Nell’oblio di un mondo in crisi, in cui la paura si trasforma in psicosi collettiva, il bene e il male hanno bisogno di essere definiti. Ma può davvero esistere un confine netto tra le due parti?
Un bunker claustrofobico, due personaggi a confronto. Un giornalista, De Bois (Simone Patti) in cerca di risposte all’indomani di un attentato che ha provocato la morte di più di un milione di persone. Dall’altra parte del tavolo, la mente della strage Ecoh (Marco Quaglia), che con calma e lucidità formula egli stesso delle questioni. Il primo chiede il perché, il secondo, affascinato dal potere della tecnica, enfatizza sul come. Interrogandosi, confrontandosi, scontrandosi in un testa a testa dai toni foschi, ogni tematica universale – la crisi economica, la riflessione sul Potere e su Dio – diventa il pretesto per avvicinarsi al particolare. Ed è qui che la linea che li separa svanisce e la situazione precipita. I due si specchiano fino ad essere intercambiabili, si scoprono fratelli separati alla nascita. L’interrogativo resta.
Con “Echoes” Stefano Patti porta sul ring della scena una sfida dialettica in cui non possono esserci vinti ne vincitori. Cupo e asfissiante, lo scambio di battute tra i due è nervoso, alleggerito solo a tratti da battute che suscitano risate altrettanto nervose in chi assiste. Ed è proprio lo spettatore a giocare un ruolo particolare nell’economia visiva dello spazio scenico del Teatro Studio Uno di Roma. Così come le due controparti parlanti, l’uno gruppo spettatoriale si riguarda nell’altro. Come in un circuito chiuso di uno studio televisivo l’effetto è quello di familiarità e stranezza, vicinanza e distanza. Il tutto è enfatizzato dalla componente sonora di Samuele Ravenna, scandita di volta in volta dalla voce attenta e calcolatrice di Programma, fedele creazione della follia di Ecoh. Il testo di Lorenzo De Liberato, abilmente interpretato dal duo Patti – Quaglia e messo in scena dalla Compagnia Marabutti, spinge senza eccessi a una riflessione tutta attuale.