le due tipicità (nazionale e regionale) per una volta unite tra loro. Iniziamo con Ricci e Forte, come nel 2012: la scelta risponde alla voglia di chiudere un cerchio. Due anni fa siamo partiti con questa scelta molto forte, dando anche un segno di cosa potesse essere la residenza di Scena Verticale a Cosenza, e adesso, che si chiude il primo triennio, volevamo riconfermare questa presenza che già è stata importante nel 2012, perché all’epoca portò in città questo duo di artisti dirompenti, che oggi tornano con “Still life”, uno spettacolo che è un vero pugno nello stomaco. Uno straordinario manifesto contro l’omofobia, contro il bullismo scaturito appunto da follie omofobiche, che parte da un episodio tragico avvenuto a Roma – un adolescente si è ucciso con la sua sciarpa rosa perché deriso dai suoi compagni – e che diventa uno spettacolo in alcuni punti davvero straziante, con la forza evocativa delle immagini e l’uso di una grammatica contemporanea che a Ricci e Forte viene davvero naturale…

Invece il 26 dicembre ci sarai tu, con “Scanti di Natale”…

Sì, quello è un gioco che ho voluto regalare alla mia città. Grazie alle forme di teatro-canzone, stando tanto tempo a contatto con i musicisti, ho avuto modo di approfondire le dinamiche musicali. Avendo un teatro in città, ci faceva piacere realizzare un concerto di Natale canonico, e regalarlo alla città. Ci saranno le canzoni del repertorio più classico, dalla grande tradizione americana, completamente riarrangiate e reinventate, fino a delle cose della nostra tradizione, che vanno dalle zampogne e ciaramelle fino alle canzoni popolari di Natale. Sarà un modo simpatico per farsi gli auguri e stare insieme.

Ci saranno poi altre rappresentazioni di Scena Verticale…

Sì, certo. Volevamo portare “Dissonorata” [lo spettacolo di Saverio La Ruina, NdR] sulle tavole del Morelli, dove non era mai stato. Era già andato in scena a  Cosenza, debuttando al Teatro dell’Acquario, e poi è stato riproposto perlopiù all’aperto (a Invasioni, al Festival delle Serre, ecc.), per cui volevamo restituirgli l’intimità del teatro al chiuso, e lo faremo quest’anno. Poi ci sarà anche il nuovo spettacolo di Saverio, “Polvere”, mentre chiuderemo la stagione ad aprile con “La stanza della memoria”…

…che è il vostro primo spettacolo…

Eh sì, e nel 2015 compirà vent’anni di vita! Tra il 1992, anno di fondazione di Scena Verticale, e il 1995 abbiamo realizzato spettacoli nei quali la regia era di altri. Penso per esempio al percorso fatto con Riccardo Caporossi, che per noi scrisse un testo meraviglioso, “La sabbia”, che portammo in scena per un paio di anni, o ancora alla collaborazione per il Teatro per ragazzi con il regista maghrebino Tarak Amman. “La stanza della memoria” è il primo lavoro interamente realizzato da Scena Verticale, il primo tassello del suo percorso come attori-autori-registi, che abbiamo replicato per dieci anni in giro per l’Italia, con oltre 400 repliche all’attivo. E sarà l’occasione anche per me e Saverio di tornare insieme sulla scena, cosa che non riusciamo a fare ormai da anni, per impegni concomitanti.

NoteVerticali.it_Dario De Luca_8Un ritorno alle origini, quindi. Un regalo che fate a voi stessi e a Scena Verticale, oltre che al pubblico…

Sì, certamente. Tra l’altro, proprio in questi giorni sto ricevendo tanti attestati di simpatia e di vicinanza da parte di chi lo spettacolo lo ha già visto, anni fa, e che, appreso che sarà nel cartellone di quest’anno, non vede l’ora di rivederlo.

E voi?

Beh, immagino che sarà divertente anche per noi. Come puoi immaginare, siamo molto legati a questo spettacolo. Credo che ci colpirà molto anche il solo fatto di rimetterci a provarlo. Forse, a distanza di anni, nel copione troveremo delle ingenuità che prima non notavamo, chissà…

Lo affronterete con una consapevolezza diversa, con l’esperienza acquisita in questi anni…

Dici benissimo. Tra l’altro, “La stanza della memoria” è già il racconto di un passato. In scena ci sono due nipoti, che non a caso si chiamano Saverio e Dario, che raccontano la vita e la storia dei propri nonni, Paolo e Francesca, incastonata nella vita di una comunità calabro-lucana, negli anni che vanno da prima della Seconda Guerra Mondiale fino agli anni ’80. Quindi, già allora, quando l’opera venne rappresentata per la prima volta, era il racconto di un passato, giocoso, ironico, a volte anche un po’ caciarone. Però è bello rifare questo percorso a ritroso con vent’anni sulle spalle in più… tanta vita in più… [ride… NdR]… sarà divertente: emotivamente e, penso, anche teatralmente.

In cartellone ci sarà poi anche l’Eneide…

Beh, sì, quello è un altro pezzo di eccellenza del teatro contemporaneo. Negli anni ’80, quando Cauteruccio si inventa quest’Eneide e va a scovare in una cantina fiorentina i Litfiba, che ancora non erano nessuno, e propone loro questa ‘operazione’, sembrava una cosa folle… Poi, invece, diventò un cult del teatro italiano…! E’ uno di quegli spettacoli che hanno fatto veramente da ‘giro di boa’, rispetto a un rapporto tra musica e teatro contemporaneo, e tra teatro contemporaneo e grande tradizione letteraria italiana… A distanza di trent’anni, Giancarlo Cauteruccio rimette su lo spettacolo, riallestendolo, richiamando i musicisti di allora, coadiuvati con i fuorisciti dall’ex CSI. Io credo che sia davvero un evento davvero importante, anche perché parliamo dell’Eneide, senz’altro uno dei capisaldi della letteratura di tutti i tempi…

Un testo sacro, praticamente…

Sì, un testo sacro, ma anche un testo italico, se pensi che quella storia fa riferimento alla costruzione dell’Impero Romano. Enea arriva qui, dalla distruzione che deriva dalla guerra di Troia, e qui fonda l’Impero, ovvero la culla della nuova civiltà occidentale…

La cosa particolare, oserei dire miracolosa del teatro contemporaneo, è che consente di rappresentare con linguaggi attuali, le storie di una comunità, di un popolo, spaziando tra differenti epoche storiche, quasi a voler sottolineare l’evidenza di un legame profondo tra passato e presente, tra tradizione e rinnovamento. E’ quanto percepisco anche nelle tue manifestazioni di teatro-canzone, dove, attraverso l’uso di una forma di comunicazione leggera, fatta di ironia e di sarcasmo, parli di attualità, e affronti i problemi di oggi, come il precariato e la disoccupazione. Peraltro, in questi spettacoli, fai ricorso, nei titoli, a operazioni di ‘caricaturizzazione’ per i frammenti di opere di Verdi. Da ‘Morir sì giovane… e in andropausa‘ a ‘Va pensiero… che io ti copro le spalle’. E’ solo un simpatico divertissment letterario o è una scelta voluta, con la quale intendi evidenziare la disillusione su cosa è diventata l’Italia rispetto alle ansie risorgimentali, di cui Verdi ha rappresentato in un certo senso il cantore?       

Beh, certamente la scelta dei titoli non è un caso. Mi fa piacere che tu l’abbia notato: devo dire anzi che sei il primo che mi fa esplicitamente una domanda su questo…! Per il teatro-canzone ho pensato a una trilogia, che ho chiamato “del fallimento”, dove ahimè racconto il fallimento della mia generazione e, più in generale, probabilmente, il fallimento della nostra società, in questo particolare momento storico. Ciascun titolo della trilogia ha quindi un incipit volutamente verdiano: “Morir sì giovane” è tratto dalla Traviata – è l’aria finale di Violetta, l’ultima scena dell’atto terzo: “Morir sì giovane, io che penato ho tanto” – l’altro è ovviamente “Va pensiero” tratto dal Nabucco. E la terza si intitolerà “Parmi veder le lacrime… ma è solo un coccodrillo”, e stavolta il riferimento è tratto dal Rigoletto. La scelta è precisa. Anzitutto, il melodramma italiano suscitava interesse sia in un pubblico popolare e semplice, sia negli intellettuali e negli aristocratici, e godeva di un grosso favore del pubblico, soprattutto allora. Lo stesso dicasi per il teatro-canzone, che comunque vive una situazione molto particolare in Italia, dopo la morte del grande Giorgio Gaber. E devo registrare anche una sorta di ostracismo culturale, perché chi prova a fare teatro-canzone subito viene guardato con la puzza sotto il naso e riceve commenti del tipo “Vabbè, ma Gaber era un’altra cosa…!”, per cui tutti quelli che provano a intraprendere questa strada sono costretti a vivere sulla propria pelle questa sorta di “spettro del padre”…  C’è da dire però che si tratta di un genere che riscuote successo presso il pubblico, perché ha un forte potere comunicativo, ed è trasversale, come per certi versi lo era il melodramma, perché si rivolge sia a un pubblico meno preparato, che magari abbia solo voglia di divertirsi, sia a un pubblico più colto, più raffinato, che può cogliere tutta una serie di sottotesti che stanno dietro lo spettacolo stesso. Mi piaceva quindi questa analogia, questo abbinamento tra due generi, il melodramma e il teatro-canzone, che sono popolari nel senso più nobile del termine, e parlano allo spettatore con un linguaggio che si può comprendere immediatamente, e coinvolge immediatamente grazie alla musica, che ha un potere di coinvolgimento ben superiore alla parola in sé. Nella scelta c’è poi una seconda motivazione: Verdi è una sorta di nume tutelare di questa operazione, perché a mio parere non fece mai un’arte d’élite. Verdi non era distante dai problemi della sua epoca, anzi, attraverso le sue opere gli piaceva avere un dialogo con l’attualità dei suoi tempi. Con questa operazione del teatro-canzone, quindi, dove ho inteso raccontare le piccole microstorie di fallimento di un uomo in un ‘contesto Italia’, mi sembrava che Verdi potesse essere il giusto nume tutelare, in quanto anche lui usava la musica per raccontare il presente che viveva. Mi piace ricordare un’espressione del beneamato nostro ex presidente Ciampi, secondo il quale Verdi e il suo linguaggio contribuirono a che l’Italia diventasse nazione. Con Giuseppe Vincenzi, autore delle musiche dei miei spettacoli di teatro-canzone, ci siamo sempre chiesti: mah, chissà cosa direbbe oggi Verdi di questa Italia che ha contribuito a rendere unita…!

NoteVerticali.it_Dario De Luca_2Teatro, quindi come rappresentazione del presente con uno sguardo al passato, che si caratterizza, nel tuo caso, anche con l’impegno civile. Penso a “U Tingiutu – Un Aiace di Calabria”, da te scritto e realizzato, e per la cui interpretazione nel 2011 hai vinto il Premio Antonio Landieri “Teatro d’Impegno Civile”, nella categoria Migliore Attore. ‘U Tingiutu’ raccontava una storia di ‘ndrangheta. Vorrei anzitutto chiederti che cosa ha significato per te da attore, e da attore calabrese, questo riconoscimento, e poi se pensi sia realmente possibile dare una testimonianza di impegno civile attraverso il teatro…

E’ stata una bellissima emozione. Ricevere dei premi, è ovvio, fa sempre enorme piacere. Quel premio è stato importante perché “U Tingiutu” è stato senz’altro uno dei passaggi importanti nel mio percorso di lavoro. E’ stato uno spettacolo che ha avuto tanta fortuna, ma ha trovato anche tante barriere. A noi sono saltati degli spettacoli, soprattutto in Calabria ma anche nel resto d’Italia, nonostante fossero stati firmati dei contratti, perché evidentemente solo all’ultimo secondo gli organizzatori si rendevano conto di cosa fosse lo spettacolo e che potesse, a loro dire, turbare le coscienze, per la violenza del tema trattato. Questa cosa ha colpito molto sia me, sia i miei attori, tutti molto coinvolti in un progetto che sentivano del tutto loro. Ho avuto la netta impressione che, dove siamo riusciti a farlo, lo spettacolo abbia colpito nel segno, sia per ciò che raccontavamo, sia per come era costruito. Sono stato altresì contento perché in “Teatro e mafia”, un libro di qualche anno fa di Andrea Bisicchia, nel quale si compie un excursus delle più importanti rappresentazioni teatrali a tema mafioso negli ultimi 150 anni, si citi, assieme ad autori di rilievo come don Luigi Sturzo, Verga, Pirandello, Sciascia, Eduardo De Filippo, anche il sottoscritto con “U Tingiutu”. Il premio Landieri mi è stato consegnato in Campania, a Secondigliano, quartiere purtroppo noto perché difficile. Lì opera una compagnia teatrale il cui lavoro è difficilissimo, quasi di collante e fortemente educativo tra legalità e illegalità. Riceverlo lì è stato davvero emozionante, una gran bella soddisfazione. Io credo che il teatro debba essere civile, altrimenti è inutile farlo… quello che non è intrattenimento per me è tutto teatro civile, se si interroga, se porta allo specchio una comunità. In questo senso, sono convinto che tutta la produzione di Scena Verticale sia ‘teatro civile’, dalla più leggera “Va pensiero… che io ti copro le spalle” a “Dissonorata”, a “La stanza della memoria”. E’ un modo di pensare il teatro che lo rende civile, è l’esigenza che si ha di comunicare un malessere, un’urgenza guardata all’interno della società in cui si sta vivendo… Per me fare teatro significa fare teatro di impegno civile…  Poi esiste il teatro di intrattenimento, a volte di qualità altissima, per cui vale decisamente la pena di essere spettatore… e quando vedo del buon teatro sono sempre felice!

Ti sei sempre visto attore, anche da piccolo?

Assolutamente sì, ho avuto questa passione sin da piccolo. Grazie al cielo vado a teatro da quando ero ragazzino, e sono convinto che l’abitudine a vedere opere teatrali contribuisca a fare di una persona un sano spettatore di teatro. Al liceo, facevo i provini per entrare come figurante negli spettacoli di lirica al Teatro Rendano: il mio primo grande approccio con il teatro è stato proprio con l’opera, da figurante potevo vedere da vicino gli attori, il coro, sentire l’orchestra, la musica dal vivo, le enormi scenografie che si spostavano… ha sempre esercitato su di me un fascino particolare. Poi, finito il liceo, mi sono iscritto a Giurisprudenza, come i miei genitori volevano, ma dopo tre anni mi son detto: Non è la mia strada, e lì ho svoltato. Mi sono iscritto a una scuola di teatro, ho frequentato il DAMS a Cosenza nel ’90 e da lì ho cambiato la mia vita…

Immagino non sia stata una scelta facile… 

Beh, no, immagina in quel periodo una cittadina di provincia come Cosenza… Forse oggi c’è uno sguardo più aperto verso queste possibilità, verso questi mestieri, oltre al fatto che c’è un crollo dei mestieri importanti… se prima laurearsi in Medicina o in Giurisprudenza dava comunque una certa stabilità, e lasciava presagire un avvenire sicuro, importante, oggi non è così. Per cui, da un parte c’è il crollo di queste grandi strade, dall’altra c’è un’apertura diversa al mondo dell’arte, quindi ritengo che oggi sia un po’ più facile… Pensa che a 22 anni ho fondato una compagnia, e all’epoca ero davvero un pischello [ride…NdR], e l’ho fatto a Castrovillari! Mio padre era scioccato per questa cosa, tanto che per anni non ci siamo quasi parlati. Pensa: io lascio Giurisprudenza, arrivo al DAMS – che all’epoca non si capiva esattamente cosa fosse! – inizio la scuola di teatro, dopodiché un giorno dico a mio padre: Me ne vado, perché devo fondare una compagnia… e dove? A Castrovillari…! Non è stato facile, anche perché già è difficile far passare l’idea che uno faccia l’attore di teatro, e già la scelta è folle, poi per giunta in un contesto geografico che non è Roma o Milano o un’altra città, ma è più piccolo di Cosenza… insomma, mi prendeva quasi per pazzo…

Finalmente, la tua tenacia è stata premiata: immagino che con gli anni abbia cambiato opinione…

Sì, ha cambiato senz’altro opinione. Mi dispiace solo che non abbia avuto il tempo di dirmelo… so però che, sia pure da lontano, mi seguiva, attraverso ritagli di giornale che parlavano dei miei spettacoli, informandosi…

NoteVerticali.it_Dario De Luca_7Oltre al teatro, mi piace ricordare le tue (sia pur brevi) incursioni nel mondo del cinema. Forse non tutti sanno che hai partecipato a “Boris – il film”…

Sì [ride, NdR]. E’ nato tutto un po’ per caso. Tra l’altro, se il teatro lo puoi fare anche dalla periferia dell’impero, il cinema no, devi andare a Roma o comunque in una grande città… E’ stato un caso, attraverso strade non canoniche, ma sono contento di queste incursioni, che poi hanno il sapore del “cult”: penso a “Boris”, ma anche a “La leggenda di Tony Vilar”, di Giuseppe Gagliardi, che se vogliamo è il primo mocumentary all’italiana…  Il cinema però è un’altra cosa rispetto al teatro: onestamente non mi piace, è una macchina che deve tener conto di troppe cose, e tu sei una piccola rotellina dell’ingranaggio. In più, il lavoro è talmente frammentato che non hai il tempo quasi di renderti conto di quello che stai facendo. Devi sviluppare una modalità di lavoro che è giusta solo per quel media: tempi di attesa lunghissimi, e poi arriva il tuo turno e devi essere pronto, emotivamente, come trucco e parrucco, eccetera. Chi fa teatro, invece, sa che la cosa viene costruita nel tempo, con tanta meticolosità e pazienza, giorni e giorni in sala prove,  appena lo spettacolo è pronto vive di una concentrazione che incameri e dopo fai esplodere nell’arco dello spettacolo. C’è insomma una diversa modalità per gestire le energie. E siccome non lo faccio sempre, non avendo sviluppato quella modalità di lavoro di cui parlavo, mi capita di viverlo sempre con profondo terrore e con grande stanchezza. Poi però, beh, il cinema è la magia, vederti sullo schermo è straordinariamente emozionante, sai che rimarrai, e così potranno rivederti i tuoi figli e i figli dei tuoi figli. Per il teatro è diverso: “U Tingiutu”, se non l’hai visto, purtroppo non potrai rivederlo… resta negli annali, nelle critiche di chi lo ha visto, ma non potrai recuperarlo. Certo, ci sono le riprese d’archivio, ma non è la stessa cosa…

Già, riprendere il teatro è una cosa complessa…

Beh, sì, pensa a “Sabato, domenica e lunedì” di De Filippo, nell’allestimento fatto da Toni Servillo per la regia di Paolo Sorrentino. Certo, è un bellissimo prodotto, ma non ha nulla a che vedere con lo spettacolo dal vivo. E’ un’altra cosa, nonostante ci sia una mente sopraffina che è quella di Servillo, la regia di un regista come Sorrentino, per giunta napoletano. Si capisce che dietro c’è una riflessione, ma non ti ridà la magia che si crea nella rappresentazione teatrale.

Bene, Dario, grazie. Sono davvero contento di questa chiacchierata! 

Grazie a te, anche a me ha fatto molto piacere!

 

 

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