Abbiamo incontrato l’attore e registra teatrale cosentino, di ritorno con Massimo Garritano dalla fortunata tournée in Stati Uniti e Canada per la rassegna InScena! Italian Theater Festival NY
Tante definizioni ha il teatro. “Parabola del mondo” secondo Giorgio Strehler, il luogo dove “tutto è finto ma niente è falso“, per citare Gigi Proietti, “non il paese della realtà, ma il paese del vero” parafrasando Victor Hugo. Ma è anche una miriade di mondi, e soprattutto ha un linguaggio universale, che unisce popoli e culture e che, rappresentato in ambiti geografici differenti, può dar luogo a riscontri che egualmente possono gratificare pubblico e attori, in quello scambio di emozioni che solo il palcoscenico è in grado di regalare. Un’iniziativa come In Scena! Italian Theater Festival NY, promossa da Kairos Italy Theater in collaborazione con KIT Italia e Casa Italiana Zerilli-Marimò at NYU con il supporto del Ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, dal 2013 ha il merito di far apprezzare oltreoceano il teatro italiano contemporaneo, promuovendo non soltanto la rappresentazione delle drammaturgie di autori nostrani, ma anche incontri e scambi tra artisti italiani e internazionali. Dopo quella dello scorso maggio, nella quale il festival ha fatto tappa a Detroit, San Diego e Los Angeles, dal 27 ottobre al 5 novembre 2023 si è svolta una edizione speciale della rassegna che ha toccato la West Coast (San Diego e Santa Rosa, in California) e il Canada (Calgary e Lethbridge). Tra gli artisti protagonisti, Ernesto Orrico, attore e regista cosentino tra i più talentuosi della scena contemporanea, che ha portato in scena “La mia idea“, ispirato alla vicenda dell’anarchico Joe Zangara. Abbiamo incontrato Orrico al rientro dalla tournée.
Anzitutto bentornato in Italia. Quali sono le prime sensazioni che hai portato con te da questo ultimo viaggio?
Intanto un grande senso di gratitudine verso InScena Italian Theater Festival NY che ha reso possibile questa tournée. Laura Caparrotti e Donatella Codonesu, le curatrici di questo progetto sostenuto dal Ministero degli Esteri, hanno costruito un cartellone di qualità, capace di creare un dialogo fecondo con i Centri di Cultura Italiana che ci hanno ospitato. Oltre alla nostra proposta, c’erano “Le funambole” con Antonella Romano e Rosario Sparno e “Manca solo Mozart” con Marco Simeoli, due spettacoli poetici e coinvolgenti interpretati con straordinaria sapienza artigiana. Da sottolineare l’importante lavoro di preparazione svolto dagli organizzatori locali, Beatrice Basso a San Diego, Susan Macaluso e George Golfieri a Santa Rosa e Luigi Audia a Calgary. Anche grazie a loro gli spettatori che abbiamo incontrato hanno manifestato grande attenzione e calorosi apprezzamenti verso tutte le proposte, evidenziando una forte richiesta di arte italiana originale.
Lo spettacolo che hai presentato con Massimo Garritano, “La mia idea”, è ispirato alla storia di Joe Zangara, che nel 1933 attentò alla vita del presidente americano Roosevelt. Una vicenda dalla forte valenza sociale, considerando che il protagonista era un emigrato di origine calabrese. In occasione del tuo precedente viaggio negli States, nel 2017, avevamo parlato dell’impronta che la politica di Donald Trump stava esercitando sugli Stati Uniti. A distanza di sei anni ti rifaccio la stessa domanda. Che America hai trovato e che differenze hai percepito tra i luoghi visitati quest’anno (Canada incluso) e la New York del 2017?
Questa volta siamo stati in California, a San Diego e a Santa Rosa, ospiti dei relativi Centri di Cultura Italiana, il nostro “La mia idea” ha suscitato molte domande, trattandosi di una storia scarsamente conosciuta da parte della comunità italo-americana, nelle conferenze post-spettacolo ci è stato chiesto di approfondire alcuni degli episodi della vicenda e non sono mancati gli interventi di chi ha trovato nella vita di Giuseppe Zangara dei parallelismi con le proprie storie familiari, al netto dell’epilogo tragico.
Da un punto di vista socio-politico, almeno da quel poco che ho potuto vedere, dopotutto siamo rimasti solo 10 giorni sul suolo statunitense, mi è parso di cogliere una generale serenità rispetto alla precedente visita nel 2017. Per le strade si respirava un clima operoso e collaborativo. Di certo in California, rispetto alla frenetica New York, la vita scorre con un ritmo più lento, il clima mite e una natura rigogliosa che mi ha veramente stupito, mi hanno fatto pensare ad una sorta di Calabria amplificata 100 volte (sottolineo che mi riferisco all’ambiente naturale!). Certo non mancano le contraddizioni, il problema degli homeless ad esempio, i prezzi delle case sono notevolmente saliti nel post Covid, non sono poche le persone costrette a vivere per strada.
In Canada siamo stati a Calgary, città ricca e moderna nello stato dell’Alberta, qui da più di 70 anni esiste un Centro di Cultura Italiana, situato in un edificio che comprende una magnifica sala per gli eventi, un ristorante e, particolare importantissimo, una scuola dove si insegna italiano. La numerosa comunità italo-canadese è composta soprattutto da calabresi e abruzzesi di seconda e terza generazione, attualmente il presidente del centro è Luigi Audia, che vanta origini di San Giovanni in Fiore.
L’esperienza appena compiuta ti ha portato a confrontarti con atmosfere diverse da quelle alle quali sei abituato. Mi riferisco al pubblico, ma anche ai tuoi colleghi. Qual è il bagaglio culturale accumulato che ti porti dietro con maggiore piacere?
Per me il succo del teatro è l’incontro, l’energia che si crea tra performer e pubblico; tutto ciò che è compreso tra palco e platea concorre ad alimentare questa energia: gli sguardi, i suoni, i sospiri, i rumori imprevisti, gli applausi più o meno fragorosi, i silenzi eloquenti, le diverse risate, le teste che ciondolano, le musiche che fanno battere il tempo col piede… E la cosa bella è che ogni pubblico, a suo modo, è perfetto. A me interessa la potenza di trasformazione che il teatro è in grado di innescare, tornare a casa con un cambiamento che solo l’incontro con l’altro può accendere. In queste esperienze all’estero c’è una variante particolare, la ricezione della lingua, gli spettacoli vengono proposti in italiano accompagnati dalla proiezione dei sovratitoli in inglese, è davvero interessante osservare, dalla scena, ciò che fa lo spettatore, c’è un particolare lavoro degli sguardi che nella maggior parte dei casi sviluppa un livello di attenzione elevatissimo, e l’incontro energetico se ne avvantaggia.

“Andare a teatro è un’assunzione di responsabilità verso il presente”. Ho letto questa frase su un tuo recente post social. Sono totalmente d’accordo e mi permetto di aggiungere che anche fare teatro oggi sia un’assunzione di responsabilità. Farlo poi partendo dalla Calabria credo resti una scommessa non da poco, che testimonia un’assunzione di responsabilità non indifferente. Nu teatru ‘ncuaddru, per usare un’altra tua espressione. Pensi che questa responsabilità sia mutata nel corso degli anni e, se sì, in che modo?
Gli artisti sono antenne del disagio, delle storture, delle mancanze, svolgono una sorta di vigilanza attiva sulla società che attraversano e questo accade anche quando la società è sfuggente, polverizzata, digitalizzata e degli artisti pochissimo si accorge. Il teatro in particolare deve essere testimonianza, altrimenti semplicemente non è, resta intrattenimento, gradevole magari e con una sua utilità contingente, ma solo quello a che serve? Andare a teatro, partecipare a quest’arte antichissima che funziona solo se forma una comunità, seppure temporanea, è una responsabilità verso se stessi e verso gli altri, per come siamo ora, per come potremo essere in futuro. Il presente si manifesta nell’atto teatrale con poetica prepotenza, nel qui e ora, sono i corpi la cosa importante, ciò che conta è esserci.
E a proposito di evoluzioni, come è cresciuto negli anni il tuo legame artistico con Massimo Garritano?
Siamo molto diversi, ma entrambi curiosi, questo ci ha spinto, nel tempo, a cercare forme inedite per manifestare la nostra irrequietezza creativa. Nelle opere che abbiamo proposto in questi anni, da “La mia idea. Memoria di Joe Zangara” a “Talknoise”, da “La fuga di Pitagora lungo il percorso del sole” a “Malamerica”, abbiamo sperimentato ogni volta un approccio diverso al dialogo scenico tra parola e musica. Anche gli errori, che fortunatamente si manifestano durante i processi creativi, sono stati occasione per spostarci da qualche altra parte, in una dinamica di accoglienza e mai di fredda opposizione. Ogni volta che affrontiamo un nuovo progetto, Massimo dedica particolare attenzione alla scelta “timbrica” da dare alle sue composizioni, fa un lavoro di preparazione certosino e questo gli consente di essere molto libero durante l’esecuzione e di abbandonarsi all’improvvisazione. Ogni performance rimane un unicum. Ad esempio nella Hall of Nations di San Diego, appena arrivati abbiamo notato la presenza di uno splendido pianoforte verticale. Lui subito ha deciso di inserirlo nella performance, proponendo così un “impasto sonoro” del tutto inedito. Questo tipo di attitudine è un grande aiuto alla mia “recitazione”, mi spinge, nel qui e ora della performance, a rinnovare la forma a tutto vantaggio del contenuto emozionale.

A cosa stai lavorando in questo periodo? Hai qualche anticipazione per noi?
I prossimi mesi saranno di programmazione, ci sono “La mia idea” e “Malamerica” pronti per essere replicati, anche se in verità sono poche, pochissime, le possibilità di portarli in tournée in maniera adeguata. La Calabria teatrale, al netto dei grandi progressi artistici degli ultimi anni, resta tagliata fuori dai circuiti di distribuzione. Il sistema dei contributi ministeriali non favorisce l’investimento dei teatri finanziati nel teatro indipendente, una tendenza che sta creando non pochi problemi e che rischia di uccidere un approccio alle arti della scena che, negli ultimi 30 anni, ha profondamente rinnovato il teatro italiano. “La mia idea” in questa nuova versione è stata realizzata grazie alla sinergia tra Zahir e Teatro Rossosimona, diversamente sarebbe davvero complicato, se non impossibile, riuscire a riportarla in U.S.A. e per la prima volta in Canada. La condivisione di progetti artistici, la collaborazione tra diversi soggetti produttivi, l’apertura verso la sperimentazione, il dialogo costante con il territorio, l’investimento su maestranze qualificate, sono le linee che potrebbero dare un rinnovato impulso all’arte teatrale del presente, in Calabria e fuori dalla Calabria, diversamente ciascuno resta nel proprio orto di sopravvivenza, più o meno ben coltivato e artisticamente rilevante.

Idealista e visionario, ama l’arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia…