Il recente “Pasolini” di Abel Ferrara ha consolidato non solo l’indubbia qualità artistica del regista newyorchese e la capacità espressiva di un genio attoriale del calibro di Willem Dafoe, ma ha confermato le doti di montatore di Fabio Nunziata. Nato nel 1965 a Cosenza, Nunziata ha al suo attivo un passato da regista e attore, avendo diretto e interpretato, tra gli altri, con Eugenio Cappuccio e Massimo Gaudioso “La vita è una sola” nel 1999. La sua carriera di montatore gli ha già regalato belle soddisfazioni. Si segnalano tra gli altri i suoi montaggi di “Il ritorno di Cagliostro” (2003) di Ciprì e Maresco, “Se sei così ti dico sì”, sempre diretto da Cappuccio nel 2011, e “La moglie del sarto”, di Massimo Scaglione. Lo abbiamo incontrato per un’intervista. 

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        Fabio Nunziata al lavoro di montaggio

Partiamo anzitutto dal film ‘Pasolini’. Che sensazioni ha provato nell’approcciarsi alla storia di un personaggio così complesso?
Sensazioni complesse appunto, per un viaggio che è durato un anno. All’ínizio autentico terrore di fronte a una impresa impossibile – raccontare Pasolini, e nelle ultime ore di vita – sembrava quasi una bestemmia. Confesso che questa angoscia di poter fare qualcosa di imperdonabile mi ha accompagnato per un po’, poi man mano che Abel e Maurizio Braucci andavano avanti con le interviste e la sceneggiatura, è cambiato qualcosa. Pasolini da idea intoccabile mito e divinità del nostro tempo diventava sempre più un uomo, come tutti noi, e questo rendeva ancora più straordinario il suo agire, ancora più vera la sua opera. Ho abbandonato definitivamente ogni resistenza quando ho riafferrato in pieno il concetto che non può esistere la realtà, la verità, nel cinema – si può essere più o meno realistici, ma qualsiasi ricostruzione di un evento in un film non può che essere soggettiva, personale. Da lì mi sono lasciato trasportare tanto in fondo per quanto ho potuto nella storia di quest’uomo, cercando di capirne soprattutto le idee e i sentimenti. Con la sua potente intelligenza, il suo acume, la sua estrema sensibilità, Pasolini spesso ci mette di fronte ai nostri limiti, ci forza ci sfida a superarli, per questo rimane ancora un autore scomodo, e a volte affrontarlo è stato anche faticoso. Ma proprio grazie a questo ti regala anche e soprattutto delle intuizioni meravigliose, delle emozioni profonde, dei momenti di grande magia.

Il suo rapporto lavorativo con Abel Ferrara è molto stretto. Cosa apprezza di più del modo di fare regia di Ferrara e in cosa secondo lei si distingue rispetto ai suoi colleghi?
Mi piace molto il lavoro che riesce a fare con gli attori, una sorta di intesa misteriosa di cui ancora non sono riuscito a carpire bene il segreto, ma da cui viene fuori sempre qualcosa di speciale. Ma in generale tutti i film di Abel Ferrara hanno comunque degli argomenti, uno stile, delle atmosfere che è difficile ritrovare in altri film, e questo rende diverso e riconoscibile il suo cinema. Dipende soprattutto dal fatto che per sua natura ha sempre rifiutato qualsiasi limitazione, e anche a costo di pagare un prezzo alto, fa sempre i ‘suoi’ film.

Cosa può dirci invece dell’interpretazione di Willem Dafoe?
Willem è un grande attore, le sue capacità sono conosciute e riconosciute. Ma devo dire che in questa occasione insieme ad Abel è riuscito a creare veramente qualcosa di straordinario. Partendo da uno studio accurato dell’uomo reale che doveva rappresentare, invece di cercare di imitarlo ne ha evocato il carattere, l’essenza, riuscendo a portare lo spettatore vicino al centro dell’anima di Pasolini, a metterlo in contatto con le sue idee e i suoi sentimenti, incastrando perfettamente il suo personaggio in quella complessa dimensione del film sempre al limite tra un realismo profondo e una profonda astrazione. Forse è un collegamento banale, ma nelle sua interpretazione mi è sembrato di ritrovare una sintesi tra il Gesù di Scorsese e quello di Pasolini.

Il ruolo del montatore in un film è fondamentale: se è vero che è il regista a realizzare le scene, è altrettanto vero che il montatore si preoccupa di ‘confezionarle’ secondo uno stile e un linguaggio che saranno poi – agli occhi dello spettatore – lo stile e il linguaggio del film. Le capita solitamente di seguire le riprese sul set o preferisce non interferire nel lavoro di regia?
Il cinema è un lavoro di gruppo, e i limiti e i confini dei ruoli sono anche elastici, cambiano a seconda delle collaborazioni. Con Ferrara ad esempio inizio a lavorare il primo giorno di riprese e vado spesso sul set – ma certo non per interferire nella regia, piuttosto come supporto per verificare insieme le diverse inquadrature utili e necessarie a comporre la scena, per confrontarci su dei cambiamenti che riguardano lo sviluppo della storia. Mi piace l’aria del set, tante persone tutte insieme che lavorano per un unico risultato, e quei momenti di magia dopo il ciak – ma poi mi stancano i tempi lunghi che passano tra i veri momenti creativi, così alla fine preferisco tornare alla sala di montaggio, dove ho un rapporto creativo continuo e diretto, intimo e personale con il film.

Fotogramma tratto da "Pasolini" di Abel Ferrara
Un fotogramma tratto dal film “Pasolini” di Abel Ferrara, montaggio di Fabio Nunziata

Tornando a ‘Pasolini’, il film non mostra una continuità narrativa lineare, ma mescola in sè il racconto dell’ultimo giorno di vita del regista, unito a una narrazione ‘oniricà, legata alle opere (‘Petroliò, ‘Porno-Teo-Kolossal’, ‘Saló’) che Pasolini aveva in mente nell’ultimo periodo della sua esistenza. Qual è stata la chiave di lettura per assemblare le scene nell’unico filo narrativo che ha costituito poi la struttura del film?
Per citare il Pasolini di Petrolio, potrei dire che l’arte narrativa è morta, in particolare nei film. Mi sembra che uno dei motivi principali della crisi del cinema sia anche il continuare a riproporre degli schemi di racconto che ormai dopo oltre cento anni, sono stati sfruttati fino alla consunzione e allo svuotamento. Rimane invece ancora tutta da esplorare quella capacità meravigliosa del cinema di rappresentare e comunicare attraverso modi che non hanno più a che fare soltanto con la forma letteraria del racconto, ma piuttosto attraverso la ricostruzione e l’evocazione di quei meccanismi che all’interno della nostra mente, della nostra anima, ci permettono la percezione del significato o dei sentimenti; che governano non solo quelle nostre capacità magiche e misteriose come la memoria, l’intuizione o l’immaginazione, ma anche la semplice percezione della realtà. Il montaggio è sicuramente un momento centrale nella ricostruzione di questo linguaggio.
Nel caso di Pasolini, nel tentativo di raggiungere e rappresentare anche solo per un momento la sua complessa straordinaria umanità, non si poteva che raccontare anche attraverso la sua opera, cercando di collegarla al suo vissuto e ai suoi sentimenti. Abbiamo dovuto trovare una forma adatta per le proiezioni del suo mondo interiore, cosi in alcune parti del film abbiamo forzato il realismo delle immagini e del racconto verso una dimensione psichica e onirica, che comunicasse in maniera emotiva e diretta. Gli eventi delle ultime 24 ore della sua vita, dunque, si intrecciano con la visione interiore in un flusso di coscienza, e lo scrittore il poeta e regista come in una staffetta si da il cambio con il suo doppio che compare in varie forme nelle opere a cui stava lavorando in quel periodo – Salò, Petrolio, Pornoteokolossal. Anche attraverso le lettere private, la sua parola affiora nel film, breve, Iluminata, potente, a lanciare luci e ombre sulla sua personalità, sulla sua esistenza. Abbiamo usato musiche che Pasolini aveva usato nei suoi film per esprimere determinati sentimenti.


NoteVerticali.it_PierPaoloPasolini_1A distanza di quasi quarant’anni, l’omicidio di Pasolini è ancora avvolto dal mistero. Il film non svela nulla di nuovo. Come spiega questa scelta?

Se in 40 anni di inchieste investigazioni e processi non si è mai riusciti a trovare la cosiddetta verità, non capisco come si possa anche solo pensare che questa possa arrivare da un film. Personalmente credo che questa verità non si troverà mai – ma non è questa la verità più importante, è proprio questo il punto. E’ ormai certo che ad uccidere Pasolini quella notte siano state più persone, e sia che quelle persone fossero state mandate lì apposta, sia che l’omicidio sia stato conseguenza di una situazione sfuggita di mano, comunque all’ origine del delitto c’è quel potere che lui continuava a denunciare con estremo coraggio, rischiando il proprio per il bene di tutti; l’imposizione di un sistema un modo di vivere che stava portando una mutazione profonda e negativa nella nostra cultura nella nostra società, producendo una violenza fino allora sconosciuta e che oggi invece conosciamo bene. Nell’ultima intervista, quella con Furio Colombo, che oggi può apparire come un lucido testamento, e che è un momento fondamentale del film, in realtà Pasolini a mio avviso spiega meglio di qualsiasi indagine o processo i veri motivi e i reali responsabili del suo assassinio. Ma la cosa più crudele della morte di Pasolini – più crudele dello stesso efferato omicidio –  è che lo scandalo e il mistero costruito attorno a quell’ unico momento ha oscurato e oscura ancora da 40 anni ingiustamente tutta la vita, l’umanità e il pensiero, la figura stessa di questo grande uomo, cercando di relegarli in un luogo scomodo e difficile da raggiungere. Era necessario dunque ritornare in quel momento decisivo della morte, in cui la vita e l’opera di Pasolini erano state interrotte, per poter riportare proprio su quel momento una visione diversa di quello che è accaduto, a mio avviso più giusta, rappresentandolo nella sua verità umana – la fine tragica di un uomo eccezionale, di un essere umano strappato con ferocia alla sua vita e ai suoi affetti, e soprattutto la perdita per la nostra società di un faro, di un punto di riferimento importante, di una voce critica che ci difendeva e ci aiutava a crescere. Uno dei pregi del film di Ferrara è che riparte proprio da quel momento per avvicinarci davvero a quell’ uomo, per restituire alla voce e alla figura di Pasolini una dimensione vera nel presente, riproponendone la forte attualità, e proiettandole nel futuro attraverso le opere che in quel momento stava realizzando, lasciandoci a pensare a tutte quelle che avrebbe potuto realizzare.

Nel suo ricco curriculum troviamo esperienze di regia. Pensa di poter dare loro una continuità, o ritiene di aver definitivamente scelto il montaggio?
Nel lavoro del montaggio ho costruito nel tempo una mia dimensione creativa che mi appassiona e mi si addice, che mi ha permesso di avere uno scambio con progetti e persone che sono state esperienze per me importanti, dunque non ho particolari stimoli in altre direzioni. Ho molto rispetto del lavoro del regista, e penso che fare un film sia una responsabilità importante. Di film fatti per mestiere e necessità o senza ispirazione mi sembra che ce ne sono abbastanza in giro, non sento assolutamente il bisogno di aggiungere i miei. Questo non toglie il fatto che nel mio rapporto con il cinema ho seguito un percorso personale che mi ha portato anche a sperimentare più ruoli, e che anche per via di queste esperienze spesso mi viene chiesta una partecipazione ai film che sconfina dal ruolo classico del montatore. Dal punto di osservazione del montaggio poi, si impara molto su cosa funziona e cosa non funziona in un film. Se mi capitasse l’occasione come in passato di poter girare un film in libertà, a modo mio, forse  lo farei. Ma al riguardo posso solo dire che – per citare un romano famoso – non escludo il ritorno.

Lei è originario di Cosenza. Che rapporto ha con la sua città e con la sua regione di origine?
Cosenza nel presente è un luogo per me ormai misterioso, quasi estraneo, con il quale conservo affetti e amici, e una familiarità profonda legata soprattutto al passato. Se devo essere sincero, prima ancora che calabrese o cosentino, sento di essere bruzio. Riconosco profondamente in me la cultura antica del popolo da cui discendo, un popolo di guerrieri rude e ribelle, ma a lungo influenzato dal pensiero degli antichi greci.

Quali sono secondo lei le prospettive di un giovane di oggi che da Cosenza vorrebbe lavorare nel cinema? Cosa gli consiglierebbe?
La prima cosa che consiglierei è di guardare molti film, di leggere di studiare la storia del linguaggio e del cinema. Poi, di trovare un gruppo di persone per fare, concretamente, sfruttando anche l’agilità delle nuove tecnologie. Se un tempo l’uso della pellicola e di complicati costosi macchinari costringeva per necessità la realizzazione del cinema a Roma e con costi esorbitanti, oggi il digitale permette in teoria di realizzare un film dappertutto e con poco.

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Con Massimo Gaudioso in una scena tratta dal corto “Il caso di forza maggiore” (1998), diretto da entrambi insieme a Matteo Garrone

Da addetto ai lavori, come giudica lo stato di salute del nostro cinema?

L’impressione è che sia diventato veramente difficile fare dei buoni film in Italia. Il cinema, grazie anche a interventi legislativi che hanno distrutto negli ultimi decenni la possibilità di esistere delle produzioni indipendenti, è ormai nelle mani di pochi soggetti perlopiù legati al mondo e alla cultura televisiva. Di fatto, il cinema italiano in generale negli ultimi anni sembra aver smarrito la sua particolarità, cancellando quasi completamente un’eredità professionale e industriale, culturale e artistica che non aveva pari nel mondo. Mi sembra che anche il cinema abbia partecipato a generare quello scadimento culturale generale nella nostra società, del pubblico come degli autori. I film diventano format da riproporre all’infinito, nelle storie e nello stile. E dove non c’è differenza, diversità, non ci può essere evoluzione. Tutto questo mentre il computer e la rete stanno portando nelle nostre vite una rivoluzione epocale, che spinge verso un rapporto sempre più individuale e virtuale con la realtà. Mi sembra dunque che il cinema nella forma in cui lo abbiamo conosciuto fino ad oggi sia destinato a scomparire più o meno velocemente, e a trasformarsi in qualcosa di altro. Ma si ci sono ancora energie positive nel cinema italiano e intorno, e ci sono segni di questo cambiamento che mi fanno guardare con fiducia al futuro.

 

 

Di Luigi Caputo

Idealista e visionario, ama l'arte come la vita, con disincanto, sogno e poesia...